L’Unità 20 marzo 2013
Secondo una teoria che risale al 1929 e a uno scrittore ungherese, Frigues Karinthy, che ci scrisse su un racconto, e che poi fu pure provata scientificamente, qualunque persona può essere collegata a qualunque altra attraverso una catena di conoscenze con non più di cinque intermediari. Devo però avvertire il lettore che fra me e Lidia Ravera non ci sono i regolamentari sei gradi di separazione. Perché ci conosciamo da trent’anni e piuttosto bene. Dunque se adesso io scrivo che il suo nuovo romanzo, da oggi in libreria, è molto bello, è feroce, è determinato a dire verità inconsuete, è una festa di parole ben scelte, tutte al posto giusto, tutte precise, lapidarie come la materia che tratta – vecchiaia, morte e grandi amori – corro il rischio di non essere creduta. Eh, già, siete amiche! Amiche sincere però, che quando una delle due scrive una schifezza (capita molto di rado, per la verità) l’altra non si tira indietro e – con la faccia da funerale, questo sì – si prende la briga di dirglielo. E’ successo. Sul serio. E con più spietatezza del necessario.
Invece Piangi pure (Bompiani, 366 pagine, 18 euro) è il libro più bello che Lidia abbia scritto: ha tutte le sue qualità e nessuno dei suoi difetti. E non è scritto per intrattenere, ma per aggiungere conoscenza al reale. Racconta come due anziani signori, vicini di casa, Iris di settantanove anni e C. che ne ha tre di meno, ma è malato così risulta in pratica più vecchio di lei, comincino a frequentarsi nel bar della strada, a lanciarsi battute da un tavolino all’altro, consigli, sciocchezze divertenti, notazioni pungenti sulla vita, sugli altri. Diventano amici. Ci hanno messo tre anni. E poi scoprono di essersi innamorati, sì – insomma – innamorati forse è una parola che appartiene alla giovinezza, scoprono di aver costruito inavvertitamente un legame che non può che chiamarsi amore e desiderio e bisogno di appartenersi. Lei ha pubblicato un libro di successo molti anni prima e per il resto ha inanellato un mare di errori. E’ una persona dura, poco sentimentale, che però per inseguire un uomo frivolo che non la ricambiava non ha esitato, quarantenne, a lasciare la figlia al marito e fuggire e ora, quasi a ottanta, vende la nuda proprietà per mettersi al sicuro economicamente senza porsi il problema nemmeno di avvertirla quella figlia. Lui è uno psicoanalista freudiano. E’ un uomo intelligente, spiritoso, profondo e capace di grande leggerezza, Capace di capire Iris e di mostrarla a se stessa, capace di innamorarsi davvero, pur senza bisogno di mitizzare né se stesso né l’oggetto della sua tardiva passione. E’ un grande personaggio, intorno a cui ruota la parte più convincente e nuova di questo romanzo.
Non era per niente facile dare corpo a una storia così. Trovare parole e situazioni credibili, dialoghi serrati e pieni di humour e insieme di contenuti serissimi, definitivi persino. Lidia Ravera ci è riuscita ricorrendo ai toni che destreggia meglio, quelli della commedia, per raccontare qualcosa di esaltante e di tragico, un amore ai limiti del possibile, la minaccia concreta della malattia e della fine. Ha condito la vicenda centrale di due carnalissimi eroi – che molto hanno vissuto e cui resta un pezzo di vita da riempire con massimo controllo e intelligenza – di altre presenze, secondarie ma importanti, la figlia e la nipote di lei, la moglie di lui, alcune significative comparse (il barista simpatico, gli acquirenti della nuda proprietà, figure degradate e brutali di una contemporaneità materialista e volgare) facendoli muovere in una giostra complessa con rigoroso calcolo di ogni entrata e uscita di scena.
Per come la vedo io sarebbe bastato a un magnifico libro anche solo la storia stringata di Iris e C., quel loro volersi sentire «per un attimo pericolosamente felici». Una storia, per ammissione della stessa autrice durante una chiacchiera telefonica: «Scritta per contraddire gli stereotipi e ce ne sono tanti sull’amore in tarda età». Ma Lidia è una romanziera e ha bisogno di dire di più e di contraddirne pure molti altri di stereotipi. Per esempio quello del titolo. In Piangi pure le lacrime restano fuori, la narrazione è improntata a «una severa voglia di ridere» e il pianto è concesso solo «per il sollievo» di essere ancora vivi.