Le magie che fanno certi libri (Left, 6/7/13)

Le magie che fanno certi libri (Left, 6/7/13)

Un netsuke a forma di lepre

Un netsuke a forma di lepre

I libri si dividono in due grandi categorie: quelli “vivi” e i nati morti. I primi sono piccole fate che, se per caso non ti sei accorto di loro, sono loro a venirti a cercare al momento giusto. Sono libri scritti con l’Es e non con l’Ego, per metterla giù psicanaliticamente. Un’eredità d’avorio e ambra, di Edmund de Waal, per esempio, è una di queste creature magiche. M’inseguiva da tempo e finalmente ha trovato la via per raggiungermi incarnandosi in due figure femminili. E’ andata così: girellavo nella libreria della Stazione Termini in anticipo su una partenza e mi sono ricordata di quel titolo. Però negli scaffali e sui banconi non lo trovavo. Allora la libraia si è messa a cercarlo con me: era fuori posto, ultima copia. Vedendomi ancora incerta (conta 400 pagine e mi stavo chiedendo se fosse il caso di appesantire il bagaglio; potevo sempre comprarlo al ritorno) aveva fermamente insistito con un argomento irresistibile: «Lei scrive storie che partono da oggetti concreti. Le piacerà». Beh, una libraia gentile che per giunta conosce il contenuto di ciò che vende è ormai qualcosa di così raro che va subito premiato (e raccontato).

Così salgo sul treno col mio nuovo acquisto. Malgrado ciò non lo apro, distratta dai quotidiani. Lo stesso al ritorno. Anzi, una volta a casa, pressata da letture urgenti, sono costretta ad accantonarlo. Ma quel testo paziente non si dà per vinto. Mi arriva su Facebook il messaggio entusiasta di un’amica: sta leggendo un libro fantastico, che devo assolutamente leggere anch’io e sapete di cosa si tratta? Un’eredità d’avorio e ambra naturalmente (tradotto in italiano da un ispirato Carlo Prosperi per Bollati Boringhieri). Così, sorpresa dalla coincidenza, mi ci butto dentro affamata e capisco subito che sto precipitando in una storia fra le più affascinanti mai scritte, la storia di una collezione di 264 netsuke. «Una collezione di oggetti minuscoli» scrive de Waal, inglese del 1964, stimato artista della ceramica e storico dell’arte al suo esordio nella narrativa.

Edmund DeWaal

Edmund DeWaal

Questa collezione è la preziosa eredità lasciatagli da uno zio, Ignace Ephrussi, quando muore nel 1994 a Tokyo. Cosa siano esattamente i netsuke lo imparo leggendo. Sono lillipuziane sculture giapponesi, precise in ogni dettaglio, in genere d’avorio, ambra e legno, che risalgono al XV secolo e riproducono animali o mendicanti o scenette di vita quotidiana ed erano forate da due buchi dove passava un cordoncino di seta per fissarli alla cintura del kimono.

Gli Ephrussi sono un’antica famiglia ebrea che da Odessa si sparpagliò in Europa e che accumulò sterminate ricchezze nel corso dell’Ottocento e primo Novecento fino alla rovina e alla nuova diaspora causate dal nazismo. Un lascito tanto eccezionale obbliga Edmund a guardarsi indietro, a ricostruire le peripezie di quella «spietata esplosione di esattezza» che sono i netsuke: ciò che rimane dell’antico fasto dei suoi antenati.

Però lui non intende scrivere una saga famigliare. «Il risultato sarebbe un resoconto nostalgico. Nostalgico e inconsistente» riflette. No, lui ama Proust e quel tipo di letteratura che sa darsi tempo e spazio e respiro, dunque vuole rivivere l’esperienza straordinaria dei netsuke. «Voglio entrare in ogni stanza in cui questo oggetto ha vissuto, percepire il volume dello spazio, scoprire quali quadri erano appesi alle pareti, qual era l’angolazione della luce che filtrava dalle finestre. E voglio sapere in quali mani è stato, cosa provavano e cosa ne pensavano i proprietari – se mai ne pensavano qualcosa. Voglio sapere di quali vicende è stato testimone». E con lui noi che lo accompagniamo nella sua ricerca a Parigi, a Vienna, in Inghilterra, in Giappone. E riviviamo lo splendore di quando i suoi avi erano amici proprio di Proust, di Laforgue, di Rilke e collezionavano i Renoir e i Degas, che poi sarebbero stati brutalmente requisiti dalle SS come le loro case, i loro eleganti abiti, piatti, bicchieri, tappeti, tutto. Solo i netsuke si salvano. Sapremo come – un modo insieme toccante e romanzesco – solo verso la fine della narrazione e saremo per sempre conquistati dal loro potere incantatorio come se anche noi, al pari di tanti personaggi del libro, ci avessimo giocato da piccoli. Perché questo signor de Waal, che ha «il dono di saper creare vasi» ha saputo levigare le parole come «sassi di fiume» restituendoci «la bellezza inconsapevole» di oggetti, epoche, persone.

De Waal al lavoro come ceramista

De Waal al lavoro come ceramista

C’era un netsuke in forma di shishi (leone) anche sulla scrivania di Freud (compare nel romanzo). Ma questo non sorprende. Quel che sorprende, e a cui stento tuttora a credere, è che un netsuke, o meglio una sua imitazione ma non è questo che importa – si nascondeva anche fra le mie cose. Ebbene sì: non so in quale remoto mercato di quale mio viaggio acquistai la statuetta, che entra in un palmo, di un giapponesino con la testa addormentata sulle ginocchia e il visetto e il ricamo del kimono precisi in ogni dettaglio. Ci sono anche i buchi per introdurre il filo. E’ bellissimo e, in qualche modo, mi predestinava alla lettura innamorata di un libro meraviglioso che, a sua volta, mi ha spiegato la storia di un umile oggetto in mio misterioso possesso.

 

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