Grazie Nanni (da Bianco e nero vol. 606)

Grazie Nanni (da Bianco e nero vol. 606)

Moretti in una scena del Sol dell’avvenire

Ho letto da qualche parte che presto Nanni Moretti si dedicherà al teatro (debutto il 9 ottobre al Carignano di Torino per la precisione) mettendo in scena due commedie di Natalia Ginzburg, Dialogo e Fragole e panna. Non mi sono meravigliata della scelta perché lo stile “basso” di Ginzburg, il suo giocare con l’autobiografia, e persino una certa durezza del carattere e del suo scrivere, mi sembrano vicini al sentire morettiano. Anzi per me la notizia ha qualcosa di rassicurante rispetto alla coerenza delle mie passioni artistiche. Perché Natalia Ginzburg e Nanni Moretti sono da sempre due mie passioni nei campi diversi di letteratura e cinema. E ora i due campi s’incontrano nel teatro, alla giusta distanza dall’una e dall’altro che comunque il teatro l’hanno sempre tenuto dentro.

C’è poi un aspetto fondamentale del lavoro di Moretti, che appartiene profondamente anche a Natalia Ginzburg (come a ogni autore che si rispetti, dal mio punto di vista). Ed è l’autenticità. In un’intervista contenuta nel libro Viaggio a Roma con Nanni Moretti, di Paolo Di Paolo e Giorgio Biferali (Lozzi, 2015), lo stesso regista rivendica come valore l’autenticità, precisando però che «essere autentico […] non c’entra niente con la spontaneità, che non è di per sé un valore, né nel cinema né nella vita. L’autenticità è un’altra cosa». Già, che cos’è l’autenticità per un artista? È «dire la verità», per tornare a Natalia. Ma non nel senso di raccontare i fatti propri o di altre persone come realmente si sono svolti. Semmai è riuscire a raccontarne l’ombra incisa nel profondo, il segno impresso da un avvenimento, una persona, qualcosa che veramente abbiamo bisogno di esprimere. Per motivi personalissimi, non certo perché “mi si nota di più se vado o non vado”, o se, scrivendo un romanzo magari, parlo di guerra… o delle mie scopate… o…

Natalia Ginzburg (foto P. Agosti)

L’autenticità è la verità di un autore, il senso del suo impegno con se stesso. È mettersi a scrivere, o a fare un film, o a dipingere, quando qualcosa è pronto dentro l’individuo per essere scritto, ripreso, dipinto. In altri termini: per diventare universale. Io non m’intendo di tecnica cinematografica, non m’interessa niente che Moretti non sia abile a fare certi giochini con la macchina da presa (alcuni gli rimproverano questa mancanza, mi pare), forse non li vuole proprio fare, così come sceglie – prima di tutto per se stesso – un modo di recitare sempre più scandito e basic, se vogliamo definirlo così. Non vuole orpelli, né tecnici, né recitativi. Tiene a comunicare direttamente quello che ha dentro: la leggerezza di una passeggiata per Roma in Vespa – oppure in monopattino, come usa oggi – o la malinconia per le vicende politiche italiane o il disorientamento per la fine di un amore, di un matrimonio, o la disperazione per le sorti del cinema e dell’arte in generale.

Adesso, inevitabilmente, penso all’ultimo film, Il sol dell’avvenire, perché l’ho appena visto e mi ha lasciato un’impressione fortissima di devastante malinconia e di pervicace tenerezza, quel bisogno di essere felici malgrado tutto, di aggrapparsi a una canzone, a una speranza condivisa, a un sogno. Nella consapevolezza drammatica della fine di tutti i sogni possibili, tutti i sogni sognati, sperati, delusi. Sono una morettiana della prima ora, una morettiana convinta, che non s’è annoiata una sola volta a vedere un suo film. Nanni è la mia generazione, è lo specchio di come eravamo («Faccio cose, vedo gente», Ecce Bombo), è il desiderio di scommettere sulla politica («D’Alema, di’ qualcosa di sinistra!», Aprile), è la fiducia nella comunicazione («Le parole sono importanti!», Palombella rossa), è il tentativo di risolvere una situazione con una battuta («Continuiamo così, facciamoci del male», Bianca), è la rivelazione improvvisa di una verità temibile («Fa paura essere soli, sai?», La messa è finita), è la tentazione di mollare le proprie responsabilità («Non si può fare che scompaio?», Habemus papam), è il sentimento dell’irreparabile («Abbiamo sbagliato tutto», Tre piani).

Nanni è cresciuto con noi, fedele a se stesso e pronto a contraddirsi, senza mai rinnegarsi. Le sue fissazioni di maschio prescrittivo, ma curioso dell’universo femminile, suscitano il riso, e insieme descrivono un modo di stare al mondo, un modo di essere e di esserci e di provare a vivere, a partecipare, a capire, a dire qualcosa di sinistra, ad amare, a distruggersi anche. Ci somiglia tantissimo, questo è il punto. Forse persino troppo, ed è da questo troppo, credo, che scaturisce certa insofferenza di alcuni verso di lui, e la cattiveria che ne deriva con tutte le approssimazioni e le offese abnormi e purtroppo tipiche dei tempi “social” che ci capita di vivere, solo apparentemente liberatori.

Qualcuno potrebbe trovare “narcisistico” e “autocelebrativo” (due critiche che frequentemente gli vengono mosse) il fatto che nel nuovo film si riconoscano oggetti comparsi in opere precedenti – la coperta di lana all’uncinetto, per dire, in cui Giovanni si avvolge seduto sul divano accanto alla moglie, s’era già vista in Sogni d’oro. A me fa pensare alla “coperta di Linus” e cioè a quei piccoli talismani di cui più o meno tutti abbiamo bisogno per dominare le dipendenze, l’ansia di controllo, la preoccupazione verso il mondo esterno, e dunque la vedo come qualcosa di personale dell’autore, ma che ognuno può decifrare e far suo.

Ho accennato di sfuggita, prima, alla presenza delle canzoni nel cinema morettiano, colonna sonora di una generazione – ancora una volta – che sta invecchiando con lui, amando proprio quella musica lì, la musica che risuona nei suoi film. Canzoni di cui ci si appropria per farne accompagnamento dell’esistenza, canzoni ricantate malamente, magari stonando, da soli o insieme agli altri, canzoni che fanno venire immediata la voglia di improvvisare coretti in macchina, o di alzare le braccia morbide intorno al corpo per mettersi a ballare. Senza differenze fra basso e alto, secondo una scelta emotiva e – una volta di più – di gusto personale: da Caterina Caselli a Battiato, da Mercedes Sosa a Keith Jarrett, da Lauzi a De André, da Mannoia a Leonard Cohen… E così, anche di questo Sol dell’avvenire non dimenticherò il sollievo dalla tensione del film e la sorpresa che si accende quando Moretti e Margherita Buy, interrompendo una discussione, prendono ad agitarsi ritmicamente sui sedili dell’auto (guidata da lei) sulla voce di Aretha Franklin che viene dalla radio, o quando gli attori trascinati dalle parole di Franco Battiato o di Luigi Tenco (voglio vederti danzare…, lontano lontano nel tempo…), si mettono effettivamente a ballare.

Sono momenti in cui è la vita come la vorremmo a prendere il sopravvento. Momenti “artistici” in cui possiamo perfino permetterci di raccontare le cose non come sono andate davvero, ma come vorremmo fossero andate, momenti in cui riusciamo a compiere il miracolo di fermare l’attimo. Della Storia si occupino gli storici, noi possiamo racchiuderla in un meraviglioso «se» inventato di sana pianta: e se fosse andata così invece, come sarebbe bello! E se non dovessimo invecchiare, morire. Non è per questo che, malgrado tutto, continuiamo a scrivere, a dipingere, a girare film? Grazie Nanni.

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