Scritto per il Festival Letterature 2018 Roma/Massenzio
Alice nel Paese delle Parole Ambigue
Avevo intorno ai sette anni quando mia nonna spalancò per me la porta di un territorio magico che fin lì ignoravo. Fu il mio passaggio attraverso lo specchio, il mio viaggio nel Paese delle Meraviglie: le meraviglie delle parole ambigue. Fino a quel momento il linguaggio mi era apparso come una terra solida e sicura, capace di sostenermi e insieme sostenere tutti gli altri e le mie relazioni con loro, grazie a un vocabolario che mi piaceva arricchire quotidianamente. La confidenza che intrattenevo con le parole si spingeva fino al gioco di rovesciarle. Ero abile e veloce, e probabilmente molesta con quella mania che metteva in difficoltà i parenti: «Ma che stai dicendo? Smettila di parlare al contrario, nessuno ti capisce!» Mi capivo io, e mi divertiva il piccolo potere di ottenere la sempre sfuggente attenzione degli adulti. All’inizio sono partita da una parola facile e breve, dalla scoperta «che Roma al contrario si dice amor»: ancora una volta avevo fatto tesoro di un insegnamento di mia nonna/annòn. Era stata maestra, era pratica di parole, le piaceva inventare indovinelli, stupirmi.
A Piacenza, dove ero nata e dove vivevo da piccola, non facevo che aspettare le feste perché si tornava da lei, ad Amòr, che era la mia città dei sogni, la città che conteneva piazza Navona, azzàip/anovàN dove si andava a comprare l’albero di Natale/elàtaN. Mia nonna si chiamava Welleda e io sempre la chiamavo Adèllew. Aveva una domestica di nome Ada che mi aveva messo in crisi col suo nome inamovibile. Fu però proprio Ada l’occasione per addentrarmi nel regno dei Palindromi, lo scrivo con la maiuscola perché per me i Palindromi furono subito un popolo di burloni scansafatiche, sorta di nani sapienti, che se ne andavano per boschi sciorinando parole al contrario e che esultavano quando ne beccavano una capace di rimanere identica al dritto e al rovescio. Mia nonna fu pronta con certi esempi complessi: le-ta-le, Ne-ro-ne, O-na-no (che era il paese da cui veniva Ada). Ma io preferivo l’immediata, invincibile compostezza di un altro nome: Anna, e il prodigioso raddoppio di una singola consonante che trasformava la nostra Ada in un fiume: l’Adda! Per non parlare della deliziosa sequenza di alcune lettere dell’alfabeto: acca, elle, effe, emme, enne, e poi il numero otto, e osso e afa, e ancora la parola più bella, la scintillante ORO! C’era da diventare pazzi.
Hai voglia a metterle in fila le parole, a conoscerle, a ribaltarle, mescolarle, dominarle. Hanno i loro segreti, sono fatate e autonome, piene di trabocchetti. Tormentavo Welleda con un interrogativo che mi assillava: perché l’albero si chiama albero? Chi ha deciso che la casa si scrive così: C, A, S, A? Lei però una risposta non ce l’aveva e m’ingarbugliava ancor più le idee spiegandomi che casa in altre lingue si diceva in un altro modo. Io allora mi arrabbiavo sospettando in lei uno spiritello sadico che si divertiva ad ammaestrarmi con una house che diventava maison ed era pur sempre la nostra casa. Resistevo come potevo a quella tragica deriva delle parole che sfuggivano da tutte le parti, mentre io pretendevo di inchiodarle alle loro responsabilità: assecondarmi nel disegno di un universo dicibile e compatto; quell’universo che mi pareva di dominare e mi pareva di saper descrivere al meglio quando mi mettevo a comporre filastrocche e piccole storie. Erano imprese che ottenevano lodi sperticate a scuola e in famiglia e rassicuravano la mia inesperienza infantile, quel sentirsi piccoli, insignificanti e in ritardo rispetto alle conquiste degli altri più grandi e più furbi.
Ma un giorno il mio castello di certezze crollò miseramente: potevo cavarmela pronunciando le parole al contrario e così tenerle in pugno, potevo tollerare una bieca realtà palindroma. Mentre invece la scoperta, che feci una mattina di primavera nel villino romano di mia nonna a Montesacro, era destinata a vedermi sconfitta e avrebbe cambiato per sempre il mio modo di concepire il mondo.
Il ricordo è nitido come se la scena stesse accadendo adesso. Dunque succedeva che al mattino Welleda si sedeva accanto alla finestra nella sua stanza, intenta a un’interminabile pedicure, che ripeteva tutti i santi giorni sostenendo che se no i calli non l’avrebbero lasciata camminare. Finito coi piedi, passava alle ginocchia massaggiandole a lungo con certi suoi oli profumati e infine ricoprendole con almeno tre fasce che si era cucita da sé e lavorato a maglia: le infilava su per le gambe, se le aggiustava una sull’altra e finalmente era pronta. Io intanto aspettavo impaziente che si andasse insieme da qualche parte, e mi aggiravo nella stanza. Canticchiando le mie litanie, spostavo gli oggetti sul comò, spazzole e pettini rifiniti d’argento, uno specchio col manico come nella favola di Biancaneve, alcune fotografie di persone morte con davanti i “lumini” (la nonna li chiamava così), basse candele dalla fiamma ondeggiante, avvolte in carta plissettata come quella dei pasticcini. Non dovevano spegnersi per nessuna ragione, pena non so quale rappresaglia dall’aldilà. Welleda era superstiziosa e vantava un filo diretto coi defunti. Ma questo lo racconto un’altra volta.
Insomma girellavo sbuffando nella camera di mia nonna anche quella mattina di primavera, appoggiando all’orecchio come fosse il telefono uno dei suoi innumerevoli soprammobili: una grossa conchiglia che sprigionava dall’interno il rumore del mare. Intanto lei m’intratteneva sui fatti privati di una certa amica sua o sulle prodezze di mio padre da piccolo. Poi, d’improvviso, è accaduto. Distrattamente, come capitano a volte le cose importanti, Welleda mi ha svelato l’orribile verità di parole che non dicono solo quello che dicono. Parole ambigue, incostanti, infedeli, parole che vanno in direzioni lontane partendo da un medesimo punto, da un identico suono.
Era andata così: io chiedo se a pranzo avremmo mangiato riso.
«Vuoi il riso?» chiede lei. «Eccolo il riso, te lo do subito» e scoppia in una risata birbona. Resto sconcertata, non capisco. «Non ti sei mai accorta, sciocchina, che riso vuol dire quello che mangi e quello che ridi?» Comprendo allora con un moto di dispetto che avevo sempre usato fin lì la stessa parola, RISO, nelle due diverse accezioni senza rendermene conto. Il riso al sugo e il riso che compare sulla faccia delle persone! Quella stessa parola voleva dire due cose totalmente differenti. Mi sento preda di un colossale inganno. «Come è possibile?» le chiedo bellicosa sperando ancora che mi stia prendendo in giro, che non sia vero. «Ma perché, perché hanno fatto questo! Chi è stato? Cos’è, una forma di spilorceria? Che ci voleva a inventare una parola in più?» Sono disorientata, scandalizzata, delusa, sconvolta. Me la prendo come per un affronto personale. Soprattutto non mi perdono di non averci mai fatto caso! E quando la nonna mi annuncia che riso non è la sola parola che funziona così, vorrei quasi denunciarla alla polizia. «Non è vero!» grido, immaginando un complotto ai miei danni, ai danni di tutti i bambini.
Poi mi rassegno, mi butto su una sua poltroncina e domando sconsolata: «Quali sarebbero?»
L’elenco che Welleda sciorina è un fiume in piena. Diventa chiaro alla mia acerba consapevolezza che nulla è solo se stesso, che multiforme è la fisionomia del tutto, che le cose – non solo i termini posti a designarle – si possono prendere dal diritto e dal rovescio, che instabile è il giudizio e non ci sono certezze. Se persino il linguaggio, le parole che abbiamo inventato noi per dare un senso al mondo ci ingannano e si mettono a luccicare come in una galleria di specchi e di false sembianze, di che cosa potremo mai non diffidare? BARBA. FINE. CANTO. SQUADRA. COMPLESSO. MIGLIO. SCURE. MANDARINO. RE…. La nonna non ha pietà. Non contenta, mi fa notare pure che a volte basta un accento, «un accento, capisci?», e tutto cambia, dalla botte alle bòtte, dalla pésca alla pèsca, da un’innocua calamita a una tragica calamità. Per non parlare della colla, che non è il femminile di collo, né la mostra del mostro! Basta così, la supplico disarmata.
Chissà, forse però quel giorno è cominciato in me l’apprendistato della scrittrice. Ho smesso di pronunciare le parole al contrario, non mi divertiva più, e ho smesso di baloccarmi con la poesia. La poesia, voglio dire, è diventata una cosa seria e ho preso a considerare le parole creature vere, autonome e ribelli, capaci di darmi gioia quanto di farmi del male. Bisogna trattarle con infinito rispetto e allora, sì, può capitare che diventino mansuete, plasmabili, affettuose e che ci permettano di restituire ordine al disordine del mondo, nella ricomposizione di una storia raccontabile, una storia che, una volta scritta e rinchiusa in un libro, non cambierà più, ma resterà per sempre se stessa nella breve o lunga eternità della letteratura.