Ricordo di Maria Lai (il Foglio, 18/5/13)

Ricordo di Maria Lai (il Foglio, 18/5/13)

images-1Nel 1981 un nastro azzurro lungo quasi 27 chilometri legò ogni balcone, porta, casa del paese sardo di Ulassai, nel cuore dell’Ogliastra, al suo monte più alto, il Gedili. L’ ”azione”, pensata e realizzata dall’artista Maria Lai – scomparsa il 16 aprile scorso a 93 anni – coinvolse tutti gli abitanti del luogo, donne e uomini, vecchi e bambini e si chiamò, appunto, Legarsi alla montagna. Documentata dal fotografo Piero Berengo Gardin, resta un’impressionante opera sul territorio che ha del fiabesco e dello psicodramma. A Maria era stato richiesto dall’amministrazione comunale un monumento ai Caduti, ma lei con l’anarchia che ha caratterizzato ogni sua scelta – non solo artistica – contropropose qualcosa che «servisse per i vivi, non per i morti». Quei vivi erano gente litigiosa. Accettavano di annodarsi, sì, ma solo con i paesani con cui andavano d’accordo. Ci volle un anno e mezzo per convincerli a stare tutti insieme in un vincolo così esibito. E ci si arrivò con un compromesso suggerito dalla mente serena dell’artista: il nastro sarebbe passato dritto laddove c’era del rancore, avrebbe creato un nodo (intrecciato a del pane pintau) dove riconosceva dell’amicizia, e addirittura un fiocco dove ci fosse stato l’amore. Così si vide prima un gruppetto di una decina di persone cominciare a trinciare in larghe fettucce le tredici pezze azzurre messe a disposizione dell’evento, e a loro a poco a poco  aggiungersi una folla di gente alacremente intenta a tirare e lacerare che avrebbe poi finito col ballare compatta fino a notte alta a manifestazione conclusa. Il secondo giorno si sparò un razzo con i lunghissimi nastri e tutti cominciarono ad acchiapparne uno e a legarlo e a legarsi finché da Cagliari arrivarono tre scalatori che portarono la stringa svolazzante fino in cima al Gedili. Altro che mega packages di Christo! Maria Lai, senza alcun intento né ideologico né intellettuale, dava corpo alla sua idea di land art e arte in generale: un po’ gioco, un po’ incantesimo, sempre al servizio degli altri e mai di un ego ipertrofico. Aveva raccontato di sé: «Giocavo con grande serietà, a un certo punto i miei giochi li hanno chiamati arte».

images-1All’origine di quella pazza idea di avvolgere in un nastro case, cose, persone e la natura minacciosa di una terra facile a smottamenti e frane, con temporali apocalittici cui chiedere pace, c’era un altro elemento tipico dell’immaginazione di Lai: la fiaba. E la fiaba narrava di una bambina mandata da Ulassai sul monte a portare pane ai pastori. Proprio in quel momento comincia a piovere forte e la bambina con i pastori si ripara in una grotta, ma mentre il cielo esplode in tuoni e fulmini il gruppetto di rifugiati vede volare davanti all’apertura un nastro celeste. L’unica a stupirsene è lei, la bambina, che si lascia incantare; corre sotto il diluvio all’inseguimento del nastro. Alle sue spalle intanto la grotta frana e così è l’unica a salvarsi. «Il nastro è l’arte» spiegava Maria Lai «l’arte bella e frivola che però indica itinerari di salvezza. L’artista è chi sa stupirsi». Naturalmente la bambina è lei, capace di stupore a tutte le età; lei che si raccontava come una giovane «timidissima, balorda e imbranata» cui solo la poesia ha saputo dare una direzione; lei che da piccola era affascinata dai fitti rammendi della nonna sulle lenzuola, le sembravano una scrittura. «E che c’è scritto?» domandava la nonna. «Una favola» rispondeva lei.

Una bella immagine di Maria Lai giovane

Una bella immagine di Maria Lai giovane

Nata a Ulassai, 120 chilometri a nord-est di Cagliari, il 27 settembre del 1919, è la secondogenita di un veterinario che avrà altri tre figli, due dei quali – i più piccoli – malati (l’ultima, Cornelietta, morirà a sette anni). Così Maria viene data in affidamento a una coppia di zii che non hanno bambini (l’usanza sarda preferisce l’espressione “fill’e anima”, figlia d’anima, come abbiamo imparato dal romanzo di Michela Murgia Accabadora: «un modo meno colpevole di essere madre e figlia» che permette all’ ”adottato” di riconoscersi figlio non di due genitori, ma di quattro, fuori dalle scartoffie burocratiche). «Questi zii si tennero Maria e ne fecero una bambina perfetta, disciplinata, sensibile» scrive la sorella Rosa Giuliana Lai nel libro di memorie L’erede del corbulaio (AD edizioni). «Maria viveva in un mondo diverso dal nostro», un mondo più ricco, cittadino, di cui era la reginetta amatissima e alla quale veniva concessa un’inusitata libertà. Nella casa di campagna le era permesso istoriare a suo piacimento le pareti della propria stanza, che venivano ridipinte di bianco solo perché lei potesse ricominciare a scriverci e disegnarci sopra col carbone come su una lavagna. In quella stessa casa furono ospitati per più d’un anno alcuni girovaghi di un circo che insegnavano ai loro bambini – e a Maria insieme ad essi – gli esercizi da giocolieri e qualche acrobazia. Quando la carovana si rimise in marcia la piccola Lai si nascose nel carrozzone per fuggire con quelli. E nessuno la rimproverò quando fu scoperta e riportata a casa. Del resto non era stata l’unica fuga della sua infanzia, insieme educata e selvaggia. Scappava e s’isolava perché amava «ascoltare il silenzio». Scrive ancora la sorella, morta il 6 luglio dell’anno scorso lei pure novantenne: «Quando stava con noi comunicavamo soprattutto attraverso i disegni che realizzava col carbone sulle mattonelle di un terrazzo. Le stavamo intorno, sdraiati per terra, per delle ore, pieni di stupore. Lei disegnava e raccontava, nascevano piccoli scenari animati da figure in movimento e storie inverosimili. Si partiva sempre da oggetti a portata di mano come sassi, conchiglie, pennacchi di canna, barchette di sughero; vivevamo quelle storie in prima persona perché ci veniva assegnato un ruolo e un personaggio».

Un quadro di Maria Lai

Un quadro di Maria Lai

Poi gli zii muoiono e del suo amatissimo secondo padre le resta il nome con cui l’aveva ribattezzata e con cui tutti la chiameranno in famiglia: Lola. La storia di questo nome me la racconta una nipote, la figlia di Giuliana, Maria Sofia, che insieme alla madre fu la persona più vicina a Maria Lai adulta e artista. Viene dal vezzeggiativo dialettale Maròla. Un giorno Maròla camminava fra le montagne col padre che si divertiva a far rimbalzare quel nome contro le rocce. Ma la montagna rimandava indietro una parola un po’ diversa: «Lola Lola Lola» e allora lui preferì chiamare così la sua «capretta ansiosa di precipizi», come amava definirla.

Morti i genitori adottivi, dunque, Maria Lola torna a Ulassai, nella grande casa sotto il nuraghe della sua primissima infanzia. E’ un paese di pastori molto poveri, Ulassai, che stanno la maggior parte del tempo lontani a pascolare gli animali. «Tornavano a casa due volte al mese, per cambiarsi d’abito, fare all’amore, e portarsi via il pane che la loro donna aveva confezionato» scrive Giuliana. Spesso si tiravano dietro i figli maschi ancora bambini, per addestrarli al lavoro. Le donne restavano custodi della casa, coltivavano l’orto, cantavano alle veglie funebri che non erano rare, passavano ore al telaio per preparare il corredo alle figlie, creando meravigliose opere di tessitura. Maria appartiene a una classe sociale più alta, ma tutto osserva, tutto impara ed elabora. Ecco da dove viene tanta parte della sua opera, quei suoi spettacolari Libri cuciti, per esempio, quelle toppe, quelle stoffe, quei ricami, quei lavori a maglia. E’ stata la prima a elevare umili prodotti di artigianato domestico a opera d’arte, Arte Povera, Informale, quel che si vuole. Ma è un’antesignana. «Senza la Lai non si capirebbero oggi ben più giovani artiste come Bruna Esposito, per restare in Italia, o come la tedesca Rosemarie Trockel fra le più note nel mondo» mi dice Mario Fortunato, scrittore attento all’arte contemporanea. «Artiste che hanno doppiato il femminismo lavorando, per esempio, sulla maglia. La Lai l’ha fatto prima di tutte. Fosse nata negli Stati Uniti, non credo che gli americani l’avrebbero lasciata in pace nel suo angolo sardo».

"La cattura dell'ala del vento", installazione all'aperto di Maria Lai

“La cattura dell’ala del vento”, installazione all’aperto di Maria Lai

Maria non è una naïve, studia. Con Francesco Ciusa e con il perugino Gerardo Dottori (spostatosi per breve tempo a Cagliari). A Cagliari, quindicenne, ha un insegnante d’italiano d’eccezione, lo scrittore Salvatore Cambosu, il primo a credere nelle sue qualità artistiche e di piccola fata, di jana, come si chiamano le creature magiche dei boschi in Sardegna e che lei stessa ha descritto così: «Divinità profetiche che abitano le rocce e giocano a fare le donne». E’ lui a insegnarle «il valore del ritmo delle parole che portano al silenzio». Ritmo e silenzio saranno due concetti chiave del fare artistico di Maria Lai. A Cagliari stringe amicizia anche con Giuseppe Dessì, di dieci anni più grande, suo vicino di casa in via Mazzini, che poi ritroverà a Roma negli anni Cinquanta. Quando si ammala di depressione Dessì le chiede: «Maria fammi una magia». Allora lei comincia ad accarezzargli la testa pronunciando parole incomprensibili, inventate, e ottiene di farlo addormentare. Sicché da quel giorno lui la chiama sempre perché pronunci la formula fatata che lo fa stare meglio. E quando Maria parte, scherzosamente la minaccia: ne morirà!

Ma per Maria è tempo di frequentare il liceo artistico a Roma dove studia scultura e fa incontri importanti, con Alberto Viani, con Marino Mazzacurati. Ma intanto scoppia la guerra, non può tornare in Sardegna. Se ne va al nord, a Venezia, a studiare all’Accademia di Belle Arti con Arturo Martini. E’ sola, senza una lira, preoccupata. E in più il misogino Martini la umilia. «Qui si fa sul serio» dice subito come la vede nell’aula sperando di convincerla a ritirarsi. «Non dava molto spazio al femminile» raccontò Maria Lai molti anni dopo. «Pensava che l’arte fosse un percorso molto serio e difficile, inadatto alle donne. Non era qualcosa da possedere, ma da conquistare. Solo chi resiste ha diritto a dirsi artista». Non si dà per vinta e resiste. Per tre anni è sua allieva e impara moltissimo. «Martini era vitalissimo e pieno di fascino. Non capivo molto di quel che diceva (aveva ragione lui!), eppure immagazzinavo tutto e i suoi insegnamenti mi sono serviti molto per tutta la vita». E’ di questo periodo che parla nella lettera inedita del 1949 che pubblichiamo in questa pagina spedita al «Dr. Girotti Girolamo e Signora, via Scarpa 9, Milano» (genitori allora di tre bambini: Odoardo, Mario, che sarebbe diventato l’attore Terence Hill, e Piero). Li aveva conosciuti a Venezia e frequentati fino alla loro partenza, quando resta a «un bivio» e piena di «paura dell’ignoto». Li ragguaglia su quello che ha vissuto subito dopo: ha trovato lavoro, ha stretto altre amicizie. Fa riferimento anche al proprio carattere schivo, a quell’atteggiamento eremitico che non tradirà mai in tutti i lunghi anni che le resteranno da vivere: «Ho bisogno di silenzio intorno al mio lavoro; odio chi mi parla di mostre e di articoli perché tutto ciò mi disturba ed è immaturo».

Maria e i suoi fili di lana

Maria e i suoi fili di lana

Lo conferma la nipote Sofia: «Si rifiutava di fare mostre. Non voleva consensi perché coi consensi – diceva – non si cresce. Fin dagli anni Settanta le sue opere hanno cominciato a essere acquistate da musei internazionali, da Tokyo a Sidney, da Parigi a Montreal, e i critici la corteggiavano, arrivavano telefonate…ma rispondeva sempre di non essere pronta. Le interessava sperimentare e voleva sentirsi completamente libera». Ai tempi veneziani è ancora lontana da questi risultati. Nel ’45 torna rocambolescamente in patria su una scialuppa di salvataggio che da Napoli la sbarca a Cagliari. In continente, a Roma, metterà di nuovo piede solo nel ’54 distrutta dalla morte del fratello minore Lorenzo, assassinato nei dintorni di Ulassai. (L’altro fratello, il maggiore, Gianni, morirà in un incidente aereo). A Roma, nella leggendaria galleria l’Obelisco di Irene Brin e Gaspero Del Corso, vicino a piazza di Spagna, espone per la prima volta, nel ’57, i disegni a matita che va accumulando dai primi anni Quaranta. E’ in questo periodo, probabilmente, che conosce l’opera di Burri, un artista – spiega la nipote – che ha molto amato e che l’ha profondamente influenzata «ma non per il suo portato tragico». Maria Lai aveva un rapporto panteistico con l’universo, un senso di religiosità del reale, sapeva cogliere la vita segreta degli oggetti come un bambino coi suoi giocattoli. Sosteneva di saper leggere il discorso simbolico nelle forme mutanti delle nuvole. Quando nel ’93 realizza sui monti intorno a Ulassai l’istallazione La scarpata e le assi metalliche dell’opera vengono scompigliate dal vento, dice agli operai di non rimetterle a posto, di lasciarle come sono state rimescolate: «La montagna ha parlato» disse, rivelandole «la precarietà del mondo tecnologico».

«Aveva il cervello nelle mani, nelle dita» dice ancora Sofia. «Mia madre e io, con la nostra abilità a usare la macchina da cucire l’abbiamo molto aiutata, ma era lei a dirci come lavorare i fili, lavarli, sostenerli: l’opera alla fine era solo sua». Negli ultimi anni vivevano insieme in una grande casa di campagna, una specie di factory a Cardedu, dove Lola aveva un suo studio impenetrabile, meta dei pellegrinaggi di chi voleva vedere l’artista in carne e ossa e ascoltare affascinato le sue idee stravaganti sull’arte. A pochi chilometri c’era sempre la loro Ulassai, dove nel 2008 è nato il museo-fondazione che raccoglie un centinaio di opere di Maria Lai da lei donate. Si chiama Stazione dell’Arte e coi suoi tre caseggiati, appartenenti a una vecchia stazione in disuso, è il centro del grande museo all’aperto che comprende gli interventi artistici nel territorio, dai già citati Legarsi alla montagna dell’81 al chilometro e mezzo di Capre cucite con punti metallici sul muro d’ingresso del paese, ai libri in terracotta distribuiti sulle facciate delle case del centro storico. All’interno interventi di altri artisti, da Guido Strazza a Costantino Nivola allo stilista Antonio Marras. Una meta unica per raggiungere e comprendere un’eccezionale protagonista dell’arte contemporanea.

"Telaio del meriggio" di Maria Lai

“Telaio del meriggio” di Maria Lai

INEDITO (per gentile connessione di Piero e Piera Girotti e Maria Sofia Lai)

Cagliari 2-4-49

Cari amici,

… avrei potuto credere, quando lasciaste Venezia, che avreste conservato il mio ricordo dopo tanti anni e tante peripezie?… Ritornai in famiglia dopo due anni di residenza a Venezia. Tentai il viaggio di ritorno prima che la bufera si fosse calmata e dovetti sostare in tre campi di concentramento. Il tre luglio del ’45 ero a casa. Ritrovai tutto e tutti come li avevo lasciati. Solo io ero molto cambiata….Ora vivo a Cagliari sola nel mio studio… Sono vagabonda per natura. Qui insegno disegno e Storia dell’arte per tre giorni alla settimana. Notizie della mia arte? In genere non ne do. Non sono né timida né modesta, so quello che voglio. Tutto ciò che contiene il mio studio non è che un aborto di ciò che vorrei dire. Il mio desiderio di sciogliere in me qualche cosa che è in più, la mia ansia di scoprire che cosa mi appartiene veramente, sono le sole cose vive e importanti, anche se la vita non mi basterà per mettere al mondo un’opera d’arte. Ho bisogno di silenzio intorno al mio lavoro; odio chi mi parla di mostre e di articoli perché tutto ciò mi disturba ed è immaturo.

 

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