A casa di PPP (dall’Unità del 19/4/11)
«Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti, /che io vorrei essere scrittore di musica,/ vivere con degli strumenti/ dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare,/ nel paesaggio più bello del mondo…» scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1967 nel finale del poema autobiografico Poeta delle Ceneri. La torre di Viterbo è in realtà la Torre di Chia, o castello di Colle Casale, vicino a Bomarzo, che Pasolini riuscì ad acquistare tre anni dopo. Dentro le mura del castello, risalente al 1200 e appartenuto, nel corso dei secoli, agli Orsini, ai Lante della Rovere, ai Borghese, il terreno era stato convertito a orti e pascolo. Il progetto di restauro, affidato all’amico scenografo Dante Ferretti, è un capolavoro di integrazione nel paesaggio, una casa di pietra e di vetro mimetizzata fra le rocce e nel verde di un dirupo.
Si vede quel paesaggio nel Vangelo secondo Matteo. Pasolini andò a girare nei dintorni di Chia, sulle rive dell’omonimo torrente, sotto il castello, la scena del battesimo di Gesù con lo scrittore Mario Socrate nei panni di Giovanni Battista. Era il 1963 e s’innamorò subito della terra dura e antica, del cielo turbinoso attraversato dalle cornacchie. Quegli uccellacci neri si appostavano sull’alta torre – luogo di vedetta per soldati medievali – rompendo i silenzi tenebrosi con il loro gracchiare rauco.
Il 19 marzo la casa è stata aperta a pochi amici, qualche autorità e al gruppo archeologico Roccaltìa, che molto s’impegna per rivalutare e scoprire i siti archeologici della zona, e vi è stato allestito un buffet di delizie locali. Si scopriva anche un busto dello scrittore e una lapide con incisi i suoi versi per Chia nella piazza centrale della cittadina e si festeggiava l’appena approvato Parco Letterario a lui intitolato. La casa-torre è appena fuori dal centro abitato, in mezzo a un bosco, bisogna camminare mezzo chilometro per raggiungerla dalla strada. Qui stava scrivendo il romanzo rimasto incompiuto, Petrolio, quando venne assassinato all’idroscalo di Ostia. Vi passava lunghi periodi in solitudine, che però interrompeva volentieri partecipando alla vita del circondario o per ricevere gli amici. La nipote, Graziella Chiarcossi, ricorda di una volta che vennero alcuni ragazzi dei dintorni e gli raccontarono i loro sogni.
Fra un pasticcio di pasta e una polpettina Walter Veltroni, che più tardi presiederà all’inaugurazione del busto realizzato dallo scultore locale Gianluca Bagliani, ricorda com’era la casa trent’anni fa, quando venne a Chia, segretario della Fgci romana, insieme a Laura Betti, Bernardo Bertolucci, Ettore Scola e Maurizio Ponzi che dovevano realizzare per il cinema Il silenzio è complicità, ritratto del poeta. La casa allora somigliava di più al suo proprietario, ogni stanza affacciava direttamente sull’esterno attraverso una grande vetrata, la cucina era piccolissima tanto non gli interessava, non sapeva cucinarsi nemmeno un uovo, «era una casa emotiva, molto vicina alla sua poetica» la descrive Veltroni. Qualche cambiamento c’è stato, «per renderla più comoda, più abitabile» spiega Graziella. La famiglia è aumentata, i giovani hanno avuto figli e gli spazi pensati per un uomo sostanzialmente solo non bastano più. Mi guida su per una scala a chiocciola che porta in cima alla torre a due piani fino al solaio dal tetto di vetro. Lei dormiva al primo piano perché le stanze accanto alla porta d’ingresso erano occupate una da Pasolini, che aveva camera e studio contigui, l’altra dalla madre Susanna, che nel Vangelo è una Maria dolorosissima.
Dei mobili originali è rimasto solo un comò in marmo e bambù; tutto il resto, preziosi arazzi portati dal Nepal, divani in pelle e reperti antichi, è stato rubato o distrutto con atti di vandalismo quando ancora era in vita Pasolini.
«Eppure lui amava questo posto, che gli amici definivano un luogo da lupi» dice ancora Graziella. Era a suo agio nella «bruma azzurra della grande pittura nordica rinascimentale» che avvolgeva Orte (e la non lontana Chia), come disse in una trasmissione televisiva dedicata alla forma delle città. Di Orte amava «la forma perfetta e assoluta» e dell’umile Chia si preoccupava di proteggere «il passato anonimo, popolare» perché è troppo facile, diceva, «difendere i monumenti e le opere d’arte». Anche nei restauri della Torre si preoccupò di «rispettare il confine naturale fra la forma della costruzione e la forma della natura circostante», era la sua poetica e la sua politica.
Era un solitario Pasolini («Ora io non sono più un letterato, /evito gli altri, non ho niente a che fare/ coi loro premi e le loro stampe» scriveva nel Poeta delle Ceneri), che amava coinvolgersi nella vita intorno, si preoccupava delle antiche pietre, degli alberi. Il sindaco di Chia, Domenico Tarantino, ricorda precisamente la prima volta che lo vide nel campo sportivo di Soriano. «Ce l’ho scolpito nella mente, anche se avevo solo otto anni. Pasolini aveva organizzato una partita di calcio e giocava senza risparmio. Era in gran forma fisica». E Terzo Canilli di anni ne aveva 13 quando faceva compagnia a suo zio, custode del castello, e incontrò quel regista magro e scavato che girava il Vangelo. Anni dopo, se lo ritrovò davanti che gli chiedeva di visitare il posto. «E io che non facevo passare nessuno, lo accompagnai in giro. Era così simpatico e gentile». E ricorda una volta che Pier Paolo arrivò carico di piante e le disseminò per il paese «per renderlo più bello», e una festa favolosa di Capodanno nella casa-torre, e «quando con una massa di gente lui venne a una festa di piazza e si misero tutti a ballare». E quando bandì, nel ’74, il concorso Case di Chia nel verde con tanto di premi in denaro per stimolare gli abitanti ad abbellire la cittadina riempiendola di lecci, allori, ulivi perché, come si legge nel bando, redatto di suo pugno con le correzioni a margine del foglio: «Chia è sorta disordinatamente…Bisogna urgentemente provvedere a un miglioramento estetico dell’abitato».
E ancora a Chia dedicò alcuni ultimi versi della Nuova gioventù: tornando sorprendentemente al dialetto friulano degli esordi, «Il soreli a indora Chia/ cui so roris rosa, / e i Apenìns a san di sabia cialda» (Il sole indora Chia con le sue querce rosa e gli Appennini sanno di sabbia calda). Ma i contadini di una volta non ci sono più, se ne sono andati – dice la poesia – «e là dov’erano, non resta neanche il loro silenzio».