Intervista a Yasmina Reza (Panorama 27/4/2006)
La fortuna ha bussato alla sua porta nel 1998 vestendo i panni di Sean Connery. Yasmina Reza era un’ammirata autrice teatrale trentasettenne, che aveva rodato il mestiere fin dall’università, cominciando come attrice. I suoi primi testi, Conversazione dopo una sepoltura e La traversata dell’inverno, venivano rappresentati con successo. Ma è con Art, scritta nel ‘94, un’irresistibile commedia con tre protagonisti maschili intorno a una costosa tela di arte contemporanea completamente bianca, che raggiunge una travolgente notorietà. Finché Connery s’innamora della pièce, la produce a New York, si aggiudica il Tony Award e ne compra anche i diritti cinematografici. Sul grande schermo vorrebbe interpretarla lui stesso. Insieme a Robert De Niro e Al Pacino è il pettegolezzo mai smentito. Purtroppo, per le difficoltà di mettere insieme tre star di questo livello, il progetto non è ancora diventato realtà.
La Einaudi pubblicherà Arte in settembre, mentre dalla Bompiani uscì nel 2001 un testo narrativo di stupefacente intensità, Una desolazione, e in questi giorni arriva in libreria un nuovo romanzo, Uomini incapaci di farsi amare (in francese: Adam Haberberg), summa del pensiero reziano e del suo duplice umore: ironico e amaro.
Nata a Parigi il primo maggio del 1959, padre uomo d’affari ebreo-moscovita con la passione della musica e madre ungherese violinista mancata, origini molteplici e misteriose anche lei («I miei erano preda di un delirio d’integrazione» racconta «volevano essere francesi e nient’altro. Non parlavano mai delle loro radici»), Reza è il tipo di scrittore che rivela il lettore a se stesso. Uno scrittore, cioè, con cui capita spesso, leggendo, «di cadere in una grande corrispondenza intellettual-affettiva» come scrive in Nulle part, suo ultimo libro uscito in Francia, a proposito del Nobel ungherese Imre Kertész.
Ha una voce un po’ roca, è minuta e spettinata, in jeans, affondata in un divano del parigino Hotel Lutetia davanti a una tazza di tè: «È il complimento più bello che mi si possa fare quando mi dicono: “Quel suo libro avrei voluto scriverlo io perché penso proprio quelle cose lì”. A me è accaduto con Kertész. Avevo adorato il suo diario, Un autre, e quando mi è capitato di conoscerlo di persona, ho scoperto un uomo meraviglioso. Lui e pure la moglie. Conoscere gli scrittori spesso è deludente». Non l’ha delusa nemmeno Milan Kundera, suo amico, che si trova ora a passare per caso, conversando con qualcuno che lo ascolta in silenzio. «Lo si vede spesso qui, abita a due passi».
DOMANDA. Non delude neanche lei, sa, che pure gode fama di essere scontrosa e tagliente come i suoi personaggi.
RISPOSTA. Questo perché non do quasi mai interviste, in Francia, e non vado a promuovere i miei libri in tv. Finivo con l’essere molto sgradevole e così, dopo una bellissima lunga intervista televisiva che mi ha fatto il canale culturale francotedesco Arte, ho chiuso: più di quello non riuscirei a dare.
D. Proviamoci: si può permettere di non promuovere personalmente il suo lavoro grazie alla sua notorietà.
R. Questo è senz’altro vero. Il successo mi ha dato il lusso della libertà, soldi a sufficienza per vivere di ciò che amo scrivere. Ma non ha modificato in niente la mia vita e il mio carattere. L’insicurezza, per esempio, è là, intatta. I dubbi. Per di- re: non mi sono convinta di avere un talento letterario maggiore di quando avevo vent’anni e non mi conosceva nessuno. Certo, se accettassi di fare la piazzista di me stessa venderei più copie. Ma mi basta quel che ho. E poi è una questione di carattere. Ho sempre avuto enorme rispetto per la letteratura. Considero il teatro un’arte minore. Per questo, per modestia, ho cominciato dal teatro. Ero un’attrice, il teatro era la mia quotidianità. Poi un giorno il mio attuale editore francese, dopo aver visto L’homme du hasard, commedia del ‘95, mi ha invitata a cena proponendomi di scrivere di narrativa. Avevo solo piccoli testi privati. Gli sono piaciuti e ne è uscito fuori il mio primo libro, Hammerklavier.
D. In Italia, è stata Rosellina Archinto a pubblicarlo, con il titolo Al di sopra delle cose. Vi è un toccante ritratto di suo padre in uno stile intimo che torna in Nulle part. Mentre in teatro abbiamo visto un adorabile Uomo del caso, fatto da Catherine Spaak con Orso Maria Guerrini, e Tre versioni della vita con Mariangela Melato.
R. Melato è un’attrice che adoro, ma inadatta alla parte per motivi di età, con Spaak c’è stata una rottura. Mi ha attaccata furiosamente attraverso i suoi avvocati per un malinteso sulla traduzione. Mi sono arrabbiata e le ho ritirato i diritti. Con il teatro italiano non ho ingranato, ma mi dicono che non sta vivendo un periodo d’oro.
D. Peccato. Al teatro italiano i suoi testi porterebbero una ventata di autenticità. A proposito: lei è sempre molto autobiografica e in Uomini incapaci il protagonista Adam Haberberg, che è uno scrittore, si preoccupa di «trovare le parole per dire la verità». Cos’è la verità in letteratura?
R. Mentre nella vita non c’è una sola verità, per lo scrittore è una ed è essenziale. Consiste nel non voler piacere a tutti i costi, nel non andare a cercare l’effetto. Ciò che fa lo stile di uno scrittore è la sua capacità di non falsificare, non affezionarsi alla bellezza di una frase, per esempio. Quando riesce a eliminare tutto ciò che è superficiale. I miei testi spesso fanno ridere, ma io non cerco la risata per compiacere, per avere l’applauso, la risata arriva se è nella logica del testo che arrivi. La verità è qualcosa di molto radicale nella scrittura. Di Uomini incapaci di farsi amare sono soddisfatta perché sono andata al nocciolo della questione. Ho detto tutta la verità.
D. Pensa che l’umorismo aspro che la caratterizza derivi da una componente ebraica nella sua scrittura?
R. Penso proprio di sì. La mia identità ebraica è solo letteraria, né religiosa né laica, né comunitaria. Ma è un’appartenenza genetica in qualche maniera. Il modo di comportarsi della mia famiglia, i loro amici ebrei, gli atteggiamenti, il modo di vedere la vita, di parlare (che era così particolare), tutto questo è passato ai miei personaggi che hanno quello speciale umorismo fatto di concentrazione, bruschezze, amarezze, sintesi.
D. Parla spesso di morte e di vecchiaia.
R. Già a ventiquattro anni scrivevo di vecchiaia. Ho sempre temuto molto la vecchiaia e io scrivo delle mie paure. E poi, questo lo sa ogni scrittore, tutto ciò che si scrive è premonizione. Per cui si può parlare con precisione di ciò che non si conosce ancora, ma si conoscerà. Scrivere è un’operazione di magia. Non capisco gli scrittori generazionali, nel migliore dei casi sono formidabili cronisti dei loro tempi. Ma i veri scrittori inglobano in sé l’uomo e la donna, le diverse età e situazioni.
D. Parla ancora di più di salvezza. In Uomini incapaci definisce lo scrittore «un uomo che cerca di salvarsi da solo». In Una desolazione: «Sarà Bach a salvarmi da tutti voi, dai vostri rivoltanti paradisi, a salvarmi la vita»…
R. Ecco, questo è importante, il concetto di salvezza per me non è legato alla morte. È sempre un salvarsi la vita, salvarsi dal dolore, dalla difficoltà di vivere. La scrittura è la traduzione di un mondo personale che si mette in empatia con l’altro da sé. Per questo salva dalla solitudine, che è l’altro grande tema di cui scrivo. Uno non è più solo quando si mette in relazione con personaggi abitati dalle loro riflessioni. Se poi ha la fortuna di pubblicare e di condividere il suo mondo con i lettori, anche questo salva dalla solitudine. Poi c’è la musica, che per me è un’espressione superiore perché è inesplicabile, non ha bisogno di imitare la vita. Meno male che c’è la musica.
D. In Sulla slitta di Arthur Schopenhauer dice: «La frivolezza ci salva». Siamo lontanissimi dalla salvezza biblica.
R. Certamente la mia idea di salvezza non ha niente a che vedere con la religione e quando dico che la frivolezza ci salva ne sono profondamente convinta. Per fortuna esistere è anche avere la scappatoia della leggerezza, dello charme, dell’umorismo, delle cose buffe e ridicole, delle civetterie. La frivolezza di comprarci un vestito nuovo, buttare sguardi nelle vetrine, ci distrae nel senso profondo del termine.
D. I libri del suo cuore?
R. Cime tempestose di Emily Brontë, L’eterno marito di Fëdor Dostoevskij, Il soccombente di Thomas Bernhard, L’estensione del dominio della lotta, il primo libro di Michel Houellebecq: era magnifico. Se andiamo avanti, chissà quanti me ne vengono in mente.
D. Ha due figli dallo stesso uomo, il regista Didier Martiny, da cui adesso vive separata. Per lui ha scritto due sceneggiature: Le pique-nique de Lulu Kreutz e A demain. Due parole sulla scrittura per il cinema.
R. La detesto, detesto non essere la padrona delle mie parole. Le ho scritte per lui quelle sceneggiature, ma non mi piace scrivere per il cinema. Ho rifiutato interessanti proposte americane. E poi al cinema, che amavo, non vado più. Adoravo Akira Kurosawa. Finito, o forse sono finita io per il cinema.
D. Anche con l’amore non è tenera: «Che fatale errore mettere l’amore al centro del matrimonio» si legge in Sulla slitta, e anche nel suo teatro i rapporti fra uomo e donna sono un disastro.
R. Credo proprio che sulla coppia pesi una condanna senza pietà: c’è una contraddizione fra amarsi e stare in coppia. Amarsi non dovrebbe significare necessariamente condividere la vita familiare.
D. Crede in Dio?
R. Non riesco a credere e non riesco a non credere.