Roma di centro e di periferia (Corriere Nazionale, 24/12/11)
Roma , la mia città. Così stavo per cominciare questo pezzo, però mi è subito venuto un dubbio. Io non sono nata a Roma, ma un bel po’ di chilometri a nord, a Piacenza, in un’altra regione persino. A Roma sono venuta bambina, intorno ai sei sette anni. Ed è la città in cui sono cresciuta, ho studiato, ho abitato in diversi quartieri, mi sono allontanata, sono tornata, ne ho anche acquistato la cadenza parlando (salvo quando mi arrabbio, allora mi scambiano per milanese!) Basta questo per dirmi romana? Spero di sì. Ah, dimenticavo: Roma, e in particolare Trastevere, è lo scenario di vari miei libri e uno, recente, le è dedicato interamente: E in mezzo il fiume. A piedi nei due centri di Roma (Laterza, 2010). Dunque ricominciamo: Roma, la mia città, è fatta di tante città diverse sistemate in cerchi concentrici che uno dentro l’altro sono sempre più piccoli fino ad arrivare al centro, il cuore, laddove il Tevere è più sinuoso e crea prospettive vertiginose per cui ti sembra che la cupola di San Pietro, il “cupolone” lo chiamano i romani, sia mollemente adagiato sui pini altissimi del Gianicolo. Percorrere i cerchi più larghi, che corrispondono alle estreme periferie, può dare l’impressione di inoltrarsi in gironi infernali. Spesso, quando rientro in città da qualche autostrada e m’immetto sul temibile “raccordo anulare” sbucando in qualcuna di queste zone limite, provo a immaginarmi turista per la prima volta a Roma e mi figuro lo sgomento, l’incredulità di chi non riesce a far coincidere l’idea del Colosseo, dei Fori, di Fontana di Trevi con la foresta di casermoni orrendi, il traffico parossistico, l’aria irrespirabile, che ti assalgono da tutte le parti, e se non fosse per il cartello che annuncia modestamente “Roma”, davvero si girerebbero i tacchi e si scapperebbe altrove.
Perché, mi domando, quando dall’aeroporto in pullman ci si avvicina al centro di Londra, o a quello di Parigi, o di Madrid, per quanto le periferie, anche in quelle metropoli, sono altro dai centri, perché – insisto – non si ha un senso di sgradevolezza, ma di armonia, armonia povera magari, di grande ripetitività perfino, diciamo pure di noia qualche volta, ma nessun pugno nello stomaco, nessuna bolgia insensata di costruzioni pericolosamente in lotta le une con le altre, nessun senso di disperato sprofondamento in un oltremondo invivibile e inaccettabile? La risposta sta, credo, negli anni del boom economico, quei “favolosi anni 60” che ci hanno visto crescere a dismisura, arricchirci spensierati, e distruggere distruggere distruggere il senso del bello dentro e fuori di noi, cosa di cui paghiamo oggi le più gravi conseguenze (non solo a Roma, naturalmente, e con devastanti sconquassi territoriali in tante zone a rischio del paese). Nel libro che citavo prima, parlando di Testaccio scrivo: “I cantieri, gli arsenali fuori uso, i capannoni industriali degli anni ’30, l’ex fabbrica della Mira Lanza, per esempio, tornata a vivere come Teatro India alle soglie del nuovo millennio, hanno una fisionomia elegante che li rende perfetti per riconversioni museali o ricreative. E se non ci fosse stata la corsa sfrenata della speculazione edilizia degli anno ’60, che ha deformato il volto di Roma e pompato una crescita abnorme, avrebbero potuto integrarsi subito in una più armoniosa invenzione del nuovo sulle ancora vive macerie del dopoguerra. E Roma sarebbe rimasta fedele a se stessa irraggiando la sua anima in un graduale allontanamento dal Centro e dal fiume”.
Invece così non è stato e oggi vanno sotto il nome Roma anche certi non-luoghi, privi di personalità, lande desolate (avete presente la Serpentara, per esempio? qualcosa che già nel nome evoca immagini spaventose) rispetto alle quali le periferie più antiche, come Centocelle , o il Tufello, hanno caratteristiche pittoresche che ne fanno quartieri residenziali. Come gli ormai prestigiosi Garbatella e Pigneto, rinati, soprattutto quest’ultimo, in veste di festosi ritrovi serali per giovani, dove si sente buona musica, si fanno scoperte teatrali e cinematografiche (andate al Kino di via Perugia 34, se non ci siete ancora stati: potrete vedere chicche straordinarie) e ci si siede a bar e ristoranti, tipici e non, con offerte adatte a tutte le borse. Una replica, più spaziosa e tranquilla, di San Lorenzo, il quartiere operaio che fu l’unico a tentare di fermare la marcia fascista sulla città, poi diventato quartier generale di Lotta Continua, sempre al limite della malavita, oggi abitato e frequentato soprattutto da professori e studenti per la sua vicinanza all’università La Sapienza, celebrato in una canzone di Francesco De Gregori e ne La Storia di Elsa Morante. C’è sempre l’ottimo ristorante Pommidoro che piaceva tanto a Pasolini e a Moravia. Sono quartieri, come Testaccio come Monti come Trastevere, con grandissima personalità. Diversi eppure simili, decisamente romani con quel tanto di degrado, di strafottenza, di complicità vagamente malavitosa fra vecchi e nuovi cittadini, che ti fanno sentire, finalmente, a Roma. I tanti miei amici dai Parioli in giù, gente insomma che ha bisogno del conforto borghese intorno, non li ama e li visita solo per qualche serale deriva gastronomica o per dare un tocco di charme romanesco alle consuete frequentazioni. Chi ci vive, invece, difficilmente si adatterebbe altrove ed è pronto a prendere storte sui sanpietrini, ad abbandonare la macchina e girare unicamente a piedi, a sopportare lo stress dell’immancabile movida del sabato sera pur di non perdere quell’aria di paese, quel tepore stantio che hanno le case, le pietre della vecchia Roma. Fra loro io, che ho abitato in periferia e ho abitato di qua e di là del Tevere, a Campo de’ Fiori negli anni settanta e ora a Trastevere, ma che se dovessi fare una mappa personale dei luoghi del cuore di questa città spazierei in lungo e in largo, in luoghi deputati e in luoghi sconosciuti a tanti.
Provo, alla rinfusa, a buttarla giù questa mappa cominciando da un parco, il mio preferito a Roma: Villa Ada, confinante proprio con i Parioli da un lato e la Salaria dall’altro, ultima sopravvivenza della magnifica macchia mediterranea fatta fuori da costruzioni disordinate e intensive, tangenziali e snodi autostradali. Villa Ada è un bosco meraviglioso, tutto saliscendi di collinette, vallate e laghetti, ugualmente ospitale per coppie in cerca di intimità, come per vecchietti da panchina con giornale. Accanto si staglia il montarozzo di Forte Antenne costeggiato da una strada che di notte con i suoi lampioni antiquati ha un tocco imprevedibilmente britannico. Mi è sempre parsa una strada segreta, poco frequentata, tanto poco romana che sembra uscita da un sogno e, come nei sogni, pare sempre a percorrerla che ti voglia indicare qualcosa: un pezzo di futuro, una direzione. A me di Roma, in effetti, piacciono certi dettagli, più che i monumenti, più che le piazze o le chiese che sono il suo orgoglio. Vi dirò allora di una panchina in mezzo al traffico accanto al tempio rotondo, detto di Vesta. Uno si siede lì e per miracolo il caos urbano svanisce quasi che gli altissimi pini riuscissero a proteggere e schermare rumore e bruttezza di automobili in fila, con il loro semplice stagliarsi verso il cielo quasi a sfiorarlo. In basso, di fronte, passa il fiume che, impigliatosi nell’Isola Tiberina un po’ più su, ha come un rallentamento e poi si rimette a scorrere placido verso il mare. A proposito di Tevere, se si osa scendere sugli argini giù dai muraglioni (i romani non lo fanno mai, perché hanno un pessimo rapporto con il loro fiume, lo temono o, nel migliore dei casi, se ne dimenticano) si rischiano magiche passeggiate ovattate, cullate dal brontolio lieve dell’acqua, e si gode della vista di Roma dal basso, che è ancora un’altra Roma, discreta e rasserenante, con i suoi ponti sorridenti, solenni o angelici.
Il più sorridente di tutti è Ponte Sisto, fatto a dorso di mulo, con quattro arcate e l’oblò di deflusso delle acque quando raggiungono un’altezza pericolosa. Il più solenne è Ponte Milvio, non foss’altro perché è uno dei più antichi ed è stato teatro di celebri battaglie, ma anche di una pace decisiva: quella che chiuse la seconda guerra punica fra romani e cartaginesi (vi dicono qualcosa Annibale e suo fratello Asdrubale?) Fra l’uno e l’altro c’è Ponte Sant’Angelo che porta al castello con la sua doppia parata berniniana di angeli, dieci in tutto, in atteggiamenti uno diverso dall’altro. E a proposito di angeli, lo scorcio più emozionante su uno di loro, è quello che si coglie provenendo da via delle Fosse, possibilmente al crepuscolo. La luce via via degrada e prende forza e forma e slancio l’angelo bronzeo, l’arcangelo Michele che sta in cima al castello. Si staglia contro la notte che intanto è sopraggiunta, le luci gli si sono accese intorno, lui rinfodera la spada per segnalare la fine di una terribile pestilenza. Se si sceglie accuratamente il punto di vista si ha l’impressione che muova passi leggeri sulle cime dei pini giganti, alti quanto il castello.
Quando passo in macchina per via delle Fosse, dietro Castel Sant’Angelo, spero sempre che il semaforo diventi rosso, per godermi lo spettacolo che mi emoziona allo stesso modo ogni volta. E ancora voglio dire di una fontana e di una fanciulla. La fontana è quella delle Tartarughe in piazzetta Mattei fra piazza Venezia e il Ghetto. L’ha progettata Giacomo della Porta e le sculture sono di Taddeo Ladini. Ha in sé tutta la grazia e la leggerezza, che sapeva esprimere il primo barocco, e una storia tormentata a dispetto del risultato armonico. Il nome, per esempio, le viene dai quattro animaletti (aggiunta forse del Bernini) che servirono a dare senso alle mani sospese dei quattro bellissimi ragazzi addetti, in un primo tempo, a sostenere dei delfini, scomparsi dal disegno perché troppo pesanti. Ora aiutano, in eterno, le tartarughe senza smettere di muovere flessuosamente i propri bellissimi corpi. Flessuosa, abbandonata, tenerissima è la statua di Santa Cecilia, bella addormentata della basilica omonima a Trastevere, fanciulla martire della fede del terzo secolo dopo Cristo che fu ritrovata fra le rovine della sua villa e dissepolta sotto lo sguardo dell’artista, Stefano Maderno, che l’avrebbe immortalata alla fine del ‘500 sottraendola al dissolvimento della carne e tramutandola in levigatissimo marmo. Quel bianco marmo che occhieggia ovunque nella vecchia Roma, dagli antichissimi Fori alle tante cupole secentesche. Ma attenzione, guardate bene: le cupole romane non sono bianche: sono azzurre. Sembrano rispecchiare gli intensi azzurri del cielo, che quando è grigio le appanna appena appena, ma non riesce a spegnere i loro riflessi celestini. Il bianco del marmo, il nero dei sanpietrini, il celeste delle chiese: sono i colori di Roma, quella vera, sorniona e ingenua, paesana e papalina, sgangherata e austera, che non somiglia nemmeno un po’ alle sue periferie, distante eppure sempre a portata di mano, affettuosa, aperta.