Ricordo di Amelia Rosselli (Il Foglio, 27 ottobre ‘12)
Aveva solo cinque anni Amelia Rosselli quando da sua nonna – che portava lo stesso nome ed era la madre di Carlo, Nello e Aldo, caduto sul Carso nel 1916, veniva descritta così: «E’ una bimba che ha molto pensiero». Il fratello maggiore John confermava: «E’ stata bambina “difficile” quasi dalla nascita». A sette anni la bambina difficile non si sarebbe rasserenata. A sette anni perdeva il padre, Carlo: «Fu mia madre a farcelo sapere che era stato assassinato e ha chiamato mio fratello minore e me in camera sua» raccontò la poetessa in un’intervista. «Poi mi ricordo con le vestagliette siamo tornati in camera. Poi non ricordo niente». Non ricorda, o non vuol ricordare; solo quelle vestagliette che segnano – già poeticamente – la precocità del dolore, lo sgomento, l’abbandono. Il seguito fu l’instabilità di Marion, quella madre malata di cuore che non accetta la perdita del marito e che vivrà raminga fra una città e l’altra, trasmettendo la sua inquietudine ai figli, costretti a imparare tre lingue in modo frammentario, sballottati da una casa all’altra. «Io ero di gran lunga il preferito» (ancora John) «mentre Melina e Andrea rimanevano in disparte. Il motivo? Sarà che io sono nato nel periodo eroico tra la prigione di Savona e il confino di Lipari».
Poco più che ventenne Amelia, chiamata Melina da parenti e amici, si aprirà piangendo con un altro poeta, Rocco Scotellaro: «Mi avessero dato l’affetto che mi dovevano. O no, avrei dovuto morire con loro, forse». Ce l’ha con entrambi i genitori, presi sempre da altro: dalla politica il padre, dall’amore tradito la madre; ma è soprattutto con lei, con Marion – della quale quando muore, nel ’49, adotterà per un periodo il nome – che i conti non si chiudono mai. Si sentirà per tutta la vita responsabile di essere stata causa, nascendo, della cardiopatia materna, e di non essere stata la figlia (o meglio il figlio) che lei desiderava, e di aver mancato la sua morte, perché si trovava a Firenze mentre Marion stava spirando a Londra.
Figlia d’un amore che ti divorò fui / mai quella che scelse? s’interrogherà in una poesia di “Documento”. Che effetto le farebbe adesso il Meridiano Mondadori che raccoglie L’opera poetica per la cura di Stefano Giovannuzzi con un nutrito staff di collaboratori e il saggio introduttivo di Emanuela Tandello? Dietro la sua aria ispirata di poetessa-pizia che si era accentuata negli ultimi anni, era una donna fragile, insicura e persino incurante del proprio lavoro, struggente, che si affidava pericolosamente agli altri come una roccia in mezzo alle ondate, rimanendo ferma a tutti gli schiaffi. In fondo giocava a fare la poetessa (Mi truccai a prete della poesia…) eppure lo era, e non avrebbe potuto essere altro. Chi ha fatto esperienza del mancato riconoscimento materno non si sazia mai a nessun successivo riconoscimento, e sempre lo cerca, per smentirlo, per ridicolizzarlo e immiserirlo. Perché il riconoscimento raggiunto da adulti non potrà mai sostituire l’unico riconoscimento che conta e che è irrimediabilmente mancato nell’infanzia: lo sguardo innamorato dei genitori, della madre in particolare se a non sperimentarlo è una bambina.
Ritrovo, in questo Meridiano, brani di un’antica intervista che le avevo fatto e che avevo dimenticato. Era il ’78. Amelia era una donna attraente di cinquantotto anni, io ne avevo ventisei. La conoscevo solo attraverso i testi ed era un idolo per me, come per tanti giovani scrittori e poeti della mia generazione. E poi era la figlia di Carlo Rosselli. Mi aveva detto che preferiva venire lei a casa mia. Più tardi, frequentandola, avrei capito la ragione: temeva che da lei le “voci” ci avrebbero infastidite impedendoci di lavorare. Arrivò aureolata di una bellezza diafana, di un modo d’incedere principesco, di una stravaganza sfuggente e ridanciana. Sì, raccontava fatti tragici, eppure rideva dello sgomento che suscitava. Raccontava di sé senza reticenze, con la sincerità incandescente che hanno i poeti puri. La voce era indimenticabile, arrotolata intorno alle erre, legnosa, oracolare, con un leggero accento inglese che aumentava la distanza fra la sua persona, fatta sicuramente della pasta degli angeli, e le cose terrene. Mi diceva degli elettroshock che aveva subito e di certe “persecuzioni” cui era sottoposta, della musica che aveva studiato tanto e che si era trasformata in poesia e dell’età che non le piaceva. «Ora mi trovo ad affrontare una seconda metà dell’esistenza a cui sono completamente impreparata e che m’interessa fino a un certo punto». Anche l’amore le interessava ormai “fino a un certo punto”. Eppure aveva vissuto amori travolgenti, necessariamente dolorosi, impossibili. Con uomini regolarmente già impegnati, sempre relegata nel ruolo scomodo dell’amante: Carlo Levi, Renato Guttuso, Mario Tobino… Vorrei donarti il mio sangue tutto./ Ma esso corre in piccoli inestricabili/ rivoletti, e non graffia la tua porta / con abbastanza tenerezza / per tenerci a galla.
Ci si ficcava dentro a questi amori con l’abilità masochista della randagia in cerca di carezze, dell’orfanella in cerca d’adozione. Ma come avrebbe potuto fare a Marion l’affronto di poter vivere, lei – sua figlia – una relazione duratura, magari felice? Anni e anni di analisi non bastano a guarire da questa tara, da questa ferita sempre aperta. E Amelia Rosselli psicanalisti ne frequentò diversi, e importanti, e bravi. Ernst Bernhard, per esempio. Ce la portò Bobi Bazlen, il genio irregolare che amava la letteratura senza però scrivere mai un’opera sua, dicendole: «Devi prima risolvere i tuoi problemi personali, poi scrivere», Bobi che i propri problemi non li risolse mai e che sosteneva: «Io credo che non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri. Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi. Io scrivo solo note a piè di pagina».
Amelia frequentò lo studio di Bernhard in via Gregoriana, come Federico Fellini, come Natalia Ginzburg, come Giorgio Manganelli, come Cristina Campo, come Adriano Olivetti, come tanti altri per tutta la vita, e tuttavia non risolse i problemi, forse rimandò, e rimandò, e rimandò il suicidio. Però scrisse. Bernhard pensava che la malattia andasse “decifrata” non “guarita”. Diceva: «il sintomo nevrotico ha ragione». Si trattava di capire queste ragioni, come si legge in un testo sorprendente (“Per Bernhard”) raccolto nel Meridiano in una sezione dal titolo “Interventi in margine alla poesia” e in cui Amelia fa il punto, nel 1953, sul suo lavoro analitico col grande terapeuta berlinese e parla con incredibile lucidità di «minorazione affettiva» e «ipercompensazione», complessi d’inferiorità. Nemmeno questa chiarezza su se stessa le impedirà di sentire le voci e credersi perseguitata dalla Cia. La diagnosi è: schizofrenia paranoide, che l’11 febbraio del ’96 la porterà a fare quel che corteggiava da sempre, un salto nel vuoto dal terrazzino di casa in via del Corallo, un vicolo dell’antica Roma non lontano da piazza Navona. Lo fa nello stesso giorno (del ’63, però) in cui si era suicidata la sua adorata Sylvia Plath, della quale tradusse magnificamente alcune poesie comprese nel volume mondadoriano (Difficile distinguere la mano della Plath da quella della Rosselli in versi come questi: …Avvengono miracoli, / se siamo disposti a chiamare miracoli / quegli spasmodici trucchi di radianza. L’attesa è ricominciata, / la lunga attesa dell’angelo…)
Dunque la musica. E’ ancora una ragazzina quando delude fortemente sua madre con un altalenante profitto scolastico e mostra una spiccata inclinazione per gli studi musicali. Marion l’avrebbe voluta più “normale”, una normale figlia femmina, studiosa e destinata a un buon marimonio. E invece Melina sceglie la più ostica fra le arti, quella in cui a una donna che vuole comporre, non essere soltanto una semplice esecutrice, sono ancora sbarrate tutte le porte. La musica! Ma Amelia è chiaramente portata e va avanti. Suona bene l’organo e il pianoforte. Studia composizione con Luigi Dallapiccola che è amico di famiglia e, a Roma, le trova anche lavoro come dattilografa e traduttrice presso le Edizioni Comunità di Adriano Olivetti, che – matto com’è – stipendia volentieri gli artisti affermati o in erba, competenti o meno. Che tempi meravigliosi! E’ il 1950. Amelia s’identifica con Beethoven, quando passa davanti a uno specchio non vede la propria faccia, ma quella del grande Ludwig, però è attratta dal nuovo, dall’avanguardia musicale romana: Roman Vlad, Casella, Evangelisti sono suoi punti di riferimento.
In quell’intervista del ’78 mi parlava con insistenza ed enorme ammirazione di Rocco Scotellaro, indagando nel mio sguardo se condividevo il suo entusiasmo. Non capivo allora, non sapevo niente di una loro storia giovanile, e pochissimo conoscevo l’autore di E’ fatto giorno, morto a trent’anni alla fine del ’53 per infarto. Si erano conosciuti il 22 aprile del ‘50, a Venezia, al primo convegno partigiano: La Resistenza e la cultura in Italia. Lei aveva perso la madre da poco ed era appena uscita da un esaurimento nervoso. Era bella e strana; pallida, occhi verdi, capelli castani. Non aveva ancora scritto niente, aveva solo vent’anni e si pensava musicista. Lui, figlio di ciabattino, ex sindaco di Tricarico nella provincia di Matera e noto come “il poeta contadino”, era da poco uscito dal carcere, dove era stato rinchiuso più di un mese per una falsa accusa di concussione, truffa e associazione a delinquere da parte di avversari politici. Assolto con formula piena, adesso voleva dedicarsi soprattutto alla letteratura, lasciar perdere la politica.
«Ero seduta nelle ultime file della sala, e a un certo momento si avvicinò un giovane simpaticissimo. Quando seppe che ero la figlia di Carlo Rosselli, sorpreso e interessato, si mostrò sempre più attento a me. Diventammo amici» ha raccontato lei. E lui: «Quando capii il suo nome (parlava con accento inglese) non so se mi rafforzò il pensiero di essere amico e di innamorarmi di lei o piuttosto di venerarla come la figlia di un grande martire, che parlava più di tutti in quel convegno. Forse mi innamorava e la veneravo insieme. Sui poggioli delle sedie di ferro i nostri gomiti si toccavano. Pensavo di vederla, alta come me, quando ci fossimo alzati. E io chi ero? Lo dissi. Mi sapeva. Lesse le mie poesie. Accennò dei giudizi non completamente lusinghieri: ciò che permise uno scambio di sguardi che mi fecero più ardito. Uscimmo insieme. Mangiava al mio stesso ristorante ed era una coincidenza calzante. La presentai a tanti, me la sentivo già mia». Ma sua non fu, o solo per pochissimo. «Ella luccica in volto come ieri. Sono due giorni che il suo splendore mi turba. Mi sento schifoso a confronto della sua bellezza». Oppure: «Metto a paragone lei con la solita ragazza illibata dagli occhioni melanconici e dalla carne che aspetta di essere toccata. È sempre la mia amica che si salva e vince, va in alto, guarda lontano, mi annienta, io sono a terra». Amelia aveva presto sublimato quel rapporto in legame familiare, «fratello e sorella» diceva, o piuttosto surrogato paterno.
Alla fine Rocco ammette con se stesso: «Ho avuto ciò che volevo: la più grande batosta nell’anima». A lei in amore piaceva soffrire. Scotellaro era un uomo concreto, giovane, libero, con i nervi a posto. Un buon partito, avrebbe pensato Marion. Gentile e innamorato – forse più di un ideale che della donna in carne e ossa che aveva davanti – ma perdutamente innamorato. Dopo la sua morte, Amelia precipiterà di nuovo nella depressione. Sarà costretta a ricoverarsi in una clinica svizzera, sarà di nuovo sottoposta a inutili elettroshock. Però da Rocco raccoglie il testimone della poesia: Mi sforzo, sull’orlo della strada/ a pensarti senza vita/ Non è possibile, chi l’ha inventata questa bugia, è il suo addio in una ninnananna intitolata Cantilena, omaggio, anche, alle ricerche di lui che, sulle orme di Ernesto De Martino, si era messo negli ultimi anni a indagare i costumi e le forme espressive del suo popolo coinvolgendo Melina, presentandola alla madre, facendole vivere la calda accoglienza del sud e permettendole di lasciarsi conquistare dall’etnomusicologia, che aprirà altri orizzonti alla sua ricerca musicale.
Ma intanto, per dare un’idea di chi fosse l’imprenditore Adriano Olivetti, voglio raccontare questo aneddoto. Un giorno chiese alla sua dipendente Amelia Rosselli: «Lei a cosa intendeva dedicarsi se non avesse dovuto fare questo lavoro di traduzione?» Melina, imbarazzata e timida, distogliendo lo sguardo, rispose: «Avrei studiato musica…» E lui da quel momento e un po’ per volta perché venisse come naturale aveva diradato le richieste di lavoro continuando però a pagarla tale e quale; insomma lo stipendio diventò senza clamori una borsa di studio.
E però, dopo la morte di Scotellaro, nella fragile psiche di Amelia si scatena un terremoto. «Quando è morto, qualcosa è successo e dopo i funerali mi sono chiusa in casa per quindici giorni e ho cominciato a scrivere in italiano: non ho mai capito perché, chissà, ma forse lo so: era morto». Rocco era il suo “miglior amico”: «Scrivevo molto e mi sembrava fosse lui a parlare per me». A Rocco sacrifica la musica per consegnarsi all’arte che era appartenuta a lui, la poesia.
La memoria inganna, ma adesso, sia pure a distanza di tanti anni, se ripenso a quel mio primo incontro con la poetessa della Libellula (era questo poemetto il suo preferito allora: io non so se io rimo per incanto o per travagliata pena), se ripenso al suo sguardo, alle sottolineature che faceva con piccole smorfie della bocca, minimi piegamenti del capo mentre mi parlava di Rocco, ho l’impressione che volesse dire di più. Allora ebbi la sensazione che mi stesse rivelando una storia erotica segreta, adesso credo che stesse invece facendo un suo bilancio e che valutasse quanto diversa sarebbe stata la sua vita se avesse accettato l’amore “normale” che le offriva Scotellaro e, soprattutto, se lui non fosse morto. Forse aveva ragione, forse la sanità mentale di una persona dipende un po’ anche dalle scelte che fa, dagli incontri che le capitano, dagli amori che non dovrebbe scartare, e da quanto impervio è il tragitto. Però, alla fine, la sua conclusione fu un’altra: «La poesia non si addice alla vita normale, quella di tutti i giorni». L’ha detto pure in versi che non era capace, lei, di scegliere la luce, perché: non giorno, ma buio s’è fatto / nel mio cuore evanescente / indisciplinato maestro / della poesia.