L’UNITA’ 17/1/13
Si dice dei bambini in età prescolare che siano dotati di un talento naturale per il disegno, la creatività, l’originalità che, poi, l’educazione necessaria a civilizzarli s’incarica di omologare, appiattire, cancellare. Nella maggior parte dei casi. C’è anche chi riesce a uscire indenne dal processo. Uno di questi è sicuramente il diciottenne Giorgio Ghiotti, che probabilmente è rimasto un piccolo selvaggio dalla testa dura riuscendo persino a evitare, nel corso del suo apprendistato di giovanissimo scrittore, tutte le “istruzioni per l’uso allo scrivere oggi” fornite a piene mani, dopo la scuola dell’obbligo, dalle mille scuole di scrittura fabbriche di sogni e di autori bell’e pronti per piacere alle zie.
Dio giocava a pallone che esce domani per nottetempo raccoglie sette racconti che non sono scritti per le zie. Non sono sentimentali, non sono noir, non disturbano un tanto a pagina, non consolano nessuno, non dipingono i giovani come esseri perversi e disperati e nemmeno preoccupati di serrare lucchetti ai lampioni a ogni innamoramento. Non imitano una lingua da traduzione basic dell’inglese, ma se ne fregano di essere letterari. Quando Ghiotti scrive di una ragazza che dentro il suo maglione grigio «nasconde come un segreto inconfessabile un cuore di cerotto» o quando dice: «forse è proprio questo che amavamo, la trasgressione, quella paura che si sente nei calzoni in una morsa forte di pipì e non ci si può fare nulla se non lasciare che scenda la notte» non vuole dimostrare niente né scioccare nessuno. Semplicemente scrive come respira e il suo è un respiro potente, equilibrato, necessario, perché aderente a un vero bisogno di dire. E dire il disorientamento nella vita, l’incertezza sessuale della giovinezza, l’eterna adolescenza degli adulti, il mondo preso a calci come un pallone, la vita giocata su un motorino truccato in una corsa verso l’amore sotto la pioggia.
La pioggia scroscia in molti di questi racconti con la forza metaforica di un lavacro e di una minaccia costante. «Ha piovuto, ha piovuto da matti». E già nella scelta dell’ausiliare si misura la generazione di Giorgio Ghiotti, classe 1994, romano, «più volte finalista al Premio Campiello Giovani» (ma quanti anni aveva, dodici?) e «vincitore del Campiello Giovani nel Lazio 2012»: insomma ai miei tempi era di rigore il verbo essere per i fenomeni metereologici. Errore blu. Oggi no. La lingua parlata ha imposto le sue leggi: era ora. La lingua parlata di Giorgio non ha bisogno di imitare il peggio, ovvero l’afasia di un gergo balbettante, paratattico, al limite dell’analfabetismo che si attribuisce ai giovani: è comunque una lingua bella, e anche questa è un’innovazione: «Penso che nessuno è soddisfatto davvero e si finge di stare bene per evitare il peggio, e il peggio alle volte è il segreto o un pullman finito in un burrone o l’ombelico di Marco ch’è il vertice massimo dell’universo ed è nudo».
Scherzando con Chiara Valerio, che dirige per Nottetempo la collana “narrativa.it” di nuovi autori dove ha pubblicato Dio giocava a pallone le ho detto: «Il giovane Ghiotti ha infilato i sentimenti dentro una lattina di Campbell’s Soup». Volevo intendere che questo sorprendente narratore ha realizzato una sua piccola (o grande) quadratura del cerchio. E’ un autore pop, che prende i materiali della sua prosa dove gli capita, cita Manzoni quando non te lo aspetti, al posto di una sinfonia ci trovi Vasco Rossi, parla di triangoli amorosi con due lui e una lei di troppo, scomoda diverse volte la morte senza toni da tragedia, ma la sostanza del suo scrivere è profonda e consapevole, niente cartoni animati o calchi cinematografici, niente di più lontano da una sceneggiatura camuffata da racconto, e vero sangue, veri tormenti, non solo amorosi.
Due cenni biografici: Giorgio è ancora al liceo, ultimo anno. Nato di maggio. Gli telefono per fargli qualche domanda e lo trovo dal parrucchiere. Dice che ha sempre scritto e che deve molto a sua nonna. Napoletana, ex maestra elementare, lo voleva scrittore e fin da piccolo gli suggeriva spunti su cui esercitarsi mettendogli in tavola il latte della colazione. Deve anche aver avuto buoni professori al liceo classico Manara, a Monte Verde, che lascerà quest’anno dopo la Maturità. E’ ferrato sulla letteratura dell’800, e dove comincia a muoversi autonomamente eccolo appassionato all’Elsa Morante dell’Isola D’Arturo cui dedica un indiretto omaggio nel racconto “Al largo”, alla Natalia Ginzburg dei romanzi brevi, al Pavese poeta e ad Amelia Rosselli. Come lettore dei contemporanei, ma proprio di nemmeno due decenni più grandi di lui, le case editrici Nottetempo e Minimum Fax sono i suoi fari. Gli piace la Valeria Parrella dei racconti e va pazzo per un altro autore della casa editrice romana, Paolo Cognetti. Non è un caso che a Cognetti e al suo Sofia si veste sempre di nero, un romanzo costruito su racconti, si stia ispirando per la sua prossima opera, un quasi-romanzo, una schidionata di narrazioni con un unico protagonista. Beh, non resta che fargli gli auguri, tanti, meritati, per questa luminosa opera prima in cui Dio gioca a pallone «perché una vita senza calcio è come un panettone senza canditi» (che spesso li tiri via e cerchi di mangiarti solo quelli) e per tutto quanto scriverà in futuro.