Il primo romanzo sulla Resistenza (L’Unità 20/11/13)
Quando si pensa ai romanzi italiani sulla Resistenza subito viene in mente Uomini e no di Elio Vittorini, uscito nel 1945, o Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino del ‘47, o Una questione privata di Beppe Fenoglio che comparve postumo due decenni dopo. Si dimentica il bellissimo romanzo di Alberto Vigevani I compagni di settembre che oltretutto inaugura il genere nel novembre del ‘44, ora meritoriamente riproposto da Endemunde (160 pagine, 11,90 euro). E’ il secondo libro dello scrittore milanese che si era fatto notare con il romanzo d’esordio Erba d’infanzia e amico di tanti intellettuali antifascisti riuniti intorno alla sua libreria di piazza San Babila “La Lampada”. Va detto che la colpa della rimozione deve essere attribuita prima di tutto allo stesso Vigevani che volle ripudiare questo romanzo considerandolo troppo carico di «retorica comunista», quando si era ormai volto verso il partito repubblicano considerandone primaria, probabilmente, la posizione filo-israeliana in politica estera, man mano che si approfondiva nella sua storia personale la riconsiderazione della propria appartenenza ebraica.
Ma è un giudizio assurdamente severo, dovuto alle scelte e ai malumori politici dell’autore di certo rispettabilissimi, e che oggi però – a tanta distanza – ci lasciano freddi, mentre non si resta per niente freddi di fronte a questa prosa secca, rapida, visiva. E’ la storia, in parte autobiografica, di un giovane artista che, dopo l’8 settembre, lascia a casa la moglie e un figlioletto appena nato per unirsi ai partigiani in montagna con tutta l’ingenuità di una persona idealista e impreparata che si oppone all’ingiustizia e se la cava più con l’intelligenza che per capacità militari. Una vicenda dietro l’altra, si attraversano le tappe inevitabili di questa scelta passando dalle imboscate ai tradimenti, dalle crudeltà ai dubbi, dalle infamie agli eroismi: esperienze filtrate da una sensibilità lontana mille miglia dalla retorica guerresca, dalla tracotanza militare, dalla cieca sicurezza di essere sempre e comunque nel giusto. Al di là dell’ispirazione che lo motivava, di lasciare testimonianza di un’importante pagina di Storia, oltre la sua necessità di documento insomma, il romanzo resiste nel tempo per le parti liriche e asciutte e per i dialoghi vivi, veloci come spari di fucile, che non sorprende piacessero tanto a Lalla Romano, amica e fra i primi estimatori di Alberto Vigevani. E per frasi evocative e insieme estremamente realistiche come questa: «Io ingollavo la cioccolata calda spezzando il pane grigio come l’anima mia, come il cielo nel ritaglio della finestra, come le pareti di quella stanza».
In appendice sono poi raccolti alcuni articoli, pubblicati sull’Avanti! nei giorni della Liberazione e anche in essi, accanto all’entusiasmo vittorioso, scorre nelle parole del cronista quella perplessità sulla natura degli uomini destinata col tempo a prevalere e che spande il suo riflesso sulle cose: «A tratti un riflesso illuminava il rosso carico delle bandiere che pigramente sventolavano».
Vigevani ha poi avuto un suo percorso defilato ma di successo con libri come Estate al lago, L’invenzione, Il grembiule rosso. Nel catalogo Sellerio troviamo fra l’altro i romanzi del suo ritorno alla tradizione ebraica – stimolato forse dal figlio Marco – e di riflessione sul genocidio, come Lettera al signor Alzheryan e Il battello per Kew. All’attività di scrittore ha sempre accompagnato quella di bibliofilo, avendo fondato nel 1959 le Edizioni il Polifilo per il recupero «del patrimonio bibliografico italiano dalla metà del Quattrocento alla metà dell’Ottocento», una grande iniziativa intorno a cui ha saputo coinvolgere grandi personalità della cultura italiana da Carlo Dionisotti a Paolo Portoghesi, da Cesare de Seta a Mario Praz.
La poesia, coltivata in vecchiaia (morì a Milano nel 1999 dov’era nato nel ‘18) e raccolta in L’esistenza, pubblicato da Einaudi, è una volta di più esempio del suo spirito mitemente aspro e ironico, come in questi versi: «Vivo, lo so, / di ciò che non ho/ a volte persino/ di ciò che non è».