WIRELESS, la vita di Marconi di Riccardo Chiaberge
Il 15 aprile del 1912 il Titanic affondava e le azioni della Marconi Company volavano alto, mentre la sua principale concorrente, la United Wireless Telegraph, naufragava insieme al transatlantico più famoso del mondo. Cos’era successo? Senza il rapido rimbalzo via etere dell’Sos: «Titanic ha urtato iceberg. Affonda rapidamente» non ci sarebbero stati superstiti, nemmeno quei 705 disperati che lo stesso Guglielmo Marconi, che si trovava a New York, andò ad accogliere al porto il 18 aprile, stipati sul Carpazia arrivato a soccorrerli, quando per gli altri 1500 era troppo tardi.
Solo al cospetto di una tragedia epocale, infatti, apparve finalmente chiara a tutti la grande portata del telegrafo senza fili, la scoperta dello scienziato bolognese che su quella banchina poteva dichiarare con commozione e fierezza alla stampa: «Vale la pena di aver vissuto per aver dato a questa gente la possibilità di essere salvata». E pensare che doveva esserci anche lui fra i vip di quel viaggio inaugurale. Era stato invitato insieme alla moglie, l’irlandese Beatrice O’Brien, che non stava nella pelle all’idea di un viaggio tanto eccezionale. Macchè, come al solito il marito aveva accampato problemi di lavoro, mancanza di tempo, affari impellenti, e avevano dovuto rinunciare.
Quando sale sul Carpazia, Marconi va diretto nella cabina del telegrafo dove troneggia incorniciata la sua fotografia. E lì trova, su un lettuccio di fortuna, coi piedi congelati avvolti nelle bende, Harold Bride, il secondo telegrafista del Titanic che gli racconta che il primo, John Phillips, non ce l’ha fatta. Si sono buttati in acqua, tutti e due, soltanto all’ultimo momento per dare notizie al mondo della catastrofe in presa diretta fino alla fine e Phillips, meno coperto di lui, senza stivali, è morto congelato. Dal Titanic il segnale è rimbalzato nell’aria. Sul tetto dei magazzini Wanamaker’s, nel centro di New York, lo riceve un altro marconista (così vengono subito chiamati questi primi tecnici del telegrafo senza fili) e lo rilancia nelle redazioni che possono ricevere le onde elettromagnetiche. Si chiama David Sarnoff e farà una strepitosa carriera ai vertici della Rca (Radio Corporation of America), erede dell’American Marconi Company e futuro colosso della radiofonia e dell’elettronica e della discografia.
Senza Marconi, infatti, ci saremmo sognati la radio e anche la nostra meravigliosa era digitale, i telefoni cellulari, il navigatore satellitare; meglio: come sempre succede nella scienza, qualcun altro sarebbe arrivato alle sue stesse scoperte, ma più lentamente. Perché il nostro Guglielmo ha bruciato i concorrenti sul tempo grazie al suo carattere spericolato e a qualche ossessione probabilmente più martellante di quelle dei suoi colleghi con i quali condivideva lo stesso pallino per la fisica. Anche dentro agli scienziati, infatti, batte il cuore di un uomo e che tipo fosse Guglielmo Marconi ce lo racconta nei dettagli, fuori da ridicole mitologie, Wireless, la nuova biografia scritta da Riccardo Chiaberge per Garzanti (315 pagine, 18,60 euro) in puro stile britannico, vale a dire con magnifico senso dell’intreccio narrativo e coi documenti (anche inediti) sempre alla mano.
E’ un’epopea emozionante quella di Marconi che via, diciamolo, dalle fotografie non sembra niente di che, un uomo piacevole, con una sua grazia elegante, ma abbastanza qualsiasi, viso da biondino algido, sorrisino tirato, magro e slanciato, ma un po’ legnoso. E invece gran temperamento da tombeur de femmes, di quelli proprio «in Ispagna son già mille e tre», soprattutto geniale, ma non solo – va da sé – nella fisica, anche negli affari. Meno avveduto e perspicace sul piano politico, come vedremo, dove macchia la sua bella esistenza di connivenze piuttosto insensate col governo mussoliniano che gli garantiranno in Italia, oltretutto, se non una damnatio memoriae, un certo umore di serpeggiante discredito.
E dire che era internazionale per nascita, cosmopolita per vocazione e interessi, conoscenza delle lingue, charme. Avrebbe potuto evitare facilmente d’infognarsi nell’Italietta fascista e antisemita, ma la vita va come deve andare, per questo è bello leggere le biografie delle grandi personalità, che non si sottraggono alle cantonate e alle scemenze dei meno intelligenti e degli oscuri. Il padre era emiliano, la madre irlandese. Lui nasce a Bologna, cresce in campagna, a Pontecchio nel podere paterno, il 25 aprile 1874. Non è tipo da studi regolari, anzi a scuola va maluccio. E’ fissato con i fulmini e appena può scappa sul tetto di casa a fare esperimenti con lamine di metallo per trasformare l’elettricità in spettacolo. Nemmeno all’università riesce a concludere un ciclo di studi. Laurea: niente. Segue le sue intuizioni, lui, scalpita. Che se ne fa di un pezzo di carta un genio?
Oltretutto vive a cavallo fra due paesi, l’altro è l’Inghilterra. La madre è valdese e ha voluto allevare i figli nella sua religione. Porta spesso Guglielmo a Londra con sé. C’è una bellissima descrizione della Londra del 1896 nel libro di Chiaberge, questa «Babilonia del mondo moderno. Cinque milioni di abitanti, una giungla di mattoni in perenne espansione, la culla dei motori a vapore, della ferrovia, dell’elettricità». Seguiamo lo scienziato ventenne a zonzo nello Strand, «estasiato e stordito dal rombo di quella fiumana in movimento, omnibus, carrozze, tram e cavalli, e in mezzo le prime automobili». Dove sta andando? Dall’ingegner William Preece, direttore tecnico del Post Office, che vive per il telegrafo e sta cercando pure lui di farlo funzionare senza fili. Quando il giovane che gli ha chiesto un appuntamento gli scartoccia davanti il macchinario di sua invenzione fatto di un circuito trasmittente e uno ricevente che si parlano da un tavolo all’altro senza altro mezzo che l’aria, è sbalordito. «Lei ha fatto qualcosa di veramente eccezionale» gli dice.
E’ solo il primo passo, la prima tappa per trasformare i suoi sempre più complessi esperimenti in realizzazioni pratiche. Lo vediamo in luoghi remoti lanciare nell’aria i suoi messaggi, difendere i propri segreti dagli squali della City, fondare la sua società, preoccuparsi di proteggere le scoperte a suon di brevetti. La via verso il Nobel è disseminata di trappole, di spie, di concorrenti aggueriti. E anche di trovate sensazionali: eccolo nel 1898 mandare un “biglietto” di auguri, naturalmente via onde elettriche, a un’autorità nel campo delle alte energie – non ancora un suo sostenitore – John Ambrose Fleming, il futuro inventore della valvola termoionica (senza la quale niente transistor). E Fleming rimane sbalordito, così sbalordito da affrettarsi a scrivere sul Times: «Nessuna familiarità con la materia può rimuovere il vago senso di stupore con cui uno vede uno strumento telegrafico collegato a cinquanta metri di filo di rame che corrono lungo l’asta di una bandiera, cominciare a estrarre il suo messaggio dallo spazio e a stampare in punti e linee su un nastro di carta l’intelligenza traghettata attraverso 30 miglia di acqua dall’etere misterioso». E se l’etere pareva misterioso a lui, figuriamoci a noi profani che seguiamo Chiaberge nelle spiegazioni tecniche – non mancano nel suo libro – sempre un po’ frastornati.
Ma il lettore profano ha ben altro di cui godere. Se l’eroe autodidatta prosegue la sua strada verso il Nobel per la fisica, ricevuto nel 1909 a pari merito con il tedesco Karl Ferdinand Braun che si muove nello stesso campo, nella vita sentimentale non resta certo al palo. Spesso in viaggio avanti e indietro con gli Stati Uniti, in tempi in cui ci volevano almeno venti giorni dall’uno all’altro continente, sa lasciarsi andare alla dolce vita delle traversate in prima classe, fra sale da ballo e Belle Epoque, danze cheek-to-cheek e Caruso che canta al pianoforte le canzoni napoletane. In cerca di una moglie all’altezza, seduce e conquista alcune fra le più giovani e belle figlie delle famiglie più in vista di un capo e l’altro del mondo. Persino una temibile suffraggetta sul piroscafo Lucania nel 1903, Inèz Milholland, americana, che presto diventerà una popolare leader femminista. Guglielmo ha già trent’anni, è già famoso, è attraente. Intrattiene i passeggeri con i suoi esperimenti sensazionali. Lei ha diciassette anni e nessuna ingenuità. E’ bellissima, lo chiama familiarmente Billy, ma non ha nessuna voglia di sposarsi e consegnarsi a un uomo esigente e in evidente ascesa sociale di cui dovrebbe diventare, ancella, segretaria, moglie, sorella. I suoi progetti sono una carriera da avvocato in difesa delle donne, e magari anche da giornalista. Farà l’una e l’altra e gli resterà amica per tutta la sua brevissima vita. Malata di leucemia muore infatti appena trentenne.
L’occasione sentimentale buona, anzi ottima, arriva per Guglielmo un anno dopo. La baronessina Beatrice O’Brien ha diciannove anni e lo scambia subito per il principe azzurro: «Quel che più mi colpì di lui fu la fronte spaziosa, da intellettuale, e l’espressione dei suoi occhi celesti, che quando si rivolgeva a te guardavano al di sopra della tua testa, come nell’infinito». Si sposano nel 1905, hanno tre figli, Degna, Gioia e Giulio, dopo una prima bambina nata morta. Divorziano (Sacra Rota) nel 1924. In mezzo la vita matrimoniale si riassume in questa frase di Bea: «Provate voi a vivere con un genio!» Un genio fedifrago per di più, che corre dietro a tutte e torna raramente a casa (fra le sue amanti anche Francesca Bertini) e che si permette, malgrado ciò, una gelosia parossistica, asfissiante. Il suo fascino non si appanna nemmeno quando perde un occhio – il destro, come il suo amico D’Annunzio – in un incidente di macchina e lo sostituisce con una biglia di vetro che gli fabbricano su misura a Murano.
Nel 1927 si risposa, con un’italiana questa volta, Maria Cristina Bezzi-Scali che ha meno della metà dei suoi anni e gli dà un’altra figlia femmina, Elettra. La chiamano come lo yacht che Guglielmo possiede dal 1919 e che è per lui ufficio e seconda casa: è sull’Elettra che continua i suoi esperimenti. Ormai è una celebrità internazionale. Quando scende al Savoy, il più bell’albergo di Londra, incrocia altre star dell’epoca, entrate poi nell’Olimpo della posterità: George Gershwin e Somerset Maugham, H.G.Wells e persino Wiston Churchill, che ne frequenta il bar e il ristorante. Kipling, conosciuto a un pranzo ufficiale a Londra, nel 1899, è un suo ammiratore. Lo scrittore pensa che il wireless vada «ben oltre le sue banali applicazioni pratiche, fino a svelare le dimensioni più inesplorate della psiche umana» osserva Chiaberge. Marconi è anche in corrispondenza con Conan Doyle che vorrebbe convincerlo a prendere sul serio lo spiritismo. Sono anni così: il grande balzo in avanti della scienza sembra poter spiegare anche i tanti fenomeni paranormali attraverso cui molti sperano di attingere alla spiegazione della vita e della morte, della separazione e del dolore. La comunicazione senza fili non potrebbe magari avere a che fare con la telepatia, essere un’anticamera per parlare un giorno apertamente con i defunti, senza bisogno di un medium?
Che bisogno ha, perciò, un uomo così straordinario, così prestigioso di compromettersi con il potere politico, lui che oltretutto è per metà inglese? Che bisogno ha uno scienziato indipendente, che per tutta la vita ha inseguito la libertà della ricerca, di accettare «senza riserve» il programma fascista, di esaltare in senato «l’opera titanica del Duce», di farsi osannare al triplo grido «eja, eja, alalà» e, quel che è peggio, di aderire alla segnalazione dei colleghi ebrei? I documenti che Chiaberge propone parlano chiaro: come presidente dell’Accademia d’Italia vediamo Marconi scrivere la E di ebreo accanto a una lista di nomi di aspiranti accademici. Ed è ancora il 1932, le leggi razziali sono ancora lontane. Lo fa per amore di verità, per ottenere i fondi che gli servono, per ingenuità, perché non immagina le conseguenze di simili segnalazioni? Antisemita non è, se poi lo vediamo darsi da fare per la figlia (ebrea) del grande Heinrich Hertz, Mathilde, anche lei scienziata – studia le api e la psicologia animale con importanti risultati – che è dovuta fuggire dalla Germania per riparare in Inghilterra in condizioni di totale indigenza. Amava sinceramente la scienza, Marconi, non solo la sua, ed aveva sostenuto i giovani valorosi di via Panisperna riunitisi intorno a Enrico Fermi, senza curarsi che fra loro ci fossero ebrei. E non era un guerrafondaio: la carneficina del Carso, che aveva visto con i suoi occhi, l’aveva reso per sempre un sostenitore della pace. Allora? Misteri della personalità umana e della vecchiaia.
Una vecchiaia che lo vede ancora e sempre lavorare intorno a un’idea di radar che saranno altri a portare a termine, infastidito dalle spese sconsiderate di Degna e Gioia, sventate figlie di papà che amano i vestiti di sartoria, i gioielli, e poi mandano il conto a lui. E lui non trova niente di meglio, alla fine, che diseredarle lasciando tutto il possibile a Elettra. Anche da Giulio non ha soddisfazioni. Del resto è stato un padre assente e severo col figlio maschio. Da piccolo lo aveva ferito indelebilmente separandolo da un cane cui Giulio era legatissimo, solo perché la bestiola era l’unica creatura in casa a non piegarsi all’indiscussa venerazione del capo, e anzi gli abbaiava contro e lo mordeva. Da grande aveva soffocato il desiderio del figlio di iscriversi a Ingegneria costringendolo ad arruolarsi in Marina. Il ragazzo, che non amava il mare, pagò questa angheria con una depressione che lo perseguiterà tutta la vita.
L’inventore della telefonia senza fili, il padre della radio, si spegne a Roma in un’estate caldissima che mette a dura prova il suo cuore già molto sofferente. Quando il luminare Cesare Frugoni cerca di tirarlo su pur sapendo che ha poco da vivere, Marconi gli dice: «Del resto non me ne importa niente». Sono le sue ultime parole. Alle 3,45 del 20 luglio 1937 gli chiudono gli occhi. Il giorno dopo, mentre se ne celebrano i funerali nella basilica di Santa Maria degli Angeli, tutte le stazioni radio britanniche, compresa la Bbc, che lui aveva contribuito a fondare, osservano due minuti di silenzio.
Così se ne andava, per usare le parole dell’autore di questa emozionante biografia: «un precursore dell’era digitale, quasi uno Steve Jobs ante litteram. Se oggi abbiamo i cellulari, i tablet, il wi-fi, lo dobbiamo anche e soprattutto a lui, al ”signor wireless”… che alla fine dell’Ottocento ha inventato il terzo millennio».