In ricordo di Cesarina Vighy (dalla rivista on-line Giudizio Universale, 5 maggio ’10)
«Non fate troppi pettegolezzi» lasciò scritto Cesare Pavese prima di uscire di scena suicidandosi. Di fronte alla morte, per lunga e dolorosa malattia, di Cesarina Vighy mi viene da pensare a quella richiesta, un po’ ironica, un po’ affettuosamente esigente. Come evitare che il commiato dei vivi si trasformi in pettegolezzo, in commiserazione, persino in sollievo di non condividere un destino altrettanto duro?Cercherò dunque di attenermi alle pagine che Cesarina ha scritto, pur sapendo di non poterne eludere, proprio partendo dai suoi libri, la biografia. Sono soltanto due quei libri, L’ultima estate, (esordio del 2009 che per i consolidati giochi editoriali di quel premio non ha potuto nemmeno rischiare di vincere lo Strega, ma che ha vinto l’Opera Prima al Campiello) e Scendo. Buon proseguimento che è arrivato in libreria all’inizio della settimana in coincidenza con la sua morte. Editi dalla Fazi l’uno e l’altro. Sono testi che a me piacciono prima di tutto perché non rientrano in un genere preciso, e già per questa loro anarchia s’impongono brillantemente in un panorama da questo punto di vista oggi assai scontato: il genere è forte, il genere trionfa, la via più facile della narrativa.
Cesarina Vighy racconta la sua storia, che non è solo storia di malattia, entrando e uscendo dall’autobiografia, acquisendo a tratti un tono lievemente filosofico, cambiando con disinvoltura le stanze e le finestre da cui guarda il mondo, autoreclusasi nella sua prigione protettiva per sottrarsi agli occhi pietosi del mondo. E’ malata di Sla, odioso devastante morbo che vuol dire sclerosi laterale amiotrofica, uno di quei multiformi scherzi della vita quando s’ingegna a perseguitarci oltre il comune peso di sofferenza che a tutti è dato sperimentare. Ma non è stata sempre malata di Sla. E’ stata una persona attiva, desiderante, appuntita. Ha fatto errori e cose belle come tutti, come tanti. Ha amato, si è sposata, ha avuto una figlia, ha saputo apprezzare la bellezza della natura, la compagnia degli animali, ha lavorato come bibliotecaria, ha partecipato alle lotte delle donne quasi inevitabili per la sua generazione. E siccome avevo promesso di restare alle sue pagine riporto un breve passo dall’epistolario Scendo. Buon proseguimentoche dà il segno della sua intelligenza vigile anche quando è in ballo la “passione politica”, per chiamarla così dentro molte virgolette.
«Mi sono sempre arrovellata sul perché le donne non conoscano quasi mai vera amicizia fra loro…Gli uomini, che pur valgono in generale di meno e sono presi da una dura competizione l’uno con l’altro, sanno ritrovarsi in luoghi mentali e fisici ignoti a noi. E’ con vero dolore che assisto al nostro autoconfinarci in una specie di harem, tutte intorno a un osso che spesso non ha più niente di succulento».
E ancora: «Ma perché solo le donne fanno dei regali così carini e gli uomini, invece, comprono rose appassite dai marocchini ai semafori?» E ancora: «Ma, allora, perché rincorriamo gli uomini?»
L’argomentazione sul “femminile/maschile” è del resto solo uno dei temi di riflessione di Vighy su se stessa e sul mondo. C’è il grande tema dell’ingiustizia radicale, del dolore, e poi la difficoltà dei rapporti, e la bellezza, altrettanto inspiegabile del suo contrario.
E siccome, a differenza di Giobbe, Cesarina non chiede ragione a Dio della sua a tratti insopportabile sofferenza, la dimensione religiosa è esclusa dichiaratamente dalle sue pagine. Lei sceglie una via laica, persino spiritosa, amaramente spiritosa, ironica, capace di squarci festosi e solari, per dare voce all’eterna domanda: perché tutto questo? Per quanto condannata all’immobilità (un evviva per le moderne tecnologie che permettono di estendere le nostre capacità mentali e manuali oltre i limiti del corpo) reagisce a schiena dritta, con stoica dignità, riuscendo a fare dei suoi testi qualcosa di esemplare, che credo possa aiutare concretamente altri esseri umani, non necessariamente colpiti dalla stessa tragedia, ma anche solo abitati dal diffuso mal di vivere.
E’ stata una buona idea da parte dell’editore chiedere al sempre sorprendente Vito Mancuso di scrivere l’introduzione a Scendo. «Qual è il fine della vita spirituale?» si domanda il teologo. E risponde: «E’ vincere se stessi», consiste «nell’essere e nel rimanere liberi», nel «domare il proprio detestabile io». Nel trascendersi anche in mancanza di fiducia nella trascendenza. Cesarina Vighy l’ha fatto scrivendo: «Ma io larva cocciuta, ho provato l’estasi della scrittura… Scrivo e scrivo con una facilità e felicità mai provate prima… entro ed esco dalla malattia come un fantasma attraversa i muri».
Karen Blixen divenne scrittrice verso i cinquant’anni, quando dall’Africa tornava in Danimarca carica di fallimenti e perdite: aveva perso l’amore, il marito, la salute, il patrimonio, la vita fatta fin lì. Tornava a casa, alla famiglia da cui era fuggita, completamente sconfitta. Non le restava che scrivere, e scrivere la salvò consegnandola a un altro io, che impose la sua voce al mondo.
Così Vighy. Quando ha perso tutto a causa della spaventosa malattia, si è messa a scrivere dando forza a un vecchio sogno che non aveva osato, prima, inseguire. Ha vinto, perché, spiritualmente, psichicamente, ha saputo superare se stessa.