Morante alla Biblioteca Nazionale di Roma (LEFT, 2/2/14)
«Di quella casa mi piacque tutto: la luce, la posizione, la camera con il letto d’ottone, lo studio-salotto in cui lei sapeva così bene accoppiare il rigore stilistico con la fantasia; guardando il suo tavolo potevo immaginarla nella sua attività creativa, finalmente libera dalle schiavitù familiari»: così il fratello di Elsa Morante, Marcello, ha descritto il primo appartamento abitato da sola dalla futura scrittrice nel libro-biografia Maledetta Benedetta. Elsa e sua madre (Garzanti, 1986). Era, quello, «il minuscolo appartamento di via del Corso 300, in cui la ritrae Carlo Levi nel 1937 e dove vengono scritti parte dei racconti del Gioco segreto» ha raccontato Giuliana Zagra in un suo informatissimo testo sulle case che Morante abitò a Roma da Testaccio ai Parioli, facendo però perno sempre in via dell’Oca 27, l’attico accanto a piazza del Popolo con vista sui tetti romani che aveva condiviso con il marito Alberto Moravia fino alla separazione, all’inizio degli Anni ‘60, e in cui restò fino alla morte (novembre 1985).
Non è dunque il vecchio tavolo descritto da Marcello Morante, ma la bella scrivania di via dell’Oca quella che ora possiamo ammirare alla Biblioteca Nazionale, dove è stato ricostruito il suo studio grazie a una donazione di Carlo Cecchi, custode di alcuni oggetti privati della scrittrice e suo erede insieme al nipote Daniele Morante e alla poetessa Patrizia Cavalli. Lo si trova al pianoterra dell’edificio sulla destra rispetto all’entrata, accanto alla «Galleria degli Scrittori» che la stessa Zagra, coordinatrice scientifica del progetto e curatrice dell’Archivio Morante, ha realizzato su un’idea del direttore della Nazionale Andrea De Pasquale, e dove sono esposti alcuni cimeli: lettere, manoscritti, vecchie edizioni, dai Futuristi al Gruppo ’63, da d’Annunzio a Calvino.
La stanza di Elsa è il suo ritratto, come possono esserlo i luoghi dove raccogliamo i ricordi di una vita intera. Due librerie in legno dorato si fronteggiano semplici e lineari. In una, come ci mostra una collezione di fotografie, era incastonato un caminetto di marmo. Alle pareti tanti quadri, la maggior parte firmati dal suo grande amore Bill Morrow, il giovane pittore newyorkese che morì nel ’62 precipitando da un grattacielo straziandole il cuore. Sono tele coloratissime di molta allegria se non di fenomenale talento (come Morante cercava di credere e imporre al suo entourage). E poi i suoi ritratti firmati dagli amici Carlo Levi e Leonor Fini, e c’è anche un collage che risale al periodo sessantottesco del Mondo salvato dai ragazzini: un cartoncino Bristol di colore azzurro su cui aveva incollato le immagini ritagliate del suo Pantheon ideale, i «Felici Pochi» cui s’ispirava, da Buddha a Simone Weil, da Spinoza a Stendhal, da Rembrandt a un gatto siamese, gemello della se stessa bambina di cui ha voluto mettere solo la testolina.
In terra due antichi tappeti, molto belli e molto lisi, ricordo forse dei viaggi fatti con Moravia. E una panca di vimini dove il blu ritorna nel colore della fodera del lungo austero cuscino. E poi una poltrona di cuoio dove s’indovina ancora la forma della persona che chissà quante volte vi si è abbandonata a leggere, a pensare, a guardare le fiamme dentro il camino, ad ascoltare l’adorata musica di Mozart, di Pergolesi e degli altri compositori imprescindibili, quelli che proprio lei aveva insegnato ad amare anche a Pasolini, il giovane poeta di cui aveva subito capito il genio. Pier Paolo, l’amico carissimo di tanti giorni, con cui avrebbe rotto per un’insopprimibile bisogno di autenticità, quell’incapacità a non essere sincera, e quindi brutale fino alla crudeltà, la sua teorizzata necessità di dire a ogni costo ciò che pensava. E così quando, all’inizio degli anni ’70, Pier Paolo fu abbandonato dal tanto più giovane amante Ninetto Davoli per una ragazza e il poeta soffriva al punto da meditare il suicidio e tutti i suoi amici cercavano di consolarlo e di proteggerlo da se stesso, Elsa no. Elsa aveva preso le parti di Ninetto e pretendeva che Pasolini ne capisse le esigenze di “normalità”, lo esortava a dimostrarsi superiore: «Se lo ami, devi comprenderlo, devi accettarlo» gli diceva inesorabile. Fu uno screzio senza rimedio e quando pochi anni dopo uscì La Storia, e Elsa sperò che quel libro sugli umili le restituisse l’amicizia di Pasolini, lui invece si vendicò scrivendone una critica massacrante. Almeno così sostengono in tanti: che fu una vendetta elaborata con fredda premeditazione. Ma forse il romanzo non gli piacque sul serio e volle comunque rendere a Morante la lezione di una spietata (evitabile) sincerità.
Sulla scrivania, che nella realtà era invasa dai libri, regna ora una spoglia essenzialità in cui campeggia la macchina da scrivere di color verdolino ceduta da Patrizia Cavalli, cui Cecchi l’aveva affidata. «Me ne sono separata senza dispiacere» spiega la poetessa «perché non era un regalo di Elsa, la conservavo in un cellophan chiusa in un armadio e sono molto più contenta adesso che è tornata sul tavolo dove è sempre stata». Cavalli conserva anche da qualche parte il foglio, con una frase finale dell’ultimo romanzo, Aracoeli, trovato nel rullo della macchina. E’ solo questione di tempo: quando quel foglio riemergerà troverà posto nella «stanza di Elsa», che accoglie i visitatori (in un tableau sistemato sull’architrave) con i versi di una sua poesia del ‘51, L’avventura, una sorta di autopresentazione: «Nacqui nell’ora amara/ del meriggio, nel segno del Leone,/un giorno di festa cristiana./ Fui semplice ragazza,/ madrina a me stessa una gatta,/ e alla conquista partii di un dolce cuore». Era infatti un sabato pomeriggio quando la scrittrice vide la luce, il 18 agosto del 1912, in via Anicia al numero 7, nell’antico quartiere romano di Trastevere.