Due vite, di Emanuele Trevi (Il Foglio 3/6/2020)

Due vite, di Emanuele Trevi (Il Foglio 3/6/2020)

«Scrivere di una persona reale e scrivere di un personaggio immaginato alla fine dei conti è la stessa cosa: bisogna ottenere il massimo nell’immaginazione di chi legge utilizzando il poco che il linguaggio ci offre», così riflette Emanuele Trevi nel suo travolgente Due vite (Neri Pozza, p. 130, euro 12,50) in cui fa il ritratto degli scrittori amici, Pia Pera e Rocco Carbone, scomparsi prematuramente e malamente (ma esiste un modo “buono” di andarsene? forse sì, dopotutto, alla fine di una lunga vita appagante, magari nel sonno…) La prima si ammala di Sla e muore sessantenne nella sua campagna lucchese dopo quattro anni di inesorabile malattia progressiva. Il secondo a quarantasei anni, in un incidente di motorino a Roma.

Rocco Carbone 1962-2008

Aver conosciuto (come capita a me) o meno i due protagonisti di questo memoir, e persino averne letto i libri, è ininfluente, perché Due vite è prima di tutto una profonda, schietta, necessaria riflessione sulla vita e la morte, sulla morte precoce, sull’opera d’arte e la sua relazione con la vita, sul carattere che abbiamo e i libri che scriviamo, o non scriviamo… Non so se i mezzi linguistici che Trevi ha utilizzato possano essere definiti come fa lui “il poco” cui possiamo attingere. In verità credo che il linguaggio, a conoscerlo e saperlo maneggiare, offra parecchio e credo anche che l’autore, in questo caso come in precedenza, sappia farne un uso ricco, personale e spesso inconsueto. Qui si avverte poi la forza ulteriore di un racconto che probabilmente da anni gli premeva nelle intenzioni e sul cuore, e che cuore e intelletto abbiano trovato la strada di pagine talmente essenziali e vere da lasciare i lettori a lungo senza fiato, commossi, coinvolti, “perturbati”.

Pia Pera 1956-2016

Dunque Rocco. Dunque Pia, due personalità spinose. Dunque Emanuele, lo sfuggente. Perché a ben vedere le vite raccontate sono tre. E’ nel confronto e nei contrasti fra questi tre amici che il libro prende spessore, oltre che nelle somme tirate dal sopravvissuto e nel suo sguardo amorevole e onesto insieme. Sono somme di vane conquiste e inevitabili sconfitte («non esiste nessuna parola adeguata al casino indecifrabile della vita umana, al suo perenne fallimento»), di segni premonitori e gesti mancati, coincidenze nefaste e onde del destino. Pia e la sua passione botanica, che diventa una forma di letteratura e che in Al giardino non l’ho ancora detto (Ponte alle Grazie) ha il coraggio di raccontare i giorni e le notti di una fine imminente. Rocco e il suo autolesionismo, che in L’apparizione (Mondadori) trova la via della guarigione, usando il romanzo come

Emanuele Trevi

autoterapia. Emanuele e la sua determinazione a scrivere di loro, «perché la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti».

«Viviamo due vite, entrambe destinate a finire» dice a un certo punto, dando un significato ulteriore al titolo del libro. «La prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene».

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