Nel nome di Dacia (Bio’s, marzo-aprile ’22)
Se il nome contiene un augurio, Dacia Maraini era destinata a essere unica. Quel nome di battesimo ce l’ha solo lei. Si pensa alla dacia dei russi (ma non c’entra niente). Me l’ha spiegato una volta lei stessa: «E’ un antico nome romano. Siccome nel duomo di Pisa, da dove viene la famiglia di mia madre, c’è un ritratto di San Dacio, questo santo è entrato nel lessico familiare: Dacio è diventato un nome di famiglia, insieme a tante Marianna, Fiammetta, Signoretto…» E comunque, declinato al femminile, è solo suo. Unica e irripetibile. E sostanzialmente impenetrabile. La conosco dalla fine degli anni Settanta, quando ci siamo incontrate alla Maddalena di Roma, il teatro femminista allora vitalissimo. E l’ho vista, incrociata, intervistata diverse volte nel corso della vita. Sono stata anche in vacanza con lei una volta, nella sua casa di Pescasseroli, fra i suoi oggetti, foto, ricordi, una casa sobria, pratica ed essenziale che le somiglia molto. Fra tante passeggiate in mezzo a mucche e caprioli e qualche chiacchiera, non posso dire, però, di essere arrivata a capirla meglio, a superare la barriera gentile dei suoi bellissimi, luminosi, malinconici occhi azzurri.
Adesso la cerco nel suo ultimo libro, appena uscito da Neri Pozza, Caro Pier Paolo, un ritratto di Pasolini sotto forma di lettere inviate idealmente a lui nello spazio infinito in cui si trova adesso. A volte, parlando degli altri, gli scrittori si lasciano sfuggire più facilmente qualcosa di se stessi. Ma no. Quello che trovo è proprio Pier Paolo e la loro amicizia, i lunghi viaggi africani, scomodi e coraggiosi («oggi sarebbe impossibile viaggiare come facevamo noi, alla ventura, fermandoci nei villaggi più remoti e poverissimi, in zone dove non avevano mai visto un turista») e trovo la Dacia gentile, apparentemente mite, vagamente ieratica che conosciamo. Perché anche quando, sui giornali per esempio, scende in campo a sostenere idee al limite della polemica, lei lo fa con tranquillità e cortesia. Senza scaldarsi. Anche il dolore, ripetuto, intenso, attraversato nella vita e raccontato nei libri, diventa in lei un dato di fatto, un oggetto descrivibile, la cui intimità però tiene strettamente per sé, così come resta segreta la sua imperscrutabile emotività. In questo libro forse Dacia Maraini si spinge un poco più in là. Non si limita a descrivere, ma si concede un giudizio a volte, un giudizio comunque tenero: «La tua sincerità, Pier Paolo, è toccante e rivela la tua lealtà a una croce a cui ti sei inchiodato da solo, e quei chiodi terribili sono ancora lì a torturarti la carne mentre chiedi a un padre onnipotente un perdono che non verrà».
C’è un capitolo molto bello verso la fine di questo Caro Pier Paolo, in cui Dacia immagina di fare un sogno in cui giocano un gioco sulla spiaggia di Sabaudia (davanti alla casa divisa in due appartamenti che si erano costruiti Pasolini e Moravia, simbolo tangibile di una salda amicizia). Si chiama Un, due, tre…stella! quel gioco. Uno si accieca e gli altri, mentre lui conta, devono avvicinarglisi il più possibile per prenderne il posto. Ma quando lui, contato fino a tre, si gira improvvisamente dicendo “stella”, devono tutti restare immobili nella posizione in cui vengono colti. Se perdono l’equilibrio, via, indietro, per punizione. Ed ecco che nel sogno di Dacia, i giocatori sono i loro grandi amici e al muro nella parte di quello che sta contando, c’è Cesare Garboli, mentre gli altri si chiamano Moravia, Penna, Natalia Ginzburg, Enzo Siciliano, Adriana Asti, Bernardo Bertolucci, e Fellini e Schifano e Mastroianni, Anna Magnani, Fellini… E Dacia commenta: «Non so se fossimo felici, Pier Paolo, ma certo vivevamo l’amicizia come una grazia lunare; il gusto di stare insieme senza uno scopo, come non succede ora che ci si incontra solo per parlare dei nostri libri, in occasioni pubbliche, come fiere, festival, convegni. Allora ci si cercava per il puro piacere di trovarsi insieme…»
C’è una Dacia che gioca – a suonare il tamburello questa volta – anche in un ricordo della sua grande amica Piera Degli Esposti, alla quale nel 1980 ha dedicato il libro-intervista Storia di Piera: «La prima immagine che ho di Dacia è là… lei seduta con altre che suonava il tamburello… da quel momento sono rimasta così colpita da un suo senso del gioco, del piacere per il gioco…» Rintraccio questa citazione nell’introduzione di Paolo Di Paolo al bel volume dei Meridiani Romanzi e racconti uscito da Mondadori alla fine dell’anno scorso per la cura dello stesso Di Paolo e di Eugenio Murrali. Ecco forse è qui, in questa scelta di testi, selezionati nel tanto che Maraini ha scritto nella sua lunga carriera di narratrice, che bisogna cercare il suo ritratto, rinunciando però a inseguirla nel teatro, nella poesia e nell’abbondante produzione più giornalistica e d’intervento. Ma proprio la vastità degli interessi ci mette sulla strada giusta. Ci parla di un indefesso bisogno di agire, di stare sul campo e sulle cose, in una parola di “fare”. Ricordo che tanti anni fa, ai tempi appunto della Maddalena, osservando la sua instancabile capacità di fare la valigia e di andare a presentare i suoi libri anche in paesini remoti (quando ancora non si era affermata l’abitudine di accompagnare i propri libri in tanti incontri col pubblico da parte degli autori) ricordo che lei mi disse convinta: ma è così che si conquistano lettori, è così che si stabilisce un rapporto di fiducia.
Erano i tempi in cui era ingiustamente considerata ancora, da parte dell’intellettualità di sesso maschile più che altro, “la compagna di Moravia”, quasi non avesse alle spalle un suo percorso autonomo e interessante, fuori dagli schemi e dai salotti, convintamente dalla parte delle donne. Aveva pubblicato nella giovinezza due notevolissimi romanzi (presenti nel Meridiano) La vacanza e L’età del malessere in cui metteva in scena, in una lingua scabra e modernissima, il disorientamento esistenziale e sessuale di due ragazze. Con Memorie di una ladra del 1972 comincia il suo engagement letterario e cresce la popolarità anche grazie al film di Carlo Di Palma che ne fu tratto, Teresa la ladra, interpretato da una splendida Monica Vitti. Engagement che ormai fa parte della sua espressione artistica (pure in poesia, nel teatro, nel giornalismo) e che non manca, come riflessione su un destino femminile, neanche nel romanzo storico La lunga vita di Marianna Ucrìa, il suo romanzo forse più famoso che, vincendo il premio Campiello nel 1990 la impose all’attenzione generale, travalicando l’ambito femminista o di “autrice per donne” in cui tanti pretendevano di confinarla. E c’è qualcosa di simbolicamente decisivo nel fatto che quell’anno, il 1990, è anche l’anno della morte di Alberto Moravia, dal quale si era sentimentalmente separata da tempo, ma restando vicini e importanti l’uno per l’altra. È decisivo perché ormai Dacia Maraini non è più la “piccola” di un formidabile gruppo di amici scrittori, Moravia, Pasolini, Morante, Ginzburg…ma un’autrice poderosa e significativa per conto suo, che è anche la testimone più vicina di una società letteraria ormai estinta.
Si concede l’autobiografia, sempre in quel suo modo reticente e distante (persino quando rivela un episodio di molestie sessuali subito nell’infanzia da parte di un amico di famiglia o l’amore devastante che provava per il padre Fosco) con Bagheria, sulla sua Sicilia lontana nel tempo e quella attuale. Ed è proprio «la novità dei contenuti autobiografici» nota Murrali dando notizie sui testi compresi nel Meridiano a fine volume, che «sembra richiamare l’attenzione dei critici», critici che si fanno attenti e come sorpresi. È una novità che tornerà in opere successive, in pagine fra le più toccanti: la morte della sorella Yuki, la fine di un grande amore con un musicista parecchio più giovane, la morte di un altro compagno, l’attore Giuseppe Moretti, davvero troppo giovane per morire, la scomparsa – vecchissima – dell’adorata madre Topazia, ma il fatto che fosse ultracentenaria non rende il dolore meno devastante… E poi ci sono i suoi cani, «ho sempre avuto cani nella mia vita» scrive in quel coinvolgente libro di commiati che è La grande festa del 2011, e qui il tono si fa a momenti davvero privato e dolcissimo, per rifugiarsi subito nelle citazioni. Di Barthes, di De Martino, di Pascal… ma a che servono i libri degli altri (e in parte anche i nostri) se non a consolarci di sofferenza, fallimenti, perdite?
La lunga vita di Dacia Maraini non ne è indenne: successo, grandi amori, grandi viaggi, grandi amici, grandi solitudini, inevitabili infelicità. Ma per fortuna c’è la scrittura. E ci sono anche tanti, tantissimi racconti: alcuni, fra i più belli, occupano una sezione significativa del Meridiano: Mio marito, Fame, Il poeta-regista e la meravigliosa soprano… Ecco questo racconto in particolare dice qualcosa di profondo e autentico su Dacia, una Dacia giovane, avventurosa e grande osservatrice degli altri. Dice di una ragazza “dagli occhi cilestrini” che assiste durante un viaggio in Africa all’innamoramento sbagliato della Callas per l’omosessuale Pasolini (ma i nomi non vengono dichiarati). Dice quel suo tenersi in disparte eppure al centro della scena, dice una profonda comprensione umana, dice soprattutto la capacità sicura di dirlo. È un racconto magistrale dove c’è tutto quello che deve esserci in un grande racconto: una storia forte, la malinconia della vita, il contenuto fantasmatico dell’amore, una leggerissima ironia, la morte, e una chiusa che riepiloga l’accaduto in un solo gesto significativo. Si trova nella raccolta La ragazza di Maqueda del 2009, e non a caso l’autrice, parlando di questo libro, ha detto una cosa che adesso mi sembra il suo ritratto più preciso: «Vorrebbero essere racconti della curiosità verso il mondo e della gioia di narrare».