Ritratto di Jane Bowles (Il Foglio, 11 giugno 22)
UNA GIOSTRA PIENA DI VENTO
«Siamo talmente incompatibili che dovremmo essere conservati in un museo»: questo pensava Jane Auer del suo matrimonio con il musicista, compositore e narratore Paul Bowles, del quale assunse il nome non solo da moglie, ma anche da scrittrice firmando i propri libri, perché il cognome di famiglia le era odioso e voleva solo allontanarsene e dimenticarlo, malgrado fossero i soldi ricevuti in eredità a permetterle di fare la vita randagia cui aspirava e che condivise con lui. A parte la comune passione per lo sradicamento e un erotismo prevalentemente omosessuale, erano davvero due persone agli antipodi. Lei era infantile e chiacchierona, lui paterno e distaccato; lei estroversa, lui compassato; lei esprimeva ogni emozione, lui le emozioni tendeva a sopprimerle; lei era molto paurosa, lui adorava le situazioni estreme; lei beveva parecchio evitando le droghe, lui non amava l’alcol, ma le droghe sì, anzi considerava l’hashish indispensabile per la creazione artistica. E si potrebbe andare avanti a lungo: lei gelosa, lui comprensivo; lei isterica, lui tollerante; lei si gettava in storie erotico-sentimentali disastrose, lui teneva i propri eccessi sessuali sotto controllo. E ancora: lui era delicato e affascinante, se non decisamente bello, con ondulati capelli biondi. Lei era – diciamo – un tipo. Magrissima (forse anoressica) con folti capelli rossi, crespi e indomabili, i denti grossi e sporgenti fra labbra sottili e un ghigno antipatico fissato sul volto. Almeno così sembra nelle fotografie. Però ce ne sono alcune del primo anno di matrimonio, in cui appare serena e sorridente. Eccoli allora Jannie e Paul, sono al mare, seduti sugli scogli nella stessa identica posizione, fragili da sembrare di vetro e rilassati, si tengono le ginocchia al petto e guardano di lato, dalla stessa parte, forse la stessa scena, con identica dolcezza e felicità.
Sul piano letterario non erano meno distanti. Lui riflessivo e introspettivo, lei, beh, lei sarebbe difficile definirla con due parole esemplificative, secondo parametri tradizionali. Il che non è necessariamente un complimento. Paola Moretti che firma la nuova traduzione della raccolta Piaceri semplici (245 pagine, 17 euro, ora riproposto dalla casa editrice Racconti) parla in una postfazione al testo di «universo sghembo di ferocia e tenerezza», e credo non si potrebbe definire meglio la stravagante scrittura di Jane Bowles, che – ancora Moretti – «riproduce un mondo popolato da un’umanità stramba, tragica e dolorosamente divertente, composta in prevalenza di donne che fanno fatica a conformarsi, ad adeguarsi a quello che gli altri o la società vorrebbe per loro. Zitelle, lesbiche, madri oppressive, figlie insicure, sorelle asfissianti, bambine tiranniche, donne passionali, meschine, egoiste. Ubriacone. Donne che nonostante la loro grettezza e le loro brutture morali non risultano mai davvero odiose, solo umane e fallibili».
Diceva Cechov che se in un racconto compare una pistola, prima o poi bisogna che spari. È una delle regole non scritte della composizione narrativa, fatti salvi tutti i tentativi di scardinare questa come altre leggi nelle vicissitudini novecentesche del narrare. Ma se Jane Bowles non lascia sparare quasi mai le pistole che, sotto altre sembianze, mette in campo, non lo fa per sconvolgere il quieto procedimento compositivo o per scioccare il lettore. Del lettore Jane Bowles se ne frega, non è un’avanguardista e tanto meno uno scrittore classico. Se ne fregava di regole nella vita e così faceva quando si metteva a scrivere. Probabilmente il personaggio che in maniera più esplicita la rappresenta nella raccolta è quello, secondario, di una donna che – in «Camping Cataract» – a un certo punto dice: «L’individualismo è il mio Dio». Per questo lei, la donna del racconto, non è andata al cinema come tutti. E lo spiega così (ma si ha l’impressione di ascoltare l’autrice in persona): «Non mi piace fare quello che fanno gli altri».
Leggere Bowles è un’esperienza rara e disorientante, proprio perché a lei non piace fare quello che fanno gli altri scrittori. Il suo narrare è una giostra in corsa piena di vento che si arresta sempre troppo bruscamente. Niente va mai nel verso che un lettore si aspetta o che il titolo di un racconto potrebbe far supporre. Gli amori cominciano là dove non te lo immagini e durano poco, pochissimo, finiscono quasi sempre per viltà, paura, fughe repentine. I personaggi, giovani o meno, uomini e – soprattutto – donne, sono invasi dall’ansia, incerti sul da farsi, spinti da pulsioni improvvise, ribelli, invidiosi, travolgenti e spesso travolti. Dalla vita, dall’infelicità, dall’insoddisfazione. Lo sfondo di questi racconti è un luogo esotico e selvaggio, dimenticato dalla civiltà, dove i rapporti fra le persone aderiscono a una primitiva essenzialità, a un ordine che non dimora mai in niente di razionale, perché radicato invece in una specie di emotività espansa e ingovernabile che genera attrazioni come immotivate ripulse. L’impressione, leggendo, è di guardare in uno schermo particelle di materia impazzite che si attirano, cozzano, rimbalzano in continuazione.
Eppure queste particelle-personaggi parlano molto, si avvitano in dialoghi serrati, ma senza arrivare a capo di niente, perché in realtà non cercano un vero scambio, hanno un atteggiamento solipsistico, non chiedono spiegazioni e non ne danno. Si limitano a vivere, a osservarsi, a dirsi, a interrogare, a equivocare, ma senza pretendere risposte. Le risposte non esistono e non arrivano. C’è forse una risposta all’eterna domanda: perché si viene al mondo, a quale scopo? C’è forse una trama lineare nell’esistenza? I personaggi di questi racconti non riescono a organizzare la “trama” nemmeno di una singola giornata. Procedono a caso, come se infilassero la mano in un sacchetto affidandosi al numero, fortunato o meno, tirato fuori. La señorita Còrdoba che in «Un idillio guatemalteco» vorrebbe dare una svolta alla propria vita seducendo un uomo che la salvi da povertà e apatia, non ne fa una giusta e si ritroverà sulla porta della sua stanza a guardare fuori senza prospettive. Anche quando la rivediamo in un altro racconto – che s’intitola col suo nome – niente è cambiato nel suo destino se non una serie di sproporzionati errori che non l’aiutano a raggiungere gli scopi che si propone, ma la lasciano ancora una volta seduta sola in una stanza in contemplazione del nulla. Perché forse altro non desiderava che restare identica a se stessa per sempre, per sempre nella stessa situazione, nella segreta, intima convinzione, non dichiarata, che ogni destino ne vale un altro.
Chi ha letto il romanzo, l’unico, di Jane Bowles, Two Seriuos Ladies del 1943 è preparato (col titolo Due signore perbene fu proposto in Italia nel 1989 da Bollati Boringhieri e poi dodici anni fa dalla Tartaruga): anche qui manca volutamente una trama tradizionale. Le cose accadono, ma potrebbero accaderne altre, e le due signore del titolo s’incontrano soltanto due volte nella vita e senza particolari conseguenze. L’autrice ne racconta con libertà ironica, al limite dell’irritante, lo strampalato modo di stare al mondo, di procedere, intrattenere relazioni, dominare o essere dominate. E questo almeno, la differenza fra caratteri dominanti e caratteri facilmente influenzabili che cadono in pericolose dipendenze rispetto ai caratteri forti, è un punto fermo della narrativa di Bowles, onnipresente pure nei racconti. Tanto che viene naturale cercarne la causa nell’esistenza dell’autrice, nel suo carattere così poco convenzionale eppure dipendente da un marito altrettanto originale, il Bowles autore, fra l’altro, di quel Tè nel deserto che racconta diversi modi di perdersi nella sabbia africana (intesa come luogo dell’anima) e che divenne un famoso film di Bernardo Bertolucci, con un’ispirata Debra Winger e l’ambiguo John Malkovich.
In Marocco, Jane e Paul si erano installati nel 1947 restandoci poi tutta la vita e diventando punto di riferimento per tanti protagonisti della Beat Generation desiderosi appunto di perdersi, da Jack Kerouac a William Burroughs, da Allen Ginsberg a Gregory Corso, come di altri irregolari incontrati a Parigi nel salotto di Gertrude Stein o in giro per il mondo, Gore Vidal e Truman Capote, Tennesse Williams, Carson McCullers, Benjamin Britten, Golo Mann… Erano una coppia sfrenata e simpatica, accogliente e libera, Jane e Paul, entrambi bisessuali. Quando si erano incontrati, nel 1937, lei era stata solo con donne ed era ancora vergine. Lui era già un compositore affermato e si muoveva a suo agio pure nella letteratura. Jane era desiderosa di uno spazio suo di celebrità, ma quello spazio non arriverà mai, a parte la stima, autentica, dei soliti amici (di Capote soprattutto). Forse proprio per la loro evidente diversità Jannie e Paul si attirano enormemente, si sposano nel 1938 e per un anno il loro è un rapporto fortemente erotico che si stempererà in un legame solidale a prova di bomba, un legame di profonda amicizia, reciproca solidarietà pur negli inevitabili tradimenti. Però: solo con altre donne lo tradisce lei, solo con uomini lui. Una vita sradicata e vagabonda che porta questi due newyorkesi (del 1910 Paul, del 1917 Jane) dalla Francia alla Costa Rica al Messico per poi fermarsi a Tangeri, fino alla morte.
Morte di lei che arriva prematura. Travolta da un ictus quando ha solo quarant’anni, ne vive altri sedici impossibilitata a leggere e scrivere, entrando e uscendo da case di cura e di riposo, assistita da Paul che nel 1970 la porta disperato in una clinica psichiatrica di Malaga sperando in una qualche terapia miracolosa e dove Jannie si spegne il 4 maggio di tre anni dopo. Era stata la donna della vita, la Kit del Tè nel deserto a cui aveva attribuito la frase iconica: «Noi non siamo turisti. Siamo viaggiatori», ora si convince che con la moglie scompare il suo vero io. Mentre lei si era da subito proiettata in quello del marito. Un gioco di specchi che aveva dato vita a una coppia artistica unica e incendiaria.
Paul le sopravvive fino al novembre 1999.
Sarebbe difficile ritrovare in questi Piaceri semplici tracce della loro vita di coppia. Mentre innumerevoli sono le ispirazioni legate alla gente, ai luoghi, ai colori, agli odori, ai respiri di un mondo sempre altro, concreto eppure avvolto in una nube immaginaria, che doveva essere quella della forte fascinazione subita dagli occidentalissimi Bowles nella realtà lontana di Tangeri. E del resto si tramanda un’altra frase significativa, attribuita alla scrittrice, che dice tanto del suo profondo spaesamento interiore ed esteriore: «Vivo sulla soglia, costantemente sospesa tra il desiderio di raggiungere qualcosa e l’incapacità di arrivarci».
Di “soglia” parla anche un’altra fotografia in cui si intuisce tanto del complicato rapporto che intratteneva con la vita: l’immagine la mostra compassata, austera, vestita di bianco che cammina in una stradina di Tangeri tenendosi fortemente al braccio di una donna in chador completamente coperta di nero che sembra invece molto sicura di sé. Non se ne vedono nemmeno gli occhi perché protetti da occhiali da sole. Era la sua amante Cherifa: incarnazione di una soglia vicina e insuperabile. Perché al fondo di tutto c’è il mistero dell’altro, anche quando è un’altra.
O, che è lo stesso, il mistero di sé: non era Jane un enigma per gli amici e ancor più per se stessa? E questo l’ha resa sfuggente persino rispetto al femminismo, ai tentativi femministi di appropriarsene. Come scrive nel racconto «Viaggio in Massachussetts» (o Il corteggiamento di Janet Murphy): «Non mi interessano le discussioni tra donne. Mi interessano le discussioni tra uomini e donne». In effetti la sua scrittura resta refrattaria a questioni di genere, non si può senza fraintenderla costringerla nei ranghi della letteratura lesbica o genericamente femminile, e ciò spiega forse l’ambivalente rapporto che le femministe hanno intrattenuto con lei, divise fra il desiderio di contarla nelle proprie file e lo scacco di non riuscire a farla mai stare perfettamente in riga. Complicato far rientrare nei ranghi di qualsivoglia sesso una che la pensa così: «Non ho mai riposto ammirazione nell’essere umana. Voglio essere come Dio. Ma non ho ancora incominciato».
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