Troppi scrittori? (L’immaginazione n.330)
Non so se i comuni lettori se ne rendono conto. Ma gli “addetti ai lavori” sì. Si rendono conto con strazio infinito che non si può andare avanti così. Si stampano troppi libri, che per la maggior parte temo non riescono nemmeno ad avvistarlo un vero lettore. A non aver le idee chiare sui propri desideri di acquisto, già andare in libreria e orientarsi (in un’offerta per altro scremata dal libraio) è un’impresa dolorosa e scoraggiante. Nomi mai sentiti occhieggiano in copertina, garantiti da nulla se non da risvolti esageratamente ammiccanti: il nuovo Tolstoj, la novella Elsa Morante! Un capolavoro! Il più grande scrittore italiano…
Gli addetti ai lavori in libreria non ci vanno nemmeno più. I testi imprescindibili li possiedono già da tempi non sospetti. E non fanno che sognare, fra l’altro, di trovare il tempo di rileggerli. Ma come si fa col postino che suona trenta volte al giorno per recapitare volumi di ogni tipo che si ammasseranno in salotto gettando chi li ha ricevuti nella disperazione? «Ah, questo lo voglio proprio leggere» dice il poveretto al cospetto di un romanzo di cui tanto si parla e di autore stimato. Ma se non sta attento, gli arrivi successivi lo affosseranno nascondendolo alla vista e di quella desiderata lettura non resterà traccia. Oppure, come sta capitando a me da mesi con l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq – per dirne uno – non si riuscirà a portarlo a termine causa l’urgenza di altri libri cui dare la precedenza per recensione da scrivere o premio cui partecipa… È vero che le sue quasi 800 pagine sono una violenza al lettore (ne bastavano la metà) e che non mi è sembrato all’altezza di altri suoi romanzi precedenti, ma siccome amici fidati mi dicono che Annientamento vale per la parte finale, avrei molta voglia di poterci arrivare…
A proposito di premi. Essere giurato a un premio (più d’uno nel mio caso) è ormai fonte di profondo sconforto. Siccome i libri che escono sono infiniti e meriterebbero forse una qualche considerazione, gli editori disperati che fanno? Non riuscendo a ottenere spazio sui giornali e sui media per tutti, cercano di accontentare quanti più autori possibile mandandoli sconsideratamente ai premi. Che fra l’altro pure loro si stanno moltiplicando. Il risultato qual è? Casse di concorrenti che intasano, una volta di più, salotto e altre stanze, tutti ammassati in scatoloni da trasloco che per tanti diventano, inutile negarlo, una specie di fossa comune.
A che serve allora tutto questo, mi dico, se non a nascondere il vero valore? Perché non esiste più da nessuna parte la capacità di selezionare e scegliere? Forse perché, va detto, tanti di questi libri e di questi autori si equivalgono. Sono una massa media e rispettabile, senza genio e senza una significativa idea di letteratura, ma non sono sgrammaticati o insignificanti. Parlano di loschi omicidi, o dei problemi con la mamma, o di una terribile crisi di nervi con permanenza in manicomio, e della morte irrimediabile della nonna, e delle crudeltà di un padre padrone. Va bene, ma a che serve raccontare la trama? A noi (quelli della mia generazione intendo, che ha sul groppone un buon numero di anni) era stato insegnato che non la trama conta nei romanzi ma lo stile, l’idea profonda che sottende a una storia, quel quid indefinibile che rende certe pagine indimenticabili, insostituibili, qualsiasi cosa raccontino.
Ora, provate ad ascoltare un’intervista a qualsivoglia nuovo autore (salvo eccezioni, fortunatamente. Quelle ci sono ancora e rischiano di passare inavvertite fra le maglie della trionfante banalità). Provate ad ascoltare, dicevo, uno di questi sedicenti autori che raccontano un loro libro. Vi verrà spiattellata la quotidianità di personaggi trattati come fossero amici o parenti. E perché hanno fatto questo, e perché hanno detto quell’altro. Tutto un resoconto di cose ovvie, insomma, tutto un puntare sulle trame di vite che si vorrebbero singolari e non sono altro che esistenze come tante. Inevitabilmente. Se la letteratura racconta il visibile, a cosa serve? Ci sono i media per questo. L’arte, come ha detto Paul Klee, e in vari modi tanti altri, non deve riprodurre il visibile, ma rendere «visibile l’invisibile». E l’invisibile non è la ragione psicologica che spinge un personaggio a fare quello che fa. Troppo semplice. Ormai siamo tutti cresciuti a pane e Freud, uno scrittore non può cavarsela così. Per invisibile s’intende proprio quello che nessuno riesce a scorgere. Solo un grande artista. Grande, appunto. Raro. Così raro che viene il sospetto sia lui soprattutto, oggi, invisibile.