Scrivere l’ombra (Immaginazione 331 settembre-ottobre 1922)

Scrivere l’ombra (Immaginazione 331 settembre-ottobre 1922)

Mi ero appena lamentata (sull’Immaginazione precedente) dei brutti libri che escono e che invadono librerie e case di poveri malcapitati, e sono stata subito punita. Ma invece dovrei dire premiata. Mi sono infatti imbattuta, in questa torrida estate, in due volumetti smilzi e interessantissimi, uno di esordiente donna e l’altro di autore affermatissimo.  La prima si chiama Giulia Serughetti e il suo titolo suona così: Amore assoluto e altri futili esercizi, pubblicato da Marcos y Marcos (142 pagine), e l’altro è Marcello Fois e il suo La mia Babele, che ho avuto in bozze, è nelle librerie dal 6 di settembre per i tipi di Solferino e conta 139 pagine. Insomma, ti butti su un divano e te li bevi in un giorno, perché subito si stabilisce con l’una come con l’altro un rapporto di vicinanza e di complicità. E pure di curiosità per le loro vite. Perché è questo che raccontano, ma con un taglio (potremmo chiamarlo anche stile) che subito balza avanti accendendo fin dalle prime righe quel motore di interesse necessario per arrivare in fondo.

Sappiamo quanto Fois sia un narratore che, come scrive già nel prologo, sappia «aspettare la parola giusta», ma qui ci spiega in un avvincente carrellata autobiografica, il suo corpo a corpo con la lingua, anzi le lingue, il sardo d’origine e l’italiano d’arrivo, in quel continuo passo di autotraduzione che caratterizza, appunto, i bilingui. E come si fa a rendere avvincente un simile argomento? Bisogna essere degli scrittori che sanno aspettare la parola giusta, che fanno rivivere sulla pagina l’infante che non si toglierà mai dalla testa la parola tassa (nel senso, in sardo, di tazza ma pure di bicchiere) come il brillante studente che a Bologna chiede – e ottiene – la tesi a un Maestro inavvicinabile quale fu Ezio Raimondi. Fois è del 1960 e ha fatto in tempo a conoscere qualche grandissimo: «Lo sguardo e il profumo di Giulio Einaudi sono un mio patrimonio inalienabile». A volte penso che aver potuto osservare come parlava, si muoveva, scherzava qualcuno di quella grande generazione faccia la differenza (non qualitativa ovviamente, semplicemente una differenza) con gli scrittori più giovani che non possono contare su analoghi “esercizi di ammirazione”… Molto nuova, poi, la seconda parte de La mia Babele, dedicata al rapporto coi numerosi traduttori alle prese con una lingua, l’italiano di Fois in cui costantemente ne affiora un’altra, il sardo, per la quale sono molto meno attrezzati e spesso disorientati. Ma alla fine, dice Fois e sono perfettamente d’accordo, «non è l’idioma» che conta, ma «l’ombra». Perché «saper descrivere è esattamente quella fiammella che ti rende comprensibile in contrade dove si parlano lingue diversissime dalla tua».

È una che sa descrivere «l’ombra dei boschi» anche Giulia Serughetti. Lo fa in modo istintivo e naturale e, se vorrà continuare a scrivere con la genialità che caratterizza il suo esordio, dovrà sicuramente lavorare sulla consapevolezza dei propri mezzi. Stavo dicendo “e di sé”, ma avrei sbagliato. Consapevole di sé, questa autrice lo è profondamente. Lo è dentro un’ottica malinconia e autoironica che è la sua forza principale. «Soffro purtroppo di felicità fragile, una malattia terribile e autoinflitta…». «Io sarei una pessima zebra. Pur di non competere con le altre, mi offrirei al primo ghepardo». E quando parla della bellezza di Roma che fotografa «come un giapponese in delirio», ecco il graffio di una rapidissima riflessione: «E che tu sia un eroe o un codardo, un grande artista o un proprietario di cellulare, non c’è scampo, ogni foto che fai sarà sempre un nudo, il tuo». E quando inevitabilmente si confronta con la famiglia, una madre tempestosa, un nonno adorabile, una nonna isterica, lo fa per coloratissime pennellate, cogliendo l’essenziale di una frase, uno sguardo, un gesto, un’intonazione. Al lettore immaginare la fisicità, pur evidente dalle sue parole ma mai descritta, di persone, scenari, cose. Ecco un’arte rara oggi, soprattutto fra giovani scrittori che pensano di dire tutto, troppo: il colore degli occhi e dei capelli, la provenienza dei personaggi e interminabili battibecchi poco significativi intorno alla tavola in una serie di scenette ammorbanti e alla fine tutte uguali. In questo libro, invece, c’è un grande personaggio, un cane, una cockerina simpaticissima, di nome Olivia, che resta cane dall’inizio alla fine, senza riduzioni antropomorfiche, mascotte del quartiere grazie al carattere allegro e della quale si sa solo che, quando compare, infonde alla pagina l’impeto delle sue peripezie. «Ci sono persone di pongo, persone di cemento e persone di pongo con un’anima di cemento» analizza l’autrice, Olivia ha invece un’anima di leggerezza amorevole, come vorremmo avesse l’umanità.

 

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