Poesia-profezia: Mariangela Gualtieri (Donna, chiesa, mondo n.115, ott.22)

Poesia-profezia: Mariangela Gualtieri (Donna, chiesa, mondo n.115, ott.22)

Mariangela Gualtieri

«Ciò che non muta / io canto / la nuvola la cima il gambo / l’offerta il dono la rovina…»: sono versi di Mariangela Gualtieri della raccolta Bestia di gioia (Einaudi 2010) che ben rappresentano una poetica in profonda sintonia con essere e non essere, con le cose, la natura, gli animali. Versi pacificati anche con ciò che per altri è ispirazione di dolore e spavento: la fine, la morte, gli abissi della sensibilità. Versi che cercano (e trovano) un punto di stabilità nell’essere al mondo, una radice che scava in zone profonde per arrivare al cielo. Versi grati alla vita. Leggo nella stessa raccolta: «Al centro di me / una bestiola accucciata si sveglia /e respira il silenzio che nel giorno / è mancato. Respira. A suo modo / canta…»

È questa capacità di sentirsi parte di un tutto misterioso, ma non terrorizzante, questa letizia affettuosa che apre forse le antenne nascoste di una capacità artistica inevitabilmente profetica. Se penso ai poeti di oggi non vedo chi meglio di Mariangela Gualtieri possa incarnare la figura del profeta buono, ricco d’amore per il creato, per il suo male e il suo bene, che tanti hanno potuto riconoscere nella lettura di una sua poesia, Bello mondo, tratta dalla raccolta Le giovani parole (Einaudi 2015) fatta quest’inverno da Jovanotti sul palco del festival di Sanremo: «…Ringraziare desidero / Perché su questa terra esiste la musica / Per la mano destra e la mano sinistra / E il loro intimo accordo / per chi è indifferente alla notorietà / Per i cani, per i gatti / Esseri fraterni carichi di mistero…»

Poesia “francescana” che la stessa autrice riconosce tale, già scritta dagli autori del suo cuore, ma – uso una sua parola – «inesauribile», quando ora mi dice: «Da sempre mi sento naturalmente parte di un tutto vastissimo e, a me sembra, da questo mio punto di vista terrestre, dotato di grande sbalorditiva bellezza. Questa bellezza continua a rivelarsi ai miei occhi e mi appassiona: sono vicina all’entusiasmo di Francesco D’Assisi o di G.M. Hopkins più che alla natura matrigna di Leopardi. Credo faccia parte del mio essere-fatta-così. Lo spavento, o il lato d’ombra, sta in ciò che mi allontana da questa consonanza, da questo sentirmi in armonia col resto, e dunque in primo luogo fra gli ostacoli c’è la mia mente inquieta, quando lavora in modo assillante, o anche la corsa incessante alla quale tutti siamo costretti, l’agire sempre in vista di un risultato, la mancanza di silenzio».

Ti capita mai di non desiderare di ringraziare (di fronte agli orrori del mondo e dell’uomo, per esempio)?

«Tu mi interroghi sul dolore e sul suo significato e questo è davvero un capitolo che resta per me inspiegato, soprattutto quando a soffrire sono i più fragili, i più deboli, i bambini, i vecchi, gli animali. Posso risponderti di no, non mi è ancora mai capitato di non desiderare di ringraziare e capisco quanto io sia fortunata per poter fare una affermazione del genere. So che ci sono vite insopportabili, durissime in ogni loro istante, e questo mi addolora per un naturale sentimento di compassione. C’è un’imperfezione del mondo che è difficile accettare, ma c’è indubbiamente uno splendore quotidiano che mi lascia spesso sbigottita, profondamente grata. Pensa a Etty Hillesum nel campo di concentramento quando pensa che la vita è bella. È un modo di sentire che a me sembra appartenere a un destino, non credi?»

Etty Hillesum

Provo a rispondere alla sua domanda. Che in questo periodo mi sento sopraffatta dalla violenza e dal dolore, degli altri, non miei. Che non vedo luce nel futuro e ho paura. Ma, aggiungo, nella sua poesia trovo pace, trovo un’altra possibilità delle cose. In Quando non morivo (Einaudi 2019) leggo: «Siamo questo traslare /cambiare posto e nome. / Siamo un essere qui, perenne navigare / di sostanze da nome a nome. Siamo». Ecco, secondo me, l’essere radicati nel cambiamento è la grande forza di questi versi, che non si affidano a Dio («io non so invocarlo questo tuo Dio / né bestemmiarlo. Troppo duro per me»), ma restano nell’attesa sospesa di qualcosa, qualcuno, che ha dato forma al mondo: «Chi li ha pensati i fiori, / prima, prima dei fiori» (Senza polvere senza peso, Einaudi 2006). Forse, mi dico, l’arte è inevitabilmente profetica, visionaria, e domando: possono esistere poeti non profetici? La risposta è saggia: «Bisognerebbe avere chiaro che cosa è l’arte contemporanea, un ambito terribilmente inquinato dal mercato e nel quale non è semplice orientarsi. Credo comunque che l’arte sia profetica ogni volta che fa ponte fra indicibile e mondo, fra esperienza e mondo fuori dall’esperienza. Ogni volta che, attraverso un segno finito, ci mette in contatto con l’illimitato».

«È terra la sostanza del mio dire…» sostieni in una poesia di quella raccolta. Ma è una terra che sprofonda nell’aldilà, che ti mette in contatto con i morti. In fondo è una terra celeste, è così?

«Come scriveva Anna Maria Ortese la terra è un corpo celeste: noi lo abitiamo e siamo fatti di lei. Per gli indiani d’America, noi siamo terra che parla, terra che cammina. Il nome stesso di Adamo nella Bibbia viene dalla terra, la adamà.  Più che vedere oltre penso sia decisivo vedere l’adesso, e forse questo fa la poesia. Già William Blake scriveva che “se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all’uomo com’è, infinita”. La terra, l’humus da cui deriva la parola umiltà, a me sembra miracolosa, soprattutto da quando abito in campagna. Il segreto del seme diventa la verzura del prato, scrive Rumi. Tutto pare tenere stretto un segreto, tutto pare così ben fatto e non so trovare il confine fra materia e spirito, fra carne e spirito, fra terrestre e celeste. I morti sono in me molto presenti, da sempre. La bambina che ero pensava che occupassero le stanze vuote. Ricordo la mia paura di disturbarli: cantavo a squarciagola salendo le scale che portavano alla mia camera, per dare tempo ai “morti” di scomparire. Ripensandoci ora, somigliavano molto ai morti di Pascoli, muti, amorosi, preoccupati per noi, non erano certo spettri spaventosi ma piuttosto presenze d’oltremondo, misteriose, sapienti, soccorrevoli. Ho avuto la fortuna di assistere alla morte di mio padre e poi di mia madre e di poter accudire le loro ‘care forme’: la pace colma di rivelazione di quei momenti mi sembra l’ultima loro consegna, l’ultimo loro insegnamento».

E i sogni? Hanno un qualche ruolo nella tua visione?

Gualtieri con Jovanotti

«I sogni no, non sono così importanti per la mia scrittura, almeno consapevolmente. A volte però mi sveglio la notte e appunto un verso che mi appare nel sonno, o che qualcuno pronuncia in sogno. Ho sempre il quaderno con me, mi sveglio e lo scrivo. Ricordo un “Grazie di questo piangere senza il quale sarei una cosa secca, immota” detto da me a mio padre che veniva a visitarmi dalla morte…sono parole che non mi sembrano mie…»

Mi dai una tua personale definizione di “profezia”? «Penso sia una doppia definizione: da un lato appunto profezia è tenere ben vivo ciò che ci trascende, come ho appena detto, rendere intuibile l’invisibile. Dall’altro, soprattutto in poesia, è profetica la voce che pur avendo parlato secoli e secoli fa, ancora sa centrare il nostro sentire, ancora lo illumina. E dunque toccare con le parole una profondità che il tempo non ha modificato. Se qualcuno leggendo i nostri versi fra mille anni – ammesso che la specie ce la faccia – proverà quello che noi oggi proviamo, sarà perché quelle parole avranno attraversato il tempo senza logorarsi, senza spegnersi, e questa luce mi sembra profezia».

Hai la sensazione, quando scrivi, di essere agita da una forza misteriosa dentro o fuori di te? «C’è l’impressione ad un certo punto di essere gravida, di dover vuotare il sacco, di dare la stura a qualcosa che in me si è ammucchiato e chiede un’uscita anche urgente, violenta. Però poi, nel momento della precipitazione poetica, l’impressione più viva è che le parole arrivino da fuori. In quel momento tutto sembra estremamente semplice, quasi ovvio, quasi fisiologico, non c’è niente di misterioso, anche perché il corpo partecipa pienamente a ciò che sta accadendo. Il mistero emerge alla mente solo dopo, quando rileggendo quelle parole a volte mi sembrano tanto più savie e complesse di come io mi senta in realtà. In sostanza mi sembra davvero, come afferma Rimbaud, che “io sia un altro”, che chi ha scritto non sia l’io che conosco».

A che cosa esattamente è “inadeguata” la parola? «Al di fuori della poesia o della filosofia, al di fuori della trasmissione di saperi, mi pare che la parola sia quasi sempre inadeguata, deludente. O almeno al di fuori del verso le mie parole quasi sempre mi deludono. Purtroppo non sappiamo ancora parlarci in versi…potrebbe essere una delle alte mete a cui siamo chiamati, chissà».

 

 

 

 

 

 

 

 

FacebooktwittermailFacebooktwittermail
No Comments

Post a Comment