Ma tu chi sei (Il Foglio, 24/2/23)
Se un brutto giorno una madre diventa «una bambina di novantadue anni» con la testa piena di nebbia, che stenta a riconoscere persino suo figlio, fino ad arrivare a chiedergli confusa e disorientata: “Ma tu chi sei?”, quel figlio che fa, visto che è uno scrittore? Scrive un libro, proprio con quel titolo, Ma tu chi sei (Guanda, 170 pagine, 18 euro), un libro che abbaglia e commuove. Non che basti parlare dell’Alzeheimer d’un genitore per commuovere. Lo fanno in tanti, soprattutto in tante forse, e soprattutto nei nostri tempi di vecchiaie prolungate, lo fanno quelle figlie e quei figli – già in là negli anni – costretti ad assistere attoniti allo svanire di menti che erano state garanzia di sopravvivenza, fonte di protezione, sorgente di inalienabile affetto. No, non basta scrivere dell’Alzheimer per commuovere. Anzi, come capita a me, magari un lettore cerca di difendersene, tanto invasiva è già la realtà sul tema. E allora come mai sono stata attratta e poi avvinta da questo libro, semplice e vero, tenero e diretto, inesorabile? Per il suo tono arreso, penso, e per la sua musica. Una musica lenta, ripetitiva, minimale.
C’è questo figlio che attraversa l’Italia per non far mancare la sua compagnia, per quanto inevitabilmente sporadica, alla madre ospite di una Residenza per Anziani. Ci sono i suoi tentativi di stabilire una conversazione. Ma la conversazione slitta inevitabilmente su domande assurde (da parte di lei), dimentica di persone e fatti, dimentica persino di averle appena poste quelle identiche domande a un figlio che non sa se rispondere o cambiare (vanamente) discorso.
La musica delle parole ogni tanto s’impenna. Bruno Arpaia, che non nasconde di parlare di fatti terribilmente personali, cerca qualcosa al di là di ciò che sta vivendo. Cerca rassicurazione. Per sé stesso, per il suo futuro, che avverte minaccioso, per la sua di vecchiaia, che sente sempre più vicina. Non potendone più di riflettersi nell’immagine che l’amato viso della madre, ormai quasi deforme, gli rimanda di lui mentre si pone ossessivo la domanda: sarà così anche per me, capiterà lo stesso a me?, cerca rifugio nella scienza. Indaga cosa dice la medicina, cosa dice la fisica di quella terribile malattia, che possiamo chiamare tecnicamente Alzheimer, ma anche soltanto vecchiaia, appunto.
E così l’avventura del lettore di questo libro si anima e s’impenna lei pure. Non so che effetto possa fare a un lettore giovane, ma a chi non lo è più, offre una strana, inquietante esperienza di condivisione. Perché Arpaia si fa proprio le stesse domande e arriva alle stesse conclusioni di tanti suoi coetanei (lui è del 1957, mi verrebbe voglia di dirgli con un pizzico di sadismo: aspetta di compiere i fatidici settanta… ma sarò buona e non glielo dico, me lo tengo per me in questa parentesi). Sì, stabilisce una consolante fratellanza. Beh, se pure lui ha pensato questo, ha paura di quest’altro, se pure lui si scorda date e persone, inciampa in falsi ricordi ed è giunto alla conclusione: «Ci si può soltanto arrendere», non siamo soli. Anzi siamo tanti. E, allora, abbasso la tristezza, la musica s’impenna ancora di più che quasi scatta la voglia di mettersi a ballare.
Un giorno, racconta Arpaia, Albert Einstein e il grande matematico Kurt Gödel passeggiavano a Princeton, dove lavoravano entrambi all’Insitute for Advanced Study ed erano diventati amici. E Einstein chiede a Gödel: «Dove va il tempo che passa?» Bellissima domanda, peccato che non siamo ancora riusciti a trovare una risposta. E peccato anche scoprire quello che ho scoperto andando a rovistare in Internet per saperne di più del per me sconosciuto Kurt Gödel. Lui, grande mente della logica moderna, che legò il nome a fondamentali studi sull’ “incompiutezza”, era preda di deliri paranoici e di anoressia fino a morire di malnutrizione e inedia nel 1978 con ventinove chili di peso e settantadue anni di età. Questo però Arpaia non lo racconta nel suo libro. Giustamente. Sarebbe andato fuori tema. Anche perché, mentre pensava alla domanda che Einstein aveva fatto a Gödel, gli è venuto in mente il tempo infinito delle sue visite alla madre fuori di testa e al proprio irresistibile desiderio che i minuti si mettessero a correre e chi se ne frega dove sarebbero andati a finire: «… non vanno da nessuna parte: rimangono lì a pesarmi come macigni, finché lei non viene chiamata a pranzo o a cena, io posso andarmene, e il tempo riprende il suo ritmo quasi normale».
Insomma «nulla è assoluto, tutto è relativo» per restare ad Einstein. E anche a Gödel. Perché, diciamolo, meglio il destino di invecchiare in santa pace (possibilmente in buona salute), che sprofondare nel delirio e nella paura. Paura di essere avvelenato, nel suo caso. Ma, in definitiva, paura di morire. E siccome è inevitabile, meglio arrivare alla conclusione di Arpaia: sì, meglio arrendersi (e, aggiungo io, magari nel frattempo godersela).