Quando anche il figlio è uno scrittore (IlFoglio, 1 marzo’24)
“Ho quindici anni e sono un disadattato”, così esordisce il protagonista del nuovo romanzo di Lidia Ravera, Un giorno tutto questo sarà tuo (Bompiani). E il nome non lo smentisce: infatti si chiama Seymour, come Seymour Glass, il celebre personaggio di Salinger che ha tratti schizoidi e finisce suicida nell’indimenticabile racconto Un giorno ideale per i pescibanana. Lo smentisce invece la sua storia, perché non è poi disadattato come sostiene, ma giudica tutto (leggi: gli adulti e in particolare la vita del padre, Giovanni, scrittore di successo) con inquietante lucidità e sferzante ironia, e poi, soprattutto, non finirà suicida. Almeno non nello spazio di questa storia. Probabilmente nemmeno in futuro – se c’è un futuro per i personaggi d’invenzione – perché il contesto lascia ben sperare. Il severissimo Seymour non è astioso e, in definitiva, questo padre con tre ex mogli che si accinge a impalmarne una quarta, non gli è veramente antipatico.
E non lo è al lettore. È questa la forza di Ravera. I suoi personaggi, passati al setaccio di un micidiale sarcasmo, triturati e ricostruiti, sono soltanto umanissimi. Hanno cioè mille difetti, ma anche qualche pregio che li rende perdonabili. Hanno rapporti ispidi fra loro e con gli altri, arrivano a detestarsi, ma si salvano sempre in corner. A volte anche solo grazie a una battuta. E il re delle battute (ma ha preso dal padre) è proprio lui, Seymour, che vuole fare lo scrittore. Uno scrittore, però, tutto diverso da Giovanni Sartoris. Quanto il padre è mondano e seduttore, lui invece si chiude a riccio e dalla sua tana si limita a osservare, e a riflettere. La sua ambizione non è il successo, è niente di meno che…scrivere un capolavoro. Del resto, se non la sogna lui, appena fuori dall’adolescenza, una cosa del genere, chi ha diritto di farlo? Purtroppo, però, nel sogno irrompe la realtà, una brutta realtà. Quel padre, comodo fantoccio per scaricare scontentezza di sé, incapacità ad affrontare il mondo esterno, crucci, rabbia e persino il minimo malumore, viene travolto da un’accusa infamante, la stessa che riempie le cronache dei nostri giorni me-too: si sarebbe approfittato di tal Tatiana, abile a sputtanarlo in rete e pronta a correre alla polizia. E allora, mentre il clan Sartoris (ex mogli e figlie varie) si compatta intorno a Giovanni, Seymour, che lui pure scatta in difesa senza un attimo di dubbio, ha la rivelazione: “Vorrei che piombasse in questa stanza, che mi pigliasse per un orecchio e mi trascinasse al cospetto di un tribunale militare, vorrei che mi accusasse di alto tradimento e poi mi perdonasse e mi portasse al bordello come facevano i padri di una volta (non il suo, perché era comunista), per festeggiare fra le puttane il mio ingresso nel club maschile. Quel club dove io non voglio entrare”. Non voleva altro che un papà tradizionalmente rassicurante, allora? Eppure non si riconosce nel credo paterno: “Noi uomini siamo così. Corvi”. Ovvero: sessisti e rapaci.
Ma a questo punto il racconto ha una virata importante, perché va in modo inatteso oltre le premesse già di per sé sostanziose (un difficile rapporto padre-figlio) per entrare nella zona d’ombra della sofferta identità maschile contemporanea, e affonda il bisturi della scrittura – una scrittura tenuta comunque sempre sul filo d’una leggerezza caustica tutta raveriana – nel non ancora sondato passaggio dalla virilità come è stata concepita fino all’altro ieri a come sta faticosamente cercando di trasformarsi in linea con la nuova consapevolezza femminile. Seymour, insomma, è al suo banco di prova fra fedeltà a un modello paterno che sente oscuramente inadeguato e un proprio sbocciare nell’età adulta in modo inedito e promettente. Se ci riuscirà, diventerà anche, è certo, il grande scrittore che sogna di essere.