Visita al Maxxi (da Giudizio Universale, 6 giugno 2010)
Avevo visto il Maxxi il giorno dell’inaugurazione nel novembre dello scorso anno, quando era ancora vuoto. Si poteva ammirarne la movimentata architettura, l’intreccio vertiginoso delle scale, le grandi vetrate sul quartiere militaresco accanto a piazza Mancini, tutto caserme e fabbriche, palazzoni squadrati con una loro severa eleganza. Il Maxxi, Museo nazionale delle Arti del XXI secolo (come si chiamerà nel 2100…?), gigantesco corpo altrettanto squadrato, ma appoggiato sghembo, inclinato come non riuscisse a trovare la posizione giusta, domina improvviso gli angoli delle strade che vi s’incrociano (una è via Guido Reni, le altre non so). E’ bello col suo grigio che prende riflessi rosati riflettendo l’ocra dei palazzi intorno, mentre le vetrate diventano intensamente azzurre col cielo sereno o rimpallano le facciate che hanno di fronte. Magnifico.Ariosi, danzanti gli spazi interni, labirintici, di grande respiro, un respiro che proietta subito il museo in una dimensione internazionale, indiscutibilmente contemporanea. Ma era vuoto in novembre, quando infuriavano perplessità e polemiche: non sarà mai adatto a mostre di quadri, le opere non pensate per grandi spazi soccomberanno, è un monumento all’architettura che uccide gli artisti… Macché, quante sciocchezze. Eccolo oggi, seconda inaugurazione: pieno. Di grandi istallazioni come di miniature, quadri, quadrucci, quadretti. Magnifico, magnifico. Così vivo e materno, sinuoso e orgoglioso. Ogni opera, gigante o piccolissima, trova il suo spazio ideale, si sistema e risplende.
Non si poteva davvero immaginare tanta duttilità, tanto pronto piegarsi del Maxxi anche al minimo della dimensione intima grazie a pannelli e pareti che compaiono secondo necessità, che creano corridoi, sale e salette di ampiezza diversa e che mai ricordano il noioso rincorrersi delle sale tradizionali dei musei, ma ti afferrano come un tappeto volante per trascinarti in alto e poi farti atterrare con calma, con grazia, sempre con un senso di protettivo abbraccio. Quanta energia, quanta femminilità. Gloria al super architetto Zaha Hadid che l’ha concepito così simile al più moderno dei sogni.
Ma dunque andiamo con ordine, anche se al Maxxi è necessario procedere con disordine: voglio dire, abbandonando la preoccupazione di vedere tutto e lasciandosi invece guidare dall’emozione, dalla seduzione di un suono, di un nome, di un percorso che sembra aprirsi, come nella foresta, man mano che si avanza. Dunque il suono di una risata accompagna e scorta, rimbalza in basso quando sei in alto, dietro le spalle, a destra, a sinistra? Saprò più tardi che è uno degli scherzi di Gino De Dominicis del quale ne sono stati allestiti – onore al curatore Achille Bonito Oliva – anche altri (la Mozzarella in carrozza appena si entra: letteralmente una vecchia nera carrozza con dentro, adagiata sul sedile una mozzarella di gesso o di chissà quale altro materiale). Sono imprecisa, non sono un critico d’arte, sono una visitatrice qualsiasi, che si sta divertendo un sacco. Come tutti sono stata accolta nel giardino dallo scheletro gigantesco col naso-becco carnevalesco, sdraiato senza sofferenza, anche se una delle solite aste del suo creatore, De Dominicis, gli infilzava un dito. Mi sono poi ritrovata dentro un’opera riflettente dello stesso artista che ne specchiava un’altra e così stavamo tutti uno dentro l’altro: io che fotografavo me stessa, l’opera trasparente e l’opera riflettente, e pure qualche altro visitatore. Ma belli, bellissimi i quadri di De Dominicis, certe maternità sfuggenti, certi ritratti indecifrabili, certi richiami all’arte antica e antichissima, lamine d’oro a evocare divinità sumere… Non ho tempo di cercare significati, non hanno alcuna importanza adesso. Me li spiegheranno i critici, servono a questo. Io vado avanti a giocare col Maxxi, nel Maxxi. Qualcuno ha detto che l’arte moderna produce giocattoli? Ultimamente è vero, è proprio così. Per questo comunica allegria e fiducia in un futuro possibile? Comunica respiro a pieni polmoni, aria, luce, bellezza. Almeno questa volta, almeno questa mostra in questi spazi. Persino quando mi trovo di fronte alla parete di valigie di Fabio Mauri, Muro del pianto occidentale, e l’emozione – vi giuro – è enorme come la grandezza dell’opera, persino allora i tragici riferimenti alle partenze, agli olocausti, a separazione e perdita, vengono assorbiti nella macina della giostra, la grande giostra che è la vita e che il Maxxi celebra tutto sommato serenamente.
Ho visto tante altre cose. Impossibile segnalarle tutte. Ho ammirato le enormi tube (ovariche?) in pvc nero di Anish Kapoor. Sono quasi inciampata sul sacco blu di Maurizio Cattelan pieno di macerie. Mi è piaciuto l’igloo di vetri taglienti di Mario Merz e la Tenda di lampadine accese del sempre efficace Pistoletto e i disegni a carboncino su carta di Gilbert & George e le gambone di lui e di lei, coi loro piedoni e i vestiti d’antan che finiscono dentro al soffitto, di Ilya ed Emilia Kabakov e il paravento (Avaton) di legno combusto di Nunzio, e la geniale stanza dall’odore vegetale, resine, cuoio, legni e venature sul pavimento che si fa instabile come crosta terrestre di Giuseppe Penone…Stop.
Una volta tanto esco da un museo senza portarmi dietro un mood cimiteriale. Mi sento leggera con la sensazione di essermi scatenata nella stanza dei giochi, mi sento elettrica e fiduciosa. Contagiata dall’effervescenza degli artisti, dalla loro ironia e progettualità. Non so, forse è effetto del Maxxi che, come ha detto la Hadid, ha un carattere «poroso, un luogo in cui tuffarsi, un’estensione spaziale». Esattamente: mi sono tuffata e sto ancora nuotando. Nello Spazio. Quello cosmico beninteso.