Divagazioni su “La ciociara” di Alberto Moravia in ALBERTO MORAVIA E LA CIOCIARA. Atti di un Convegno Internazionale a Fondi, 9 maggio 2014
Alcuni romanzi contengono pagine di una forza così intensa e inaspettata che quando il lettore ci arriva, dopo deve fermarsi. Non può continuare a leggere, ma sente il bisogno di chiudere il libro, magari tenendo il segno con l’indice incastrato fra le pagine, respirare profondamente, ricacciare indietro le lacrime. Sono momenti di commozione potente che i grandi scrittori dosano con parsimonia e che sanno travolgere chi legge con l’autenticità della vita. La ciociara contiene più di un momento del genere. E’ un romanzo lungo e lento. Di interi capitoli si è detto che sono prolissi e ripetitivi. Moravia ha replicato alle critiche sostenendo che quelle pagine monotone dovevano rendere la lentezza e l’incertezza dei giorni di guerra per gli sfollati, la snervante attesa nella penuria, nello spavento e nella fame della fine della belligeranza, fine sempre imminente e sempre rimandata, sogno di una liberazione alle porte con l’arrivo di alleati che sembravano non arrivare mai. Credo avesse ragione a dire così e che La ciociara, con i suoi picchi e le sue vaste radure, sia un libro molto equilibrato, capace di strutturarsi, come osservò Carlo Salinari, in «un’organicità che nessun’altra opera di Moravia aveva saputo raggiungere»[1].
Salinari lo diceva a proposito della contrapposizione normalità/anormalità nella tematica moraviana, vedendo ne La ciociara «il momento più avanzato nell’ideologia» dell’autore in quanto la dimensione storica forniva finalmente ai due poli il peso di due distinti sistemi di valore: la pace, ovvero la civiltà, e la guerra, ossia la perdita di ogni senso morale, laddove per Moravia la normalità era sempre stata avvertita – e detestata – come sinonimo di conformismo borghese. A me più semplicemente sembra che, pubblicato nel ‘57, ma iniziato – e poi abbandonato – dieci anni prima, questo sia forse un romanzo più meditato e, malgrado la tematica tragica, più rasserenato di altri. Cosa succedeva in quell’anno nell’esistenza dell’autore e cosa era accaduto di rilevante nel periodo precedente? Fra il 1955 e il 1957 Moravia attraversa, per sua stessa ammissione, «un periodo molto crudele»[2] nel rapporto coniugale con Elsa Morante, che si è innamorata – ricambiata a fasi alterne – di Luchino Visconti. Com’è nel suo carattere, esasperatamente sincero con un fondo di sadismo, Elsa non tiene nascosta la relazione al marito, anzi ne fa il suo confidente mostrandogli apertamente la complessità di sentimenti che passano dall’attrazione al rancore quando Visconti prende le distanze da lei per seguire una nuova infatuazione, quella per Maria Callas. «La delusione la inasprì fino a renderla insopportabile»[3] racconta ancora lo scrittore a Elkann e ammette di aver sofferto moltissimo per tutta la vicenda perché aveva temuto di essere abbandonato e anche, una volta scampato questo pericolo, per l’incattivamento di Elsa che sfogava il suo dolore contro di lui. A quel punto Alberto si era però reso conto che «tutto tra me e lei era finito veramente» se non quella forma perversa di rapporto, che unisce molte coppie, «come di simbiosi esistenziale, nel quale può entrare di tutto, perfino l’infedeltà»[4].
Non sorprende, dunque, se in questo frangente di disorientamento e di delusione Moravia guarda indietro a un periodo della loro vita insieme che ricorda come il più pacificato e affettuoso della relazione, pur essendo anche il più esposto a pericoli, miseria, traumi. Siamo nel ’43. Dopo l’8 settembre Moravia e Morante, sposatisi due anni prima, si vedono costretti, a causa di una concreta minaccia di arresto per Alberto, ad abbandonare Roma a precipizio. Elsa con «un vestito di cretonne a fiori» e lui «in grisaglia a doppiopetto»[5] saltano su un treno per Napoli che si ferma a Fondi non potendo continuare per via dei bombardamenti che hanno distrutto le rotaie, quindi mettono la valigia su un asino e cominciano a salire verso le montagne. «Salimmo salimmo e alla fine arrivammo a una casetta»[6] nella frazione di Sant’Agata. E’ già lo scenario della Ciociara.
Moravia stesso ha dichiarato di averne scritto alcune pagine, una cinquantina, a ridosso degli avvenimenti, prima de La romana che viene pubblicato nel ‘47 e più o meno nel periodo in cui compose «Andare verso il popolo» (1944) uno dei futuri Racconti romani, chiara prefigurazione, in certe scene, del romanzo a venire. Poi queste pagine finiscono in un cassetto perché «non sapevo come continuare» ha spiegato in un’intervista[7]. Non è un’abitudine moraviana abbandonare un testo per riprenderlo anni dopo: altra peculiarità della Ciociara, testo riconciliato, romanzo che lega due diversi periodi della vita dell’autore annodando i fili di una relazione in declino con quelli della stessa relazione nel suo momento migliore.
Può sembrare bizzarro che nei due personaggi di una madre, Cesira, e una figlia, Rosetta, Moravia proietti se stesso e la propria moglie, ma è lui stesso a testimoniarlo. Ed è interessante come l’influenza della Morante, che amava raccontare il popolo, lo convinca ad abbandonare per una volta il suo ambiente di riferimento abituale, la disprezzata borghesia con le sue ipocrisie e le sue grettezze. Addirittura la voce del narratore si confonde nella Ciociara con quella di una donna, Cesira appunto, che parla in prima persona, mentre il punto di vista femminile non è in questi anni una peculiarità del narratore romano.
Romanzo di grande prestigio e popolarità, La ciociara non ha forse bisogno di essere riassunto. Comunque è la storia della bella vedova Cesira che ha un negozio di alimentari in vicolo del Cinque, nel quartiere romano di Trastevere, lasciatole in eredità dal vecchio marito, e di sua figlia, la tredicenne Rosetta, con cui decide di lasciare Roma per la Ciociaria, sua terra d’origine, quando, dopo la caduta del fascismo e l’armistizio dell’Italia con gli Alleati, la città è occupata dai tedeschi e oggetto di ripetuti bombardamenti. Dedita alla borsa nera, disinteressata alla politica e semianalfabeta, Cesira arriverà attraverso le vicissitudini del viaggio, l’esperienza di sfollata, l’amicizia con l’intellettuale antifascista Michele e l’evento drammatico dello stupro su sua figlia da parte di soldati marocchini, se non a una vera e propria coscienza sociale a una più adulta consapevolezza della propria responsabilità personale.
Collocato verso la fine del romanzo, quando è chiaro che i tedeschi hanno perso la guerra e le due donne si sentono ormai in salvo, l’episodio dello stupro, momento culminante della storia e suo snodo imprevisto e decisivo, occupa poche pagine straordinarie, di quelle che rendono un libro indimenticabile. Sono state preparate in sordina dalla lentezza delle vicende precedenti e concorreranno a un radicale cambiamento nell’indole di Rosetta e nei rapporti fra madre e figlia. E’ proprio questo cambiamento, che ad alcuni critici è sembrato psicologicamente sproporzionato, a rimescolare le carte della narrazione e del destino. A me – come ad altri lettori – appare non solo plausibile, ma efficacissimo, e giustificato da un certo estremismo del carattere della ragazza, evidente anche in altri momenti della narrazione. Il trauma che da fanciulla timida, angelica addirittura, trasforma Rosetta in una giovane donna sfrontata e spregiudicata che si butta via in una sorta di precoce autodistruzione, le fornisce anche il modo – estremistico come tutto in lei – di ribellarsi a una madre di cui spesso si vergogna e che non aveva avuto fin lì il coraggio di criticare. Da questo punto di vista La ciociara può essere letto come la storia di un complicato conflitto col materno, racconto di formazione di una difficile identità femminile. Forse mi sbaglio, ma a me sembra di leggervi in controluce, ancora una volta, una forte influenza morantiana, nel senso che sua moglie doveva essere diventata per lo scrittore, in quei primi anni di vita coniugale, un enigma molto interessante da risolvere e interpretare. Moravia era insieme stregato e respinto dalla violenza di Elsa, dalla sua profonda spiritualità e dal suo temperamento ingiusto e crudele. A Elkann dice: «Non ero innamorato, ma affascinato da qualcosa di estremo, di straziante e di passionale che c’era nel suo carattere… cercava di annullarmi e al tempo stesso, per troppa passione, annullava se stessa»[8]. La vita famigliare di Elsa bambina e ragazza a Roma, prima nel popolare quartiere Testaccio, poi a Monteverde, era stata punteggiata da sanguinosi litigi con la madre, che aveva instaurato una casalinghitudine promiscua imponendo ai figli – ignari della verità – la presenza di un padre legittimo, impotente a procreare, e di un padre biologico che passava per “zio”. Elsa, presto informata della situazione e insofferente, andò il prima possibile a stare per conto suo, ma nella grande povertà di quegli anni aveva dovuto vivere di espedienti. Era da questa situazione precaria che Alberto l’aveva salvata sposandola e alimentando, soprattutto durante l’esperienza di sfollati, quella parte di sé paterna e protettiva che nella Ciociara attribuisce a Cesira. E nella ribellione di Rosetta al moralismo materno, in seguito a un trauma che forse anche Elsa sia pure in un modo meno violento poteva avere subito, c’è tutto il rancore che la scrittrice maturò contro sua madre con la quale era passata dall’adorazione infantile a un’ostilità che durò la vita intera.
E’ proprio Moravia a descrivere precisamente, sia nel libro intervista, sia in una pregnante introduzione al romanzo dal titolo Vita nella stalla, i particolari della sua esperienza di sfollato con Elsa, che puntualmente tornano nel racconto: le relazioni con le persone che li ospitarono, la vita quotidiana complicatissima, il degrado della capanna in cui passavano nell’inedia giornate intere di pioggia, il poco che mangiavano, il fango su cui s’impantanavano i piedi, l’unica seggiolina che Elsa occupava e il letto duro in cui restava Alberto a scribacchiare appunti su un suo quaderno, poi andato perso. E incessante la colonna sonora di un telaio dove lavorava fino a sera, in un insopportabile frastuono di legni, la padrona della puzzolentissima stalla.
E’ dunque una forte motivazione autobiografica insieme al desiderio di raccontare la Storia subita in prima persona, non come eroi, ma come vittime qualunque, insieme a una galleria di personaggi tragici e miserabili, generosi o egoisti, e alla vivezza di particolari del migliore realismo, a fare della Ciociara un grandissimo romanzo, che fu subito amato dal pubblico collocandosi fra i più duraturi successi moraviani. La scena del bombardamento del treno su cui sono salite Cesira e Rosetta in fuga da Roma, le discussioni con Michele, il “filosofo” comunista innamorato della popolana fuggiasca (altro alter ego dell’autore), gli espedienti fuorilegge in un mondo ormai sovvertito che la ciociara escogita per la sopravvivenza sua e della figlia, sono i tasselli con cui l’autore compone nella sua lingua scabra e pulita, vivacemente popolaresca, questa sorta di epopea di tragici eventi visti dal basso. Tasselli, spesso emotivamente sensibili, di una senz’altro abile costruzione romanzesca dove il mestiere, e un formidabile mestiere, gioca la sua parte, ma non freddi, non cerebrali o ideologici. E questo proprio perché c’è – dietro il romanzo, colmo di pietas, mai scabroso e sapientemente costruito verso un climax sconvolgente – una forte motivazione personale, persino misteriosa. Senz’altro misteriosa prima di tutto per lo stesso autore.
La ciociara è dunque anche il libro di una fine, fine di un amore (quello di Elsa e Alberto) e fine dell’innocenza (di Rosetta e di un gruppo sociale). Anche se il tema della fine dell’innocenza, decisamente moraviano, ha – come nota Massimo Onofri in un suo saggio su Il conformista[9] – implicazioni ben più ampie e, proprio nella Ciociara, trova una sua rotonda conclusione, confermata dalle parole dello scrittore: «Con La ciociara, senza rendermene conto, diedi un addio definitivo al mito nazional-popolare che mi aveva fatto scrivere La romana e I racconti romani»[10]. Perché, e qui è Onofri a parlare: «Sul versante romanesco e ciociaro, infatti, l’innocenza sembrerebbe, almeno in linea di diritto, possibile, ed appannaggio d’una classe tutta intera, tanto più se quella classe riesce a restare prossima a uno stato di natura […] Quando l’innocenza si perde questo avviene solo per responsabilità storiche di un’altra classe sociale, l’odiata borghesia»[11]. Rosetta, però, perde innocenza e pudore a causa della guerra e della brutalità degli uomini, la responsabilità non ricade più su un’unica classe sociale, o non solo. E torniamo così a quanto cercavo di spiegare all’inizio, al composto equilibrio non ideologico di questo formidabile romanzo.
Si è tanto monumentalmente imposta nell’immaginario collettivo la fisionomia di una Ciociara che ha il viso e il corpo di Sofia Loren, che non è possibile parlare del libro senza fare almeno un rapido riferimento al film di Vittorio De Sica tratto dal romanzo nel 1960, che valse alla protagonista molti riconoscimenti italiani e internazionali, fra cui l’Oscar come migliore attrice protagonista. Alberto Moravia ha sempre avuto col cinema un rapporto intenso, sia come spettatore e critico cinematografico sia come autore di opere che numerosissime, una quarantina, sono state portate sullo schermo. Aveva nei confronti dei registi e degli sceneggiatori al lavoro sui suoi libri un atteggiamento non possessivo e di massimo rispetto. Qualsiasi fosse il risultato considerava che la resa filmica di un romanzo andasse giudicata non in relazione alla fonte originale, ma come opera a se stante. «Uno scrittore» diceva «non può chiedere a un regista che sia fedele al suo libro: può soltanto chiedergli che faccia un bel film»[12]. Ma anche quando venivano fuori film mediocri, non se ne sentiva offeso, restava indifferente e non imbastiva polemiche. Con il film di De Sica, che si collocò subito fra i capolavori del regista, non corse questo rischio. Sceneggiato da Cesare Zavattini, segue abbastanza fedelmente la trama originale, concedendosi però alcune correzioni. Nella scena dello stupro, per esempio, Cesira nel film subisce la stessa esperienza di Rosetta, essendo lei pure violentata come la figlia. Nel romanzo l’episodio è ancora più drammatico. Cesira si ribella al violentatore che la punisce sbattendole la testa sul pavimento e facendola svenire per il dolore. Questo la salva dalla violenza carnale, ma non dal rimorso perché «quell’uomo terribile» l’abbandona inerme per andare però a unirsi agli altri suoi vili compagni e sfogarsi «come tutti gli altri su di lei. Purtroppo però Rosetta non era svenuta, e tutto quello che era successo lei l’aveva veduto con i suoi occhi e sentito con i suoi sensi»[13]. Ancora più eclatante un cambiamento nel finale dove la ragazza torna in sé per lo shock della morte di Michele, quando apprende che è stato ucciso dai tedeschi in fuga. Non così nel libro, dove il percorso di Rosetta verso un’accettazione della maturità e di una riconciliazione con la madre e con se stessa è assai più accidentato e, a mio parere, più bello. La ragazza, presa com’è dalla sua nuova vita di bagordi e dissipazione, resta fredda – almeno in apparenza – alla notizia di Michele e sposterà lo shock su una figura maschile secondaria e ignobile rispetto a quella venerata di Michele (dal quale ora si sente moralmente lontana e indegna). Michele assurge nell’immaginario delle due donne, in modo diverso, a una santità salvifica. Cesira in una sorta di allucinazione, credendo di vederselo davanti mentre medita di uccidersi, rinuncia al suicidio. Non riuscirà però a decifrarne le parole, anche lei indegna di accoglierle. E’ forse il momento più morantiano del libro, intenso e oscuramente significativo, e nel film non ce n’è traccia, ma certo perché nell’equilibrio realistico della pellicola sarebbe stato difficile giustificarlo.
Non così nelle tanto discusse pagine finali del romanzo, da alcuni giudicate superflue e giustapposte, quasi un affrettato lieto fine. Con un’impennata lirica e con l’alleggerimento di una canzone finalmente intonata dall’afasica Rosetta, mentre all’orizzonte si profila il disegno di Roma, Moravia regala al lettore non la banalità di un finale scioccamente lieto, ma la lezione superba della vita che trionfa sugli sciagurati lutti della guerra, ormai davvero definitivamente alle spalle.
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NOTE
[1] Carlo Salinari, «I romanzi di Moravia» in Preludio e fine del realismo in Italia, Morano, Napoli 1967, pp. 300-303
[2] Alberto Moravia-Alain Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, Milano 1990, p. 184
[3] Ivi, p.184
[4] Ivi, pp.183-184
[5] Ivi, pp.140-141
[6] Ivi, p.141
[7] Giuliano Manacorda, Clandestino in Ciociaria in «Il Contemporaneo», n.1, 18 maggio 1957, p. 6
[8] Alberto Moravia-Alain Elkann, cit., p. 113
[9] Massimo Onofri, «Guai a chi è diverso: Il conformista di Moravia» in Tre scrittori borghesi, Gaffi, Roma 2007.
[10] Alberto Moravia-Alain Elkann, cit., p.193
[11] Massimo Onofri, cit., p.77
[12] Alberto Moravia, Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, a cura di Alberto Pezzotta e Anna Gilardelli, Bompiani, Milano 2010, p.1546
[13] Alberto Moravia, La ciociara, Bompiani 1957. La citazione è tratta all’edizione tascabile del 2011, p.266