Lettera a Marguerite Duras (in AA.VV. Letteratitudine, vol. 3)
CARA DURAS, comincio da una delle tue frasi più misteriose, per scriverti questa lettera. La trovo in Écrire, un tuo libro del 1993. Dice così: «Scrivere è tentare di sapere cosa si scriverebbe se si scrivesse». Mi ha dato da pensare a lungo. Dunque, secondo te, non sappiamo niente prima. E infatti continui: «Lo sappiamo solo dopo. Prima, è la domanda più pericolosa che ci possiamo rivolgere». Non solo non sappiamo niente prima, ma è anche meglio così, perché interrogarci, organizzare scalette, immaginare un finale possibile di una nostra storia è, secondo te, addirittura «pericoloso».
Dobbiamo procedere alla cieca. Come posso non darti ragione? Penso con te che sia l’unico modo serio di procedere. Chi sa tutto di. ciò che scriverà sa troppo, e non può che scrivere in modo prevedibile, perché se sa già cosa vuole e dove sta andando, non scopre nulla strada facendo, conferma un’aspettativa, sua e altrui, dice il già detto, fa – nel migliore dei casi – buon intrattenimento. Tu, Duras, non ami le trame, nei libri come nella vita. Tu sai precisamente quanto scrivere equivalga a entrare in una specie di trance, ti lasci guidare dall’inconscio, da quel luogo di verità profonde e attingibili solo tramite i sogni, o tramite l’arte. Sei un’estremista tu, Duras, non conosci mezze misure. Questo mi è sempre piaciuto di te, il tuo essere outsider, contro tutto e tutti. Sola e coraggiosa. Concentrata nella scrittura come in uno dei tuoi tanti amori, con l’intera te stessa, senza mediazioni.
Quanto mi piace un’altra frase che dici in quello stesso testo: «Non so che cos’è un libro. Nessuno lo sa, ma si sa quando ce n’è uno». La tua sicurezza, Duras, è abbagliante. lo ho dubbi continui, su tutto, su tutti. Credo anch’io, sì, di riconoscere la letteratura a prima vista, ma poi mi scontro con il parere di altri, che amano cose che io odio e odiano quel che io amo, e mi confondo. Non che sia meno sicura di me e del mio gusto (non mi piace quasi niente, del resto), ma non oserei difenderlo a spada tratta. Non più. Perché purtroppo i tempi in cui uno scrittore si trova a vivere, oggi, non ti sostengono da nessuna parte, ti lasciano completamente solo senza soccorso, preda di fraudolenti valori commerciali, di false coscienze, di enormi confusioni. Entrando in libreria, l’altro giorno, ho scoperto che un famoso regista italiano – che non amo nemmeno un po’, ma tanti lo amano – scrive «libri tratti dai suoi film». A questo siamo. Non bastavano le classifiche, il potere di giornalisti che non sanno che cosa lontanamente sia un libro, un vero libro – né potrebbero saperlo viste le loro parole, i loro atteggiamenti, i loro pensieri -, non bastava l’arroganza di gente che non sa leggere però scrive e si autodefinisce scrittore, ci mancava il regista che chiama libro le sue storie inventate per un cinema senza valore. E non si vergogna di sé. Tu sei stata regista come sei stata scrittrice. Il tuo cinema è stato letteratura, come i tuoi libri potevano essere cinema, il tuo cinema, però. Niente altro, niente di simile ad altri libri, altri film.
Sono contenta, Duras, che tu sia vissuta alla fine di tempi in cui era ancora possibile essere eccentrici. Oggi gli eccentrici, quelli veri, non ci sono più. Si scambiano per tali ridicoli personaggi che posano a cattivi: violenti e aggressivi con gli altri, non per difendere la propria coerenza di vita e di pensiero, ma tanto per farlo, perché questo – forse – ci si aspetta da loro, perché così si ritagliano un posticino nel misero teatro della contemporaneità. I veri eccentrici, invece, non ci sono più per una ragione molto semplice: sono diventati invisibili. Nessuno li riconosce, nessuno li vuole. Sono troppo temibili per questa società conservatrice e triste, questa società in cui gli scrittori fanno banda per casa editrice, per festival, per testata giornalistica e guai a esserne fuori, a prendere decisioni bizzarre sul proprio destino, magari autolesioniste, guai a stare per conto proprio, defilati e tranquilli. L’eccentricità è solitaria, è discreta persino. Tu non eri discreta, per carattere; ma eri una grande solitaria. «La solitudine non si trova, si fa.» «La solitudine è una cosa senza la quale non si fa niente. Senza la quale non si guarda più niente», e nei libri ci deve essere «la solitudine del mondo intero». Così la pensi tu, così ho ritrovato in te quel che ho sempre sentito io, fin da piccola. «Rende selvatici la scrittura» dici. Mi viene da ridere pensando alla grande socievolezza di oggi fra gli scrittori. Tutti sono amici di tutti, si tengono la mano, si scambiano promesse: sono creature allo sbando sottomesse al potere, ma nemmeno più quello con la “P” maiuscola, bensì il piccolo devastante potere del loro editor, quello del giurato che gli farà vincere un premio, quello dello scrittore più famoso e compromesso, che magari hanno odiato fino al giorno prima, prima che se li comprasse con l’invito a partecipare a una qualche ribalta. Mi è chiarissimo ciò che intendi quando parli di libri «deliziosi e basta, senza oscurità, senza silenzio, in altre parole senza un vero autore.»
Sapessi, Duras, quanti autori di libri deliziosi si trovano in giro oggi. Si sono moltiplicati, e la maggior parte delle volte sembrano intercambiabili. Sì, insomma, l’uno vale l’altro dentro il suo raggio d’azione e d’esistenza, o forse dovrei dire range per essere più comprensibile al marketing, perché nelle grandi case editrici – e purtroppo piano piano ovunque – si è dentro una quota: la quota commerciale, la quota scrittore serio (molto poco frequentata), la quota thriller, la quota rosa, e così elencando. Gli scrittori non hanno di per sé alcun carisma, esistono grazie agli editori, e non viceversa: non sono più loro, insomma, a garantire e plasmare la fisionomia delle case editrici. Hanno ambizioni modeste e quantificabili; vogliono scrivere su «la Repubblica» e sul «Corriere della Sera» non per dare voce a una voce possente e veritiera, una voce contro (e poi tutti a osannare Pasolini, ma con quale faccia?) Scrivono quel che viene loro chiesto di scrivere: un’opinione che non disturbi nessuno, una recensione prevedibile, una presa di posizione tanto al chilo, il chilo del compenso che ricevono in cambio: due lire e un posto in prima fila. Sanno bene che se osassero avere un’idea fuori dal coro (che non fosse – anche questa – prevista e richiesta dal sistema editorial-giornalistico) sarebbero pregati di accomodarsi e avanti un altro. Ce ne sono talmente tanti di scrittori, oggi, sai, ogni giorno nasce un capolavoro, ogni giorno si fa largo una promessa pilotata dai magnati dell’industria culturale. Industria culturale, proprio così. Basta la parola a dire come stanno le cose, no?
Insomma, Duras, mi manchi. E non solo perché i tuoi libri mancano colpevolmente dai cataloghi degli editori italiani. Mi manca la tua diversità, la tua scomodissima verità, la tua folle saggezza, il tuo senso dell’impossibile e del divino. «Bisogna aprire all’ignoto, bisogna che l’ignoto entri e disturbi». Questo l’hai detto in un altro libro stravagante, La vie matérielle (1987), ed è uno dei princìpi a cui cerco di mantenermi fedele, anche se è scomodo e spaventa, anche se ci porta sempre dalla parte opposta a quella dove sarebbe vantaggioso accomodarsi.
Emanuele
Meravigliose parole. Meraviglioso trovare conferma al mio pensiero in queste parole.
Emanuele