Gli addii (L’Immaginazione, n.299, giugno ’17)

Gli addii (L’Immaginazione, n.299, giugno ’17)

Un bel ricordo: durante l’incontro con Reichlin che organizzai qualche anno fa ad Amelia. Ha la giacca, ma anche il golf! (Foto Pasquale Comegna)

C’è una foto in Internet con la didascalia: «I gappisti romani del 1944». Un gruppo di giovani uomini e giovani donne sorridenti che sembrano reduci da una festa di laurea. Infatti la maggior parte dei maschi indossano la giacca, alcuni anche la cravatta. Il primo in alto a sinistra è Alfredo Reichlin, dice la didascalia. Contemplo a lungo questa immagine spiazzante: gappisti romani del ’44, ripeto fra me. Vuol dire che alcuni fra loro saranno morti in azioni partigiane, vuol dire che con quest’aria spensierata erano disposti a sacrificare la vita per liberare la patria. E l’hanno davvero liberata, e imbracciavano il fucile e impugnavano pistole come qui tengono la sigaretta fra le dita. Resistenti in giacca e cravatta, rivoluzionari eleganti.

Gappisti romani nel ’44

Ma perché mi stupisco? Alfredo Reichlin l’eleganza di questa foto l’aveva nel sangue. Era elegante da vecchio come da giovane. In giacca e cravatta non ricordo di averlo mai visto, ma era elegantissimo anche nei suoi larghi maglioni e le scarpe sportive. Era elegante nella sua poltrona quando riportava il discorso sull’argomento preferito, la politica, mentre gli amici intorno si perdevano nei divaganti blabla del dopocena. Però non teneva mai comizi, non faceva lezione. Parlava alla pari, sempre, fossero anche giovanissimi gli interlocutori che si trovava davanti. E anzi, gli premeva ascoltare più che esprimersi, intavolava il discorso per stimolare gli altri e poi, solo in un secondo momento, eventualmente controbbattere, discutere. Questo parlare gentile, curioso, era un’altra delle sue belle caratteristiche e certo, abituati come siamo all’imbarbarimento contemporaneo della politica, che va da comportamenti squalificanti al cattivo uso dell’italiano, lui lascia un’eredità di rimpianto e di nostalgia che rende più vasta e definitiva la sua scomparsa. Mai come in questo caso ho capito la disperante concretezza di un modo di dire: «con lui se ne va un mondo».

Però alla Camera dei Deputati durante la cerimonia funebre per l’ultimo saluto, ho ascoltato bellissime orazioni. Non c’era niente, nemmeno da parte dei politici più giovani, che non fosse all’altezza dell’uomo che è stato Alfredo Reichlin. E anche questo è significativo, colleghi, amici, parenti, figli veri o acquisiti, nipoti, in rappresentanza di diverse generazioni, erano tutti manifestamente sinceri e toccanti. Dicevano cose, fossero sentimenti personali o valutazioni su posizioni ideologiche, che non lasciavano indifferenti. C’era dolore vero e vero rimpianto, niente passerelle o mettersi in mostra. Non circolava nulla, insomma, del tipo parole di circostanza che si sentono in simili, in genere noiosissime manifestazioni. Alfredo, dunque, ha lasciato un insegnamento non solo intellettuale e politico, ma anche privato e umano, qualcosa che passa attraverso il suo esempio, un contagio sottotraccia di verità e onestà profonde che apre alla speranza per un futuro non usurato e degradato e corrotto quale ci appare oggi. Si tratta di saperne raccogliere il testimone.

 

Memè Perlini

Nemmeno un mese dopo la morte di Reichlin, avvenuta il 21 marzo a 92 anni, è scomparso tragicamente, perché depresso e suicida, Memè Perlini, a 70 anni. Due scomparse che non c’entrano niente l’una con l’altra, accomunate soltanto, per me, dalla scia di cordoglio che mi lasciano dentro, avendo conosciuto entrambi, in epoche diversissime della mia vita. Avevo solo ventiquattro anni quando vidi l’affascinante spettacolo di Perlini Locus solus da Raymond Roussel nel ’76. E poi La partenza dell’argonauta, e poi, due anni dopo, il suo capolavoro, Il risveglio di primavera, da Wedekind. Si andava in un suo teatro, a Roma, suo e del suo estroso compagno, Antonello Aglioti. Una specie di grande garage, oltre la Piramide, che si chiamava appunto “la Piramide”. E si assisteva a qualcosa di diverso da uno spettacolo, si chiamava «teatro-immagine» ed effettivamente si avevano grandi suggestioni visive e uditive e magari del testo rimaneva ben poco e di difficile decifrazione. Poi si andava a cena, a delle feste che qualche fan danarosa offriva per tutti. Perlini mi piaceva, a differenza di altri eroi dell’avanguardia romana, sopra le righe o sfessati, eccessivi nell’esibizione della loro omosessualità, quando erano omosessuali. Perlini, no. Era una persona dolce e sofferente, aveva occhi arabi persi in un’intensa malinconia, mascherata da scetticismo. Ora scopro che era figlio di giostrai padani girovaghi, non lo sapevo. Lo ricordo colto e intellettuale, con un muoversi raffinato nello spazio. Non era bello, eppure lo sembrava per quei suoi movimenti danzanti, quelle camicie lunghe e larghe, quei baffi neri. Il suo eroe era Roussel, il dandy ricchissimo, omosessuale che teneva nascosta l’omosessualità, e che morì suicida dopo aver dilapidato le proprie fortune. Anche Aglioti era morto a 70 anni, nel 2013. Non stavano più insieme, con disperazione di Memè, ma che c’entra.

 

 

FacebooktwittermailFacebooktwittermail
No Comments

Post a Comment