PINA BAUSCH e Roma

PINA BAUSCH e Roma

Che Pina Bausch amasse Roma lo sapevamo, che Roma l’amasse così tanto l’abbiamo scoperto recentemente al teatro Argentina in una serata-omaggio con proiezione in anteprima del film documentario a lei dedicato, Pina Bausch a Roma di Graziano Graziani, prodotto dal Premio Riccione e dall’amico di sempre, e produttore di tanti suoi spettacoli, Andres Neumann. Il teatro era colmo fino all’ultimo palchetto in alto, un pubblico prevalentemente giovane – forse soprattutto di donne – che non ha lesinato applausi a scena aperta. Mi ricordo una sera di diversi anni fa, era il 2000, in questo stesso teatro, l’emozione di trovarmela, la carismatica Pina, seduta proprio accanto a me, in una fila laterale della platea, che seguiva attentissima il suo spettacolo O Dido, ondeggiando con la testa al suono della musica e ripetendo fra sé le parole del testo e delle canzoni come approvando il suo stesso lavoro. Era alta e sottile. La carnagione del viso luminosissima, gli occhi chiari ridenti e ironici, mani nodose, enormi. Indossava un completo blu, pantaloni larghi e camicione elegantissimo di una stoffa fluida e leggera che si muoveva con lei. Tutto era grande in lei. L’ho pensato allora e non ho mai smesso di pensarlo. Lo penso di nuovo adesso, dopo aver ascoltato, nel docufilm di Graziani, i tanti racconti dei testimoni della lunga permanenza romana della Bausch per la preparazione proprio di O Dido: da Mario Martone a Leonetta Bentivoglio, che le ha dedicato articoli e libri e l’ha conosciuta “da vicino”, da Matteo Garrone a Vladimir Luxuria a un’intera famiglia rom con cui le piaceva intrattenersi, farsi raccontare abitudini e storie, ballare insieme.

E mi ricordo il cordoglio al festival di Spoleto del 2009, quando nei primi di luglio si aspettava la Bausch per la prima di Bamboo Blues e arrivò, il 30 giugno, la notizia della sua morte per un tumore che si era rifiutata di curare e di cui non aveva detto a nessuno. Non aveva nemmeno smesso di fumare. Avrebbe compiuto 69 anni alla fine di luglio. I ballerini della sua compagnia, il Tanztheater Wuppertal, danzarono colorati e sensuali come sempre e alla fine il palcoscenico si riempì di fiori e di saluti commossi. «Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti, ma ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che cosa fare. A questo punto comincia la danza» diceva. Non le amava, lei, le parole. L’ha ricordato una danzatrice italiana del Wuppertal, Cristiana Morganti, che ha ricreato per il pubblico presente all’Argentina il particolare rapporto che la Bausch stabiliva con i suoi ballerini, come li coinvolgeva nella ricerca di qualcosa di profondo nell’espressione corporea, con il minimo di parole possibili e con la forza di un gesto, di un cenno della testa autorevole. E come scriveva sempre a matita, quasi a non voler lasciare – degli appunti, che prendeva in abbondanza – tracce resistenti al tempo.

«Quasi inintervistabile» l’ha definita Bentivoglio, perché Pina procedeva per emozioni, e infatti le sue coreografie, sinuose e spesso invase dall’acqua, erano un inno a quanto di fluido e di mobile, di incostante e impossibile da fermare c’è nella vita. La sua era una ricerca spirituale attraverso la danza. Diceva: «La realtà è molto più vasta di quanto noi siamo in grado di capire» e cercava costantemente il legame fra l’esperienza personale e un sentire comune che affonda in un’antica, misteriosa intelligenza delle cose, quel tenue bandolo che ci dà «forza e speranza», per procedere nel costante disorientamento della vita.

Federico Fellini, che l’aveva voluta in E la barca va nei panni della principessa cieca Lherimia, ne ha tratteggiato un ricordo indimenticabile: «Con la sua aria aristocratica, tenera e crudele insieme, misteriosa e familiare, Pina Bausch mi sorrideva per farsi intendere. Una religiosa che mangia il gelato, una santa in pattini a rotelle, un incedere da regina in esilio, da fondatrice di un ordine religioso, da giudice d’un tribunale metafisico, che d’improvviso ti fa l’occhietto». Sono parole che colgono quella sfuggente contraddizione che c’era in lei e nelle sue creazioni fra forza e fragilità, pieno e vuoto, seduttività e repulsione, grazia e rigidità militaresca. Una contraddizione che non ha però nulla d’irrisolto, ma che contiene anzi una verità superiore al limite del dicibile.

Luxuria, nell’incontro dell’Argentina, raccontava al pubblico la sua sorpresa nel vedersi capitare Pina Bausch alla Muccassassina, il locale gay di cui era direttore artistico. Con lo stesso stupore, nel documentario di Graziani, un divertito Matteo Garrone evocava di quando la coreaografa gli aveva chiesto di accompagnarla in piena notte a visitare locali porno e si erano trovati in mezzo a fazzolettini sudici e preservativi abbandonati. Nella tranquillità più assoluta Pina aveva ricevuto il saluto pieno di ammirazione di una finta suora inginocchiata ai suoi piedi: era il proprietario del locale abbagliato dall’apparizione dell’artista in quel luogo di perdizione, come dalla presenza di una divinità riparatrice.

Pochissimo, poi, di queste sue perlustrazioni in una Roma sotterranea ed estrema, un po’ kitsch e degradata, periferica e per niente turistica, sarebbe entrato nello spettacolo, in quel O Dido che doveva esserne un ritratto aggiornato. Perché Pina, probabilmente, voleva solo vaccinarsi dall’eccesso di classica bellezza che sempre Roma produce in chi la guarda, voleva scoprirne il fluido nascosto e vivo, ludico e caotico, trasgressivo e disordinato, ribelle e di confine fra la vita e la morte, la notte e il giorno, il rumore e il silenzio. Perché, diceva, «bisogna sempre togliere il vento alle vele».

 

 

 

 

 

 

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