Il viaggio come pellegrinaggio

Il viaggio come pellegrinaggio

(Partecipazione a un convegno di italianistica a Ciudad Real, Spagna, marzo 2009)

 

Nella mia confusa giovinezza c’era qualcosa su cui non avevo dubbi: nella vita volevo due cose, scrivere e viaggiare. E anche lo scrivere si configurava come una specie particolare di viaggio, un viaggio dentro le parole e dentro le cose. In un certo senso non ho scritto che libri di viaggio e la metafora del viaggio ha improntato e impostato la mia stessa vita. Ora bisogna naturalmente capirsi sui termini. Quando diciamo «viaggio» indichiamo concetti diversi. In primo luogo viaggiare è spostarsi nello spazio, passare da un luogo a un altro e, più precisamente, da un luogo familiare, dove stanno la nostra casa e le nostre cose, a un altro luogo meno noto se non proprio sconosciuto. Viaggiare è abbandonare le sicurezze per avventurarsi nell’ignoto. Ma viaggiare è anche un cercarsi. Si abbandonano le abitudini, sia pure in modo temporaneo, per scoprire nel metterci alla prova qualcosa che non sapevamo di noi stessi, per sondare resistenza e inventiva, insospettate capacità di adattamento. Magari viaggiamo in cerca di sorprese, perché lo scenario familiare non è capace di meravigliarci e metterci alla prova.
C’è poi chi viaggia per perdersi. Oppure, ed è questo il caso che mi è congeniale, ci mettiamo in cammino per trovare qualcosa che sappiamo precisamente cosa sia, per raggiungere una meta, un punto nello spazio che decidiamo sarà il nostro punto di arrivo. Questo è il contrario di perdersi. Ci si sposta da un punto A a un punto B e il punto B ci attende perché noi lo vogliamo, perché vogliamo proprio arrivare a B, vogliamo raggiungerlo e comprenderlo, e per raggiungerlo e comprenderlo ci siamo preparati a lungo prima di partire.
Questo tipo di viaggio si chiama più propriamente pellegrinaggio. Il pellegrino è un viaggiatore che sa quello che vuole e nello stesso tempo sa anche che quello che vuole lo cambierà, cosicché alla fine del viaggio, raggiunta la meta, non sarà più quello di prima, non saprà più quel che sapeva, ma qualcos’altro. Un segreto gli sarà rivelato, oppure la sua domanda confluirà semplicemente in un’altra domanda, più grande. Ma non importa. Lui deve fare il viaggio. Una forza lo chiama e lo costringe.
La forza è generalmente religiosa. Ma la mia religione è la letteratura o, per essere meno pomposi, la scrittura. Dunque viaggiare, dunque andare in pellegrinaggio per scrivere.

Nel mio primo libro, Navigazioni di Circe, la protagonista è una donna stanziale, che vive su una spiaggia e teme gli stranieri che arrivano a disturbarla. Compie piccoli spostamenti, necessari alla sua sopravvivenza. Solo alla fine si metterà in viaggio, e sarà per sempre. Per non tornare. Qui non c’è ancora l’idea del pellegrinaggio, ma l’idea di percorso e di quest sono già presenti. Circe pone se stessa come meta dei pellegrinaggi altrui. E’ insieme una picara e una divinità, sebbene una divinità decaduta, postmoderna, ombra della se stessa omerica. Il grande cambiamento di Circe consisterà nel trasformare la sua attività distruttiva di altri destini in quella costruttiva della scrittura. Nel momento in cui trova una nuova identità nei «fogli», presenza concreta, carnale del romanzo, fogli che scrive e perde, scrive e consuma, scrive e disperde, può finalmente affrontare il mondo e prendere il largo su una instabile barca. Rinuncia così alla sua vecchia identità di dea per incarnarsi in una donna mortale capace però di avventure umane.

Dicevo prima che in un certo senso non ho scritto altro che libri di viaggio. E’una forzatura, ma nasconde qualcosa di vero. I libri successivi, Il catalogo dei giocattoli e Vecchi sono viaggi attraverso oggetti e attraverso persone. Pellegrinaggi anche questi? In un certo senso sì. Il catalogo dei giocattoli è un pellegrinaggio nell’infanzia attraverso un oggetto di culto di quell’età, il giocattolo appunto. E il reportage fra vecchiaie estreme, dolorose, rancorose e rivelatrici dell’essere umano diventa pellegrinaggio quando non è una risposta che si va cercando, né la descrizione di una realtà (come nel reportage giornalistico), ma un simulacro. Ancora una volta un oggetto misterioso e a suo  modo magico che contiene una recondita verità.

Ho scritto due libri di viaggio veri e propri, Ultima India e La scrittrice abita qui. Sia l’uno, sia l’altro illustrano la mia idea di viaggio come pellegrinaggio. L’India, sognata, studiata, meditata, è come un immenso tempio cui il pellegrino giunge stremato e bisognoso di illuminazione. «Terra madre dell’assoluto» la definì Giorgio Manganelli nel suo Esperimento con l’India. E per anni, fino alla recentissima trasformazione anche del continente indiano in un business da tour operator, l’India era una meta che si caricava di grandi domande e grandissime risposte. Un viaggio in India era comunque un’impresa psicofisica che richiedeva determinazione, convinzione profonda, coraggio. Ci si confrontava in ogni caso con un sogno, una fantasia di spiritualità, di inaudito, un salto all’indietro nel tempo. E per farlo ci si preparava, emotivamente, prima di tutto.
Due delle scrittrici comprese nella Scrittrice abita qui sono state grandi viaggiatrici in India, e viaggiatrici pellegrine: Marguerite Yourcenar e Alexandra David-Néel. In là con gli anni – Yourcenar addirittura ottantenne – si sono sottoposte a disagi e sacrifici inauditi per compiere i loro pellegrinaggi. Volevano spingersi più in là, vedere mondi sconosciuti, volevano soprattutto trovarsi altrove. In quel libro ho fatto delle loro case (e delle case di Grazia Deledda, Colette, Karen Blixen, Virginia Woolf e sua sorella Vanessa Bell) i miei santuari, le mete sacre dei miei viaggi da pellegrina nei templi della letteratura. Cosa cercavo? Solo materiale per scrivere storie di viaggio?
No, cercavo un senso del destino. Nei loro singoli destini, raccontati attraverso gli oggetti che avevano addobbato le loro vite, attraverso i libri che avevavo posseduto, letto, sottolineato, commentato, attraverso  i mobili e la loro disposizione, arredi e souvenir, cercavo un segreto, quello che cerca qualsiasi pellegrino. Un segreto scoperto è una rivelazione. Cercavo il disegno nel tappeto di cui parla Karen Blixen. I disegni complicati delle loro vite, forse, celavano qualcosa del mio disegno. Ecco perché avevo fatto delle loro case i miei templi e le mie mete e di loro le mie divinità e di me una viaggiatrice pellegrina.
L’ho trovato quel disegno? Chissà. Ogni esperienza spirituale si richiude in se stessa e diventa incomunicabile. Ogni viaggio che non sia turistico, ma ricerca e peregrinazione, è dicibile entro certi limiti. Si può descrivere un deserto e l’emozione che suscita, una landa remota e i suoi abitanti. L’intimo cambiamento che l’esperienza del pellegrinaggio compie in noi resta un punto di buio, una pietra nera che sprofonda negli abissi non illuminabili dell’io.

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1 Comment
  • Elisa
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    Il vero pellegrino, non quello turistico, viaggia solo e, come esprime lei alla fine, fa un’esperienza che è “dicibile entro certi limiti”, ma il balbettio potrebbe raggiungere orecchie capaci di cogliere nei frammenti una visione più ampia, che le ricorda molto un punto buio del proprio io.

    21 Gennaio 2010 at 19:30

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