Mio intervento su “Italianieuropei”
A che punto è la notte della narrativa
in cui tutte le realtà sono nere?
In genere, nei momenti di crisi profonda di un’epoca, gli scrittori, gli artisti, tendono a rifugiarsi altrove, altrove rispetto alla triste realtà che li circonda. La decadenza genera curiose euforie e l’euforia artisticamente genera innovazioni e l’innovazione artistica incide sul sociale generando qualche spinta, mai risolutiva di niente mi pare, ma insomma almeno è un contributo non immobile. Che oggi siamo nel bel mezzo di una crisi epocale, di una lunga decadenza, di una depressa sensazione di non avere un futuro, di non sapere da che parte cominciare per progettarlo, appare incontestabile. Ma succede un fatto bizzarro: invece di inventare nuove correnti letterarie, invece di mettersi a sperimentare, invece di farsi leggeri e volare altrove per respirare liberi e sgombrare la testa alla ricerca di idee mai viste prima, invece di creare nuove patrie e nuove alleanze, gli artisti si sono fatti di piombo. Si confrontano (almeno i più giovani) un po’ alla disperata su blog e giornali che ospitano i loro interventi, denunciano la propria scomoda solitudine, ma non sembrano andare al nocciolo del problema. Il nocciolo del problema è il generale adeguamento alle leggi del mercato, di cui non ci si preoccupa di contestare la morsa distruttiva come obiettivo primario, pur dannandosi a stigmatizzare lo stato indigesto della politica, firmando appelli che nel loro proliferare diventano ridicoli quanto inutili, e buttandosi in vecchie categorie come la denuncia sociale, il realismo, l’impegno.
Persino quando scrivono piccoli, magari deliziosi noir, gli scrittori danno l’impressione di credere che non stanno menando il can per l’aia dell’intrattenimento (per altro non disprezzabile in sé), ma portando l’acqua a chissà quale contributo imperdibile per smascherare la bruta e brutta realtà, sempre sanguinaria, malavitosa, malandrina. Forse il successo di Roberto Saviano ha dato un po’ alla testa a molti e la sensazione, falsissima, che il suo libro abbia avuto un ruolo nell’arresto di qualche mafioso finito ultimamente in galera. I romanzi non devono servire a influire sulla realtà immediatamente evidente. A questo possono tornare utili altre categorie di scrittura, che so, saggi di economia, riflessioni sociologiche, ricostruzioni storiche, ma non i romanzi, non la narrativa. La narrativa, almeno quella che può coltivare la speranza di sopravvivere al suo autore, deve saper influire sulla realtà invisibile, sull’inconscio delle persone. Per questo è difficile, forse impossibile valutarla: perché il suo valore si misura su tempi lunghi, lunghissimi, che vanno ben oltre la vita di una generazione, a volte di un secolo. Il resto è cronaca, romanzata quanto si vuole, ma sempre cronaca, e la cronaca non narra in modo profondo né paesi né identità, tuttalpiù può dare contributi alla statistica.
Non so e non posso sapere, in qualità di lettrice contemporanea, cosa ne sarà di Gomorra fra un secolo, ma mi sembra che, malgrado il successo planetario, quel libro non sia apprezzato per le sue vere qualità: il suo non appartenere a un genere preciso – non è un romanzo, non è un saggio, non è giornalismo -, il suo fingere il realismo cronachistico per ricostruire arbitrariamente fatti reali, il suo impatto emotivo sull’irrazionale del lettore. Leggere questo libro come la denuncia di uno scenario sociale criminale mi sembra riduttivo e depistante rispetto ai rapporti che la letteratura dovrebbe intrattenere con la cosiddetta realtà.
Allora: che cosa chiede la politica agli scrittori quando spera in un’illuminazione che venga dai loro testi letterari per capire e progettarla questa realtà? Si celebrano i centocinquant’anni di un’Unità d’Italia ancora lontana dall’essere realizzata, e anzi oggi particolarmente minacciata, e si vorrebbe trovare nei romanzi contemporanei un affollamento di storie che riguardino direttamente il tema dell’identità nazionale? Spero di no, spero che i politici sappiano fare il loro lavoro e si preparino sui testi giusti e non sui romanzi. Spero che leggano le narrazioni contemporanee, ma non per trovarvi dentro «la linea» bensí per capire qualcosa di sé come uomini e donne immersi in problemi antichi, i problemi di sempre, ma affrontati da coscienze moderne, coscienze capaci di sentire il vero e il futuro attraverso gli strumenti misteriosi del fare artistico.
Diceva Vladimir Nabokov: «Realtà è l’unica parola che senza virgolette non significa niente» e qualcun altro, che non so più chi sia, diceva che uno scrittore, di qualsiasi genere, non può che essere uno scrittore realistico. Insomma non si può, scrivendo, non parlare della «realtà», purché comunque sempre fra virgolette. Cosa significa questo? Che il tipo di romanzo in cui spera la politica in una specie di brain-storming generale di scrittori inevitabilmente «organici» ha, per fortuna, fatto il suo tempo. E’ vero: la realtà preme, la realtà vuole essere raccontata, la patria disgregata cerca un cantore capace di ricomporla, di aiutarla ad avere una dignità, di decifrare il confuso scenario contemporaneo. Ma se mai ci fosse questo genio in grado di scrivere l’opera che sappia rivelare un popolo a se stesso, la sua storia non avrebbe l’aspetto di un romanzo realistico (se non fra ventimila virgolette), non sarebbe un libro facile, forse non avrebbe successo commerciale e la politica non saprebbe che farsene. Perché i politici e i cittadini attrezzati a capirlo non sarebbero ancora nati.
Sto leggendo un saggio che mi piace, perché in un modo che mi è congeniale (il collage di pensieri e vite altrui) esprime una teoria letteraria in cui mi riconosco. Non inganni il titolo, Fame di realtà (Fazi editore). L’autore, David Shields, è un americano cinquantaquattrenne che crede nella realtà piccola piccola dell’autobiografia, nell’autenticità delle storie, ma non nel romanzo, figurarsi un romanzo con la pretesa di parlare della Realtà. «La trama è roba per gente morta». «Il romanzo è morto. Lunga vita all’antiromanzo che si nutre di scarti» si legge nel suo saggio. Meno male che ogni tanto qualcuno si ricorda che veniamo dopo Proust, e Faulkner, e Beckett… In questa ottica dello «scarto» mi sento di acconsentire a una generale riflessione letteraria sul mondo devastato che ci è dato condividere. E come il romanzo ottocentesco è stato il risultato di una società (borghese) che si sentiva forte, orgogliosa di sé, smaniosa di un’arte che ne facesse il trionfante ritratto, così oggi le individualità confuse e disperse, infantili e per niente eroiche, immerse nella realtà di un paese (il nostro) che sprofonda (letteralmente) nell’abuso non solo edilizio, nell’ignavia, nel malcostume, nella vergogna, dovranno rispecchiarsi in narrazioni frammentarie, balbettanti, fragili, dolorose? Effettivamente una costruzione romanzesca basata sulla fiction sarebbe probabilmente meno veritiera e onesta, incapace di rendere un autentico spirito dei tempi e di parlare di noi alla posterità, di qualsiasi microracconto nato sull’incendio della verità biografica e autobiografica e libero dalle ferree regole strutturali della forma-romanzo. Si sente oggi, mi pare, un grande bisogno di autenticità, forse proprio per marcare, paradossalmente, la differenza fra letteratura e vita, fra letteratura e politica.
Nel titolo di questo mio intervento chiamo «notte della narrativa» lo stato delle cose letterarie non perché non si scrivano opere importanti (dove forse è pure possibile riconoscere tra le righe «obiettivi, paure, speranze, difficoltà e ambizioni» degli italiani), ma perché, in linea con l’andazzo generale, oggi tutto è permesso anche in letteratura. Ogni autore corre da solo e, quando si aggrega ad altri scrittori, lo fa per amicizia personale o per temporanee battaglie (sociali, mai letterarie), in un agire per bande (editoriali o blogghiste) che non serve alla circolazione delle idee, ma puntella pericolanti convinzioni o risponde a principi di forza e sopraffazione sotterranei tali da portare alla fine gli scrittori lontano da se stessi. Mai come oggi gli scrittori sono stati più deboli e bisognosi della protezione dei propri editori per imporsi. Non c’è (se non in sacche minoritarie) curiosità per il nuovo, interesse per altri autori che non appartengano già a un entourage riconosciuto o «amico», appunto, le singole personalità artistiche si sono fatte scaltre. Manca ciò che era sempre stato inscindibile dal carattere artistico: una certa dose di ingenuità, di gratuità del proprio fare. Manca, voglio dire, come spirito dei tempi: non nego che, poi, alcuni singoli individui per indole, passione e autolesionismo possano andare controcorrente.
Nella notte della narrativa tutte le realtà sono nere e indistinte, l’una vale l’altra e l’unico criterio di valore letterario è il successo, la quantità di copie che un editore riesce a smerciare. Gli autori di culto, che una volta erano ombrose personalità note ai lettori migliori, coincidono oggi con i più propagandati, gli onnipresenti, firme magari per niente interessanti, ma che i giornali si contendono. Cultori del proprio ego, difficilmente potrebbero produrre idee critiche su un sistema a cui appartengono come principali ingranaggi. Da loro dovrebbe venire una visione convincente della realtà? Replicano trame vecchie declinandole in variazioni piacevoli o spiacevolissime a seconda che si collochino sul versante consolatorio o su quello splatter. Quando si lanciano a criticare la «realtà», a ben guardare, è della televisione che parlano, riproducendo spesso un italiano e un racconto che sono direttamente germinati da ciò che affermano di voler demolire. Sembrano avere della letteratura una visione ristretta alla propria opera o, tuttalpiù, a due o tre autori di riferimento (in genere americani, accanto al gruppo dei soliti amici magari anche lontanissimi quanto a poetica). Molti di questi atteggiamenti appartengono ai più giovani (ma non solo), forse perché non hanno conosciuto direttamente un mondo intellettuale che funzionava diversamente e che ben altri conti con la «realtà» sapeva fare dentro e fuori l’opera artistica.
Tutto questo vorrei che suonasse come meditazione e non come condanna, perché a ogni generazione è data un’epoca e l’epoca è eredità del passato. Le responsabilità non sono di questo o quell’autore, ma più generali e ramificate in varie direzioni, nel passato e nel presente. Siamo tutti immersi nella notte e non mi pare di cogliere segni di entusiasmo in giro, al di là delle legittime soddisfazioni per i risultati personali raggiunti. Ci sentiamo «eredi della sconfitta» per citare un bel romanzo della scrittrice indiana Kiran Desai, sentiamo la terra franarci sotto i piedi, in senso non solo figurato purtroppo, e non penso che festeggiare la ricorrenza di un’irrisolta unità del paese possa inocularci l’ottimismo che non abbiamo.
Che cosa fare allora, da dove cominciare, dove trovare motivazioni per scrivere libri possibilmente non inutili e anzi con qualche chance di contribuire all’edificazione di una coscienza civile e umana, come ascoltare i suggerimenti dell’inconscio collettivo per plasmarne letterariamente paure e speranze? Trovare una «nuova postura spirituale» spezzando «il proprio solipsismo» e ricostruendo un dialogo con gli altri intellettuali, suggeriva recentemente un’autrice molto coinvolta nel dibattito sulle sorti letterarie, Evelina Santangelo, una dei pochi a non chiudersi nell’ambito dei coetanei trenta/quarantenni. Ma la postura spirituale si modifica agendo più che parlando, scrivendo in un modo piuttosto che in un altro, certamente non assecondando i diktat di un’editoria attenta al business e non alla letteratura o subendone i condizionamenti senza nemmeno avvertirli, senza nessuna consapevole capacità di contestarli, non dico pubblicamente, ma nell’ovatta del proprio studio, davanti al proprio computer.
Qualche anno fa, era il 1992, scrissi un saggetto sul tema Patria per un volume collettivo con questo titolo, pubblicato dall’editore Theoria. Trovo lì questa considerazione: «Malgrado la frammentazione che la caratterizza e la difficoltà che ha a ritrovarsi in un profilo dalle linee definite, in un’identità nazionale, in un orgoglio di appartenenza, l’Italia è una patria perché è una lingua. E’ in nome di questa lingua che siamo inchiodati a un’unità che va protetta e aiutata a compiersi in tutti i suoi aspetti». Sinceramente non so, oggi, a distanza di quasi vent’anni, se l’identità nazionale sarebbe garantita di più dal federalismo rispetto al vecchio centralismo, credo però, come ieri, che il contributo di uno scrittore non possa che essere linguistico. E’ la realtà della lingua, nelle sue sfumature, nel suo tradizionalismo e nel suo rinnovarsi, quella che dovrebbe stare a cuore agli scrittori. Renderla duttile, ma non povera, preservarla arricchendola e non consegnarla senza nemmeno lottare all’italiano basico, televisivo, grossolano, volgare che si è imposto. In troppi romanzi circola una lingua minimale, che sembra una brutta traduzione dall’inglese. Questa lingua povera è la realtà in cui siamo immersi, ma la realtà è qualcosa che si può anche contrastare. E non vedo compito più serio ed efficace, non vedo contributo migliore e più «realistico» per uno scrittore che lavorare su questo: su una lingua bellissima che ci è stata consegnata dalle nostre vicissitudini e che resta la prima pietra su cui rifondare l’ideale Risorgimento di una minata identità non solo nazionale, ma letteraria. Qualsiasi storia racconteremo, se sarà la lingua a farsi centrale (il come dirlo piuttosto che il cosa) e quindi la forma, che non potrà essere la forma-romanzo, per sua natura la più trascurata nell’uso della lingua perché attenta soprattutto a costruzione e contenuto, saremo costretti a tornare a essere «assolutamente moderni» come predicava Arthur Rimbaud e come attualmente non siamo. Magari inventando, complice la grande evoluzione tecnologica che stiamo attraversando, nuove forme di confronto e di narrazione. E, sì, forse è tempo di rileggere Una stagione all’inferno: «Al momento sono maledetto, la patria mi fa orrore. La cosa migliore è un sonno completamente sbronzo, sul greto»