Recensione on-line di Andrea Velardi su Rubric a “E in mezzo il fiume” (gennaio 2011)
Quando a Roma ci si incontra ci si saluta con un “Ci vedremo” ma sai che non succederà. Relazioni fugaci. Anche chi conosci bene lo vedi raramente. Dopo il contatto tutto sfuma e si scompone nella ragnatela dei vicoli e delle vite. Sandra Petrignani cerca di frenare la dispersione con qualcosa che non è soltanto una passeggiata raffinata tra le vie della Capitale. E in mezzo al fiume. A piedi nei due centri di Roma, Laterza, accoglie al suo interno tutto un brulicame di vita, di trame popolari e colte, di vicende note e segrete, restituite con brevi, incisive, gioiose passate di tempera.
Non solo monumenti, ma vite, vite pubbliche e private dentro le quali l’autrice riesce a inserirsi per far respirare e parlare i luoghi e le storie della città, dimostrando che la capitale è davvero “una specie di giungla tiepida dove ci si può nascondere bene” come diceva Fellini. Laura Betti che abitava a via di Montoro, vicino Campo de’ Fiori, aggiunge l’immagine di Roma come “una città di campagna dove puoi uscire di casa zoccolando.”
Una volta, a cena con l’amico Mughini, parlavamo di come in questa città amata e odiata, che promette tanto e mantiene poco, ognuno di noi ha trovato un suo posto, una sua collocazione, una sua ragione, anche se è verissimo e doloroso constatare come essa sia diventata sempre più una città fatta di caste parallele e impermeabili.
Per chi ne è escluso, per mancanza di cognome, di sangue o di censo, non resta a volte che la squallida movida esplosa dopo il franchismo, nel 1975, quella che trasformò le notti rutilanti della dolce vita in veglie opache di inutile baldoria. La vita artistica, la fiammeggiante sarabanda di improvvisazioni, invenzioni e di colori che aveva i suoi nomi in Franco Angeli, Tano Festa, Mario Schifano, è stata sostituita dalla immobilità di giovani che stanziano a Campo de’ Fiori per ubriacarsi, fare a botte, “pisciare e vomitare sui portoni”.
Segno di decadenza è anche la crisi dei teatri. Nulla più assomiglia al periodo delle cantine quelle dove si sono fatti strada attori del calibro di Carmelo Bene e dove venne fuori il talento unico di Piera degli Esposti che in quelle carbonerie della dramamturgia portava in scena l’ impossibile monologo interiore di Molly Bloom di Joyce cui aveva ridato vita e intelliggibilità grazie alla regia di Ida Bassignano.
Manuela Morosini inventava Spazio Uno a vicolo dei Panieri e ora ricorda come Trastevere nel 1968 fosse “irresistibilmente viva” e come perfino Gian Maria Volontè improvvisasse in piazza dei veri comizi in difesa delle case del popolo del quartiere scagliandosi contro le brame dei miliardari stranieri.
Qualcosa resiste. Bibli ad esempio. Libreria leggendaria, con una intima e accogliente caffetteria, dove una ragazza depressa sta ore a leggere in un tavolino e dove siede una coppia che si è da poco riconciliata. Resiste anche la Trastevere devota, spirituale, quella di don Michele, quella del rito collettivo della Comunità di Sant’Egidio dove la Petrignani viene portata dal poeta Elio Pecora, grande amico di Sandro Penna e di Elsa Morante. La memoria aiuta ancora a sognare. La signora Rina ricorda “quando tutto era prato e si andava a cicoria e la statua della Madonna fu trovata nei campi”.
Comincia da Trastevere il diario di viaggio della Petrignani, quella che possiamo chiamare una “accurata, scrupolosa, resistenza contro le incrinature centrifughe della deriva metropolitana”. Una permanenza intensa e benevolente nei flussi del cuore palpitante della Capitale. In grado di restituirci le forze più centripete, calde, familiari della “giungla” felliniana. Trastevere è un “universo popolato di persone anomale dice lo scrittore Mario Fortunato. Sei al centro della città senza l’arroganza del centro. Un mondo alla rovescia”.
Per Giosetta Fioroni i centri di Roma sono due: Trastevere e Campo de’ Fiori. Trastevere è l’agglomerato originario, testardo, superstizioso, bigotto, fiumarolo. Il ciociaro Marcello Mastroianni abitava a Trastevere mentre il genovese Vittorio Gassman a Piazza del Popolo. I due grandi attori hanno rappresentanto le due facce di Roma città “aperta ed esclusiva”, “le due sponde del Tevere, deqquà e dellà”. Mastroianni deqquà. Gassman dellà. In due centri diversi, due “aparte” geografici ed esistenziali.
Su questa doppia polarità si gioca tutto il libro di Sandra Petrignani. Ma l’autrice dirige lo sguardo verso diversi e numerosi centri che si moltiplicano durante la sua passeggiata. Manifesta una sorprendente capacità di disegnare simmetrie e spezzature, geometrie decise, accanite, consapevoli che hanno come scopo quello di decostruire totalmente l’immagine fornita dal sottotitolo del libro “Viaggio per i due centri di Roma”, per indirizzare il lettore verso la frammentazione, la disintegrazione, la ricomposizione, l’alienazione, la perdita, la riappropriazione degli spazi, delle zone, dei riti, dei simboli della capitale i cui centri principali si dividono in se stessi, si spezzano e si ricostituiscono in altri centri, si diramano in prospettive non sempre lineari e gioiose, in cartoline visive e fisiche non sempre piene di glamour e di appeal, come quelle de La Dolce Vita di Fellini. Una leggenda in verità di cui restano solo echi sordi e ingannatori, come il canto omerico delle sirene.
Alla fine il lettore comprenderà che la Roma di Petrignani è solo il coro di voci isolate, profonde, echeggianti come i riverberi del fiume Tevere, quelli che l’autrice è riuscita a comporre e a far confluire nelle sue passeggiate; che è solo la sua caparbietà solitaria la vera bussola in una città piena di misteri, di luoghi magici e inesplorati, folli e desolati, di realtà consunte e sofferte, dimenticate e sepolte.
Partendo dai due centri, Petrignani scompone la città, segna le linee maestre di una diversificazione difficile da comprendere fino in fondo.
La sociologa Sara Bentivegna ricorda che viale Trastevere spacca in due il quartiere come una mela. E quindi anche nel dellà, dell’oltretevere si crea un deqqua e un dellà di Trastevere. Deqqua c’è la “parte incasinata della mela” quella dove ha sede la comunità di Sant’Egidio, dove vedi i punkabestia. Dellà c’è quella tranquilla dominata dalla Basilica di Santa Cecilia. Ma proprio a quelli che abitano il deqqua di Trastevere, più riparato e tranquillo, tocca spostarsi più spesso e attraversare il viale perchè dellà ci sono le botteghe storiche, le librerie più fornite.
E attraversare viale Trastevere è come guadare il fiume, in questo caso il viale d’asfalto zigrinato dalle rotaie del tram n°8 che, come un affluente del Tevere, sembra separare Trastevere in altri due quartieri opposti e diversi. Il deqqua è quello di piazza san Cosimato dove Stefano Benni abita dopo il trasferimento da Bologna e adotta i poveri e dove hanno sede i fagiolini, i deiscepoli dello psichiatra Fagioli guru di Marco Bellocchio.
Il grande centro di Trastevere, polarità fondamentale del libro, si divide in due: la parte deqqua, quella del tram e dei Monopoli di Stato e la parte dellà, quella della piazza con l’enorme fontana davanti alla Basilica di Santa Maria.
Da un centro si passa a due centri e di questi due ne vengono fuori tre: quello deqqua cioè Campo de’ Fiori, quello dellà cioè Trastevere, un deqqua e un dellà del dellà. Sono proprio quelli che abitano questo secondo polo di gravità che si contendono con quelli del deqqua del dellà il primato di “noantri”, di veri romani.
L’emblema di questa parte di roma è Wilma: “ladri, zoccole, delinquenti, mica come li signori che se sò comprato tutto e c’hanno cacciato dalle nostre case e mo vojiono mescolasse a noi… a noi ce rode proprio er core. Un po’ a tutti a roma rode er core.”
Alla bottegaia che inveisce contro l’igiene rovina delle pasticcerie, si sostituisce il raffinato francesista Giuseppe Scaraffia, scrittore degli scrittori dandy per il quale Roma è una città dei balocchi dove puoi veramente trovare il pozzo magico di Fantasia, il bellissimo cartoon disneyano.
Scaraffia è un intellettuale che non può che vivere in centro “perché ha un bisogno fisiologico della bellezza”. La sua casa è piena di “charme eccentrico a coprire sotteranei grovigli”, quelle della Torri d’Avorio, ultimo, notevole libro dedicato alle dimore degli scrittori francesi. Per lui Campo de’ Fiori e Piazza Farnese sono divenute radical chic e i veri romani “grassi e linguacciuti” sono quelli del ghetto dentro cui abita insieme alla bizantinista Silvia Ronchey che ha da poco dato alle stampe per Rizzoli una biografia della filosofa alessandrina Ipazia.
Nanni Moretti accompagna Sandra verso Testaccio. La fa uscire dalla sua cartografia precostituita. E’ in quel quartiere che, finito il lavoro alla redazione de Il Foglio, fra i vicoli bui fino a ponte Sublicio, con “l’inseparabile bassottina Lubè al guinzaglio”, il direttore Giuliano Ferrara, si avvia a piedi verso il Cremlino, il mastodontico palazzo di piazza dell’Emporio dove hanno abitato molti membri del PCI. Non è più Trastevere. Sotto l’ombra del Colle Aventino la piazza dà sul ponte che conduce a sinistra verso il mercato di Porta Portese e a destra verso la Chiesa di Santa Cecilia. Oggi la buona movida è quella del Nuovo Sacher dove Nanni Moretti fa rivivere riti antichi e parte dei convivi artistici della Roma degli anni sessanta. A Roma sopravvive anche l’Azzurro Scipioni dove Silvano Agosti offre ancora in visione la sua lista dei cento film da non perdere, ma Moretti ha voluto e potuto fare una operazione nuova: fare incontrare il passato gloriso del cinema con il presente, e mentre per qualcuno la Corazzata Potmekin era uno spauracchio ecco che al Nuovo Sacher accade il miracolo: Heimat è un successo e occorre replicarlo.
Quella di Sandra Petrignani è una cartografia sentimentale, empatica della capitale, ma che, misteriosamente restituisce alla perfezione un carattere preciso di questa incomparabile città. Il non avere un unico cuore pulsante, il suo essere pluricentrata, o meglio il suo aver perso il baricentro. E la Petrignani lo ricerca con ostinata con caparbietà disinvolta, volutamente e apparantemente non engagée, usando i due metodi della passeggiata (“ciriolando e zoccolando” sono diventati ormai dei modi di dire tra i lettori del libro) e della conversazione. La passeggiata è un atto di vera riappropriazione, una vera trasgressione intimistica. Quella di tuffarsi negli anfratti, nei vicoli, di contemplare i monumenti rileggendone la storia. Un modo di imitare i grandi del passato e il mito del gran tour italico di tanti scrittori stranieri del settecento e dell’ottocento.
Ma l’autrice sa che non basta vivere le sacre reliquie del passato con gli strumenti dello sguardo e della visione per riconquistare quello che è tanto vicino da diventare lontano e remoto. Il sogno dell’appartenenza si può realizzare solo attraverso le persone che custodiscono ancora la bellezza e l’amore per il sapere, per la memoria che la sfida può essere vinta. Persone che facciano parlare gli oggetti, i monumenti, le storie di cui sono intrisi e di cui sono stati scenario. Così come fa Daria Galateria.
Tutto questo può apparire venato di un tono crepuscolare, arreso. Eppure abbiamo intravisto una forza di contestazione quasi settantonina in queste pagine. La volontà di mettere in atto una vera critica della dissipazione del tempo presente, della dissipazione di visione, di percezione, di sapere. Dissipazione che si traduce in dispersione di tesori e di patrimoni sia artistici che umani, perchè, grazie alla scrittura della Petrignani, anche le persone sembrano avere l’importanza meravigliosa e oracolare che posseggono le basiliche, i templi, i musei e le statue della capitale.
Quello della Petrignani non è in realtà una passeggiata programmata. E’ un periplo, una piccola, sofferta, gioiosa odissea in cui la scrittrice si affida ad una guida, ad un progetto, a dei punti di riferimento per recingere uno spazio sacro dove potere rimuovere la dispresione, il nostos e rinchiudersi nella rimozione addolorata e melanconica del nulla e della insipienza che ormai la circonda.
Proprio il verbo “ciriolare”, tipico del dialetto romano, proviene dal nome “ciriole”, le anguille che insieme a storioni, cefali e spigole abitavano il Tevere. Le ciriole, dette anche “chiavicarole”o “fiumarle”, danno vita ad un verbo che vuol dire “procedere sinuosi come un’anguilla, destreggiarsi nella vita, cavarsela insomma”. E come dice l’amica Adriana Polveroni anche il Tevere a ben guardare è un’enorme ciriola, con le sue anse pronunciate, è sinuoso, femminile, con i suoi mammelloni che si insinuano nella città per allattarla”. Le ciriole ridanno la sensazione che il Tevere è biondo, fangosamente biondo, abitato di vita e di nutrimento. Susanna Tamaro ricorda come un suo inquilino di Piazza San Cosimato le tenesse a spurgare nella vasca da bagno di casa dopo averle pescate.
Ciriolando con passione Petrignani mostra una verità conclusiva della sua fitta cartografia. Il centro vero di una città è l’anima di chi la percorre, della scrittrice che come un moderno genius loci è capace di mostrarne i poteri, la grazia, il fascino unico e originale, di farla vivere e rivivere per chiunque. Prendete E in mezzo al fiume. A piedi nei due centri di Roma, Laterza, e tornate a Roma, anche voi che l’abitate dalla nascita.
In un misto di caso e di volontà, in un crinale, attraversato con eleganza, tra lo snobismo dei salotti culturali e la naturalezza dell’indagine che trova profondità in ogni autentico pulsare di esistenza, versante questo verso cui Sandra Petrignani indubbiamente propende. Perchè “la scrittrice abita qui”, nel centro di Roma, ovvero nel centro dell’anima, dell’Anima Mundi.