Marguerite

copertina marg TITOLO: Marguerite
AUTRICE: Sandra Petrignani
CASA EDITRICE: Neri Pozza
DATA DI PUBBLICAZIONE:  2014
Acquista il libro
Questo libro racconta la vita di Marguerite Duras, dall’infanzia, quando è per tutti Nenè, agli anni centrali in cui gli amici più intimi, come Jeanne Moreau, Godard, Depardieu, Lacan, la chiamano Margot, fino al delirio megalomane e alcolico della vecchiaia in cui la scrittrice parla di sé in terza persona autocitandosi con il solo cognome: Duras.È la storia di una vita irripetibile che si è intrecciata al colonialismo, alla Resistenza, al Partito comunista francese – con l’adesione prima, la ribellione e l’espulsione poi – al ’68, al femminismo, all’École du Regard, alla Nouvelle Vague. La storia di una donna dai moltissimi aggrovigliati amori e di una scrittrice e cineasta che, dopo la vittoria al Goncourt e il successo planetario del romanzo ispirato al suo primo amore – L’amante – ha conquistato, suo malgrado, una sterminata folla di lettori, a volte fanatici fino al culto. La storia, infine, dei trionfi e delle sconfitte di questa donna, del suo impressionante corpo a corpo con la letteratura, della sua autenticità e delle sue mistificazioni, del doloroso attraversamento dell’alcolismo, dei deliri dovuti alla disintossicazione, della sua capacità d’innamorarsi e di giocare coi sentimenti e con le parole fino all’ultimo soffio di vita. Per scoprire, infine, che nessun riconoscimento, nessuna turbinosa passione potevano guarirla dal male di vivere, dalle lontane eppure sempre attive ferite infantili e dalla lucidità con cui, in vecchiaia, avrebbe compreso che «nessun amore vale l’amore» o che «scrivere non insegna altro che a scrivere».In una linea narrativa fra le più interessanti dello scenario contemporaneo, quella che trae dal racconto di vite vere materia di autentica letteratura, Sandra Petrignani offre un libro in cui la biografia, il reportage, la descrizione di un personaggio reale commovente e irritante, romantico e spregiudicato, illuminano un destino unico e, insieme, un’epoca straordinaria della cultura mondiale.

RECENSIONI:

di MASSIMO ONOFRI (l’Avvenire, 20/6/14)

Per capire bene quale sorta di romanzo sia Marguerite, non si dovrà in nessun modo dimenticare – ce lo ricorda lei stessa nelle pagine intitolate “la storia di questo libro” – che Sandra Petrignani è l’autrice del peraltro bellissimo La scrittrice abita qui (2003), in cui a contare era la relazione misteriosa, e quindi qualche modo magica, tra le scrittrici amate (dalla Deledda alla Yourcenar e altra ancora) e i loro luoghi, a partire dalla casa in cu avevano vissuto. Sicché lo dirò subito: Marguerite non è (non è soltanto) quello che promette di essere sin dal titolo – e cioè un romanzo sulla Duras -, ma anche qualcosa d’altro. Ecco che cosa fa Petrignani quando si rapporta alle biografie di altre donne, diciamo così, illustri e speciali, come avviene per esempio con la Palma Bucarelli del notevolissimo Addio a Roma (2012)? Intendiamoci, Marguerite è anche u libro che muove da un esattissimo giudizio critico e sarà letto con profitto , oltre che dai tanti più o meno fanatici ammiratori della scrittrice francese, anche da chi, attraverso la sua vita, vorrà affacciarsi su un’opera di non facile decifrazione, che ha nel Viceconsole una sua indubbia vetta, con quella feroce contrapposizione tra “lusso e abiezione”, ma disperatamente concentrato sul “senso ineluttabile della disgrazia di vivere”, sull’inutilità salvifica dell’amore”. Giudizio che consente a Petrignani di riferirsi al long seller L’amante, “pura e semplice storia d’amore”, cogliendone una verità semplice, epperò esteticamente ardua: “che una scrittrice inafferrabile sia stata capace di comporre una piccola grande storia popolare a me sembra stigma di eccellenza”.

Che cosa sia stato il mito Duras, nel secolo appena trascorso, sono stati in molti ad aver cercato di capirlo, e chi nulla ne sa, l’apprenderà dalla viva passione con cui Petrignani ce lo restituisce intero. Senza indulgere a leggende facili, seppure molto vulgate,: ma decostruendo e riscrivendo laddove serviva. Ecco: l’infanzia. Gli amori euforici e disperati (“le stesse sinuose danze tra due amanti vagamente suicidi”). Gli uomini e le donne voracemente frequentati, gli amici più o meno importanti,: da Godard a Lacan. L’autoritarismo, le scelte anticonformiste e la fragilità di chi sa che solo l’ossimoro conta per sedurre. Il comunismo – quello bigottista e becero del partito francese degli anno ’40 – e il femminismo, le furiose avanguardie artistiche. Il successo letterario e cinematografico planetario, i paesaggi del mondo, larghi e avventurosi: dal Vietnam alla Cambogia, lo smisurato Pacifico, infine Parigi. Gli anni terminali devastati dall’alcool e da uno spasmodico, smisurato, combusto, senso di sé, del sé. Una vita convulsa e lacerata, sempre inchiodata a un dolore immedicabile, e senza risarcimenti, ma capace di ricapitolare in se stessa di corsa, un secolo orrendo e magnifico. E allora, che cosa fa Petrignani quando si rapporta a una biografia così ? Niente altro che sottoporla a un sistema di domande, di assilli, che sono gli stessi suoi di donna e di scrittrice, ogni volta diversi. Il tema di questo libro credo sia soprattutto la possibilità della salvezza, ma dentro la vita. Che Duras ha inseguito attraverso l’amore per l’amore, per la politica, per la letteratura. Epperò, talvolta, è per troppa vita, non per difetto, che noi patiamo tutte le pene dell’inferno.


Marguerite mon amour. Il romanzo di Sandra Petrignani dedicato alla Duras

di Oscar Iarussi (Gazzetta del Mezzogiorno, 29 Maggio 2014)

 

Marguerite mon amour. Ovvero, «la vita è un romanzo», per dirla con un altro titolo di Alain Resnais, il quale si rivelò al grande pubblico con uno strepitoso film nel 1959, Hiroshima mon amour, sceneggiato dall’amica scrittrice Marguerite Duras. Protagonista una coppia: lei è un’attrice francese, lui un architetto giapponese, uniti dalla passione e divisi dai ricordi, sullo sfondo dell’incubo dell’esplosione nucleare. Un amore. Per Duras l’amore è sfida al nulla, impossibile ma necessaria. L’amore è un farmaco, sostanza che medica seppur avvelena, secondo l’etimo greco. L’amore è lo specchio in cui riconoscersi e perdersi spesso coincidono.

Il centenario della Duras, che nacque nei pressi di Saigon il 4 aprile 1914 nell’allora colonia francese della Cocincina e morì a Parigi nel ’96, in questi mesi viene celebrato in Francia da dibattiti, proiezioni dei suoi numerosi film (diciannove le regie), riedizioni varie fra cui il racconto per bambini Ah! Ernesto riproposto dall’editore Thierry Magnier che vi ha aggiunto un saggio di proprio pugno. È mancata, si direbbe, una retrospettiva all’altezza di una leggenda vivente che si consegnò alla scrittura come a una perenne voluttà: Marguerite, L’amante per eccellenza, titolo del suo libro più popolare (1984), da cui fu tratto l’omonimo film di Annaud. Nondimeno, ella fu partecipe dei tumulti del secolo, dalla Resistenza al ’68, impegnata nelle lotte a dispetto dell’espulsione dal Partito comunista francese che nel 1950 l’accusò di essere «puttana» e «ninfomane». In Italia sono da poco apparse due sceneggiature della Duras, Agatha e Il camion, nel volume La ragazza del cinema edito da Del Vecchio e introdotto da Sandra Petrignani. Ormai quasi introvabile è la «storica» raccolta di riflessioni sulla settima arte affidate ai «Cahiers du Cinéma» nel numero del giugno 1980, dal titolo Gli occhi verdi, tradotta per i tipi della Shake nel 2000.

Marguerite Donnadieu mutuò il nome d’arte dal villaggio della regione Lot-et-Garonne in cui erano le radici paterne: Duras, appunto. E dal padre Henri, scomparso appena cinquantenne, ma soprattutto dall’amata/odiata madre Marie Legrand, prende le mosse l’omaggio più vivido alla scrittrice, che forse solo una «straniera» poteva concepire. Perché Marguerite era in fondo straniera a tutto e a tutti nel magma di una biografia ricca come poche altre di incontri straordinari, di autentiche avventure e di amori talmente intensi che ne basterebbe uno per alludere all’ineffabile promessa contro la morte rinnovata in ogni amplesso. Il libro s’intitola semplicemente Marguerite e ne è autrice la stessa Petrignani (Neri Pozza ed., p. 212, euro 16,00).

Viaggiatrice e biografa appassionata, Petrignani non era riuscita a inserire Duras nella raccolta La scrittrice non abita qui, nel quale, una dozzina di anni fa, esplorava le case-museo di alcune protagoniste letterarie novecentesche, da Woolf a Deledda e a Yourcenar. Rimedia adesso anche grazie a una serie di incontri fortuiti, dei quali testimonia in appendice (sempre che le coincidenze esistano e non siano invece degli snodi dell’inconscio). Marguerite è una biografia sotto forma di romanzo; invero, è un romanzo tout court da cui il lettore totalmente a digiuno della Duras potrà essere conquistato non meno del cultore della scrittrice di Una diga sul Pacifico, Il viceconsole, Giornate intere fra gli alberi, India Song e di tanti altri racconti più o meno famosi.

Il «gioco» della Petrignani è raffinato, giacché l’anelito autobiografico è sotteso e talora manifesto in molte opere dell’eterna ragazza minuta e conturbante, con grandi occhi, vaghi tratti orientali e una pelle serica irrorata, diceva lei, dalle abbondanti piogge asiatiche. Romanzare la Duras, attingendo a citazioni virgolettate o celate nel testo, corrisponde perciò a un corpo a corpo dolce e feroce, struggente, con una donna che soffrì moltissimo, almeno quanto sedusse e scrisse. «E com’è importante lo sguardo sulle cose quando si scrive. Ha scritto in prima persona, ha scritto in terza persona. Deve scrivere come in uno specchio, guardandosi vivere. Lo farà a ogni costo, anche se Robert Antelme e Dionys Mascolo continueranno a bacchettarla sulle dita, a scuoterle l’indice davanti al naso, a romperle le scatole con le loro critiche o la loro condiscendenza. Ma è il loro modo di stare al mondo, non ci si può fare niente. E il mondo è diviso in uomini e donne, e lei è una donna».

Antelme è lo scrittore di L’espèce humaine sopravvissuto all’Olocausto, che Duras aveva sposato nel 1939. Mascolo l’altro scrittore ed editor di Gallimard che nel 1947 le dette un figlio, Jean detto «Outa». Marguerite convive a lungo con entrambi, anche quando l’uno e l’altro la tradiscono e lei puntualmente li tradisce, in un appartamento parigino di rue Saint-Benoit, che diventa cuore pulsante della cultura e della politica a cavallo fra l’occupazione tedesca e la liberazione, ben prima della stagione esistenzialista di Sartre e compagnia bella nei caffè di Saint-Germain-des-Prés. In quelle stanze e nelle strade e nei teatri dell’epoca si affacciano il futuro presidente Mitterrand grazie al quale Antelme, cadaverico nella Dachau appena raggiunta dagli americani, riuscirà a essere curato in tempo e a salvarsi. È lo stesso Antelme che, buttato fuori a sua volta dal Pcf filosovietico la cui militanza gli era costata la deportazione nel lager nazista, chiosa: «Il comunismo ha creato un nuovo tipo di stronzo». Gli amici della Duras si chiamano Morin, Lacan, Sonia Orwell (sposa di George), Beckett, Elio e Ginetta Vittorini. Ma l’elenco dei nomi si allunga nelle varie dimore e nei viaggi. Dalla proustiana Trouville in Normandia alla mediterranea Saint-Tropez, dall’Italia al Vietnam, all’America, in ordine sparso tra le pagine della Petrignani occhieggiano i nomi di Resnais, Godard, Renaud, De Beauvoir, Moravia, Pompidou, Blanchot, Moreau, Bardot, Depardieu…

Scrittori, cineasti, politici, psicoanalisti coronano la vita di Marguerite. Lei però «resta fedele al senso di estraneità alla vita che avverte correrle sottopelle parallelo agli entusiasmi». La sua idiosincrasia ha origini lontane: nell’infanzia indocinese non nutrita a sufficienza dall’amore della mamma Marie. Ex insegnante e vedova indomita nella piantagione di riso ottenuta in Cambogia, Marie le preferì sempre i fratelli (uno morto giovane, l’altro assai viziato). Neppure l’alcol, i successi e i giovani amanti di Duras, tanti, fino a Yann Andréa che le stette al fianco negli ultimi anni, riusciranno mai a sanare la ferita. «Non c’è nessun ultimo bacio», quando è mancato il primo. Inconsolabile Marguerite, come certe vite. Un libro da non perdere.


NEVROTICA, BOLLENTE, UNICA DURAS. LA SCRITTRICE SEMPRE «OLTRE IL LIMITE» SECONDO SANDRA PETRIGNANI.

di PIERLUIGI BATTISTA (Corriere della Sera, 26/5/14)

La vita di Marguerite Duras è stata tempestosa, appassionata, segnata dall’eccesso. Raccontarla è impresa spericolata. Un impegno che però si è sobbarcato Sandra Petrignani, che con questo

Marguerite (Neri Pozza) ha restituito nella sua pienezza letteraria ma soprattutto esistenziale la figura di una scrittrice che è stata un pilastro del mondo intellettuale francese del dopoguerra. Una presenza irregolare e mercuriale, un uragano di idee e di emozioni che hanno fatto irruzione nella vita di uomini condannati a perdere la testa per la Duras, di cineasti e scrittori che sono stati travolti da collaborazioni impossibili, di una madre complicata che non le ha mai perdonato di averla maltrattata nelle pagine di un romanzo, sminuendo l’eroismo di una donna restata vedova e costretta a resistere alla forza di un destino ingrato e di un oceano, il Pacifico, inarginabile.

Come sa chi ha letto L’amante o visto il film che Jean-Jacques Annaud ne ha ricavato, Marguerite Duras ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in Indocina, dal Vietnam alla Cambogia, portata da vicende familiari molto complesse e che comunque hanno depositato nella sua vita il senso di uno spaesamento mai più recuperato anche dopo decenni di «stanzialità» a Parigi. L’avventura della sua vita, raccontata dalla Petrignani in un romanzo che non esita a inserire i dettagli biografici della Duras nella cornice narrativa di un’emotività nevrotica e ribollente di colpi di scena e colpi di testa, fu anche il tentativo disperato e mai raggiunto di trovare un’àncora di salvezza e di stabilità. Tentativo frustrato nella letteratura, inseguendo un ideale di purezza che mise la Duras in conflitto con editori, recensori, registi che volevano tradurre sullo schermo le sue opere o collaborare con la scrittrice per imprese ardue, di difficilissima collocazione nel mercato. Tentativo frustrato nella sua vita sentimentale, burrascosa e volubile, e in quella sessuale, bulimica, furiosa, errabonda, traditrice. Tentativo frustrato nella politica. La Duras entrò nella Resistenza tardivamente, dopo aver accettato una posizione di acquiescenza durante l’occupazione nazista. Avrebbe potuto salvarla la militanza nella sinistra. Ma una libertaria indomabile e irriducibile come lei, che pure cercava nel Partito comunista quella che Sandra Petrignani chiama «una comunità zattera», non poteva respirare nell’atmosfera del Pcf della fine degli anni Quaranta, un partito «contro i “pederasti”, contro l’esistenzialismo, contro tutto ciò che nei comportamenti individuali minaccia la serietà, la centralità della famiglia. È contro per principio a quel che viene dall’America».

E perciò la Duras, insieme ai suoi amici e amanti più cari, venne accusata dal partito di ogni nefandezza, compresa 1’«assiduità in locali notturni ove regna la corruzione politica, intellettuale e morale e si esibisce una nemica del popolo come Juliette Gréco», e infine radiata, costretta a lasciare quella comunità.

Marguerite Duras non voleva accettare compromessi, limitazioni, regole dettate dal buonsenso. Sandra Petrignani ci descrive una figura fragilissima ma dispotica, assediata dall’alcol ma sempre all’erta per restare lucida e non cedere al conformismo nemmeno un millimetro della sua esistenza. Una donna che sapeva distruggere relazioni con un autolesionismo patologico. Che conduceva una sua personale guerra con l’establishment culturale della Francia perbenista e accomodante, anche a costo di mettere in pericolo collaborazioni, progetti, sceneggiature, sicurezze editoriali. La Duras ha contato moltissimo nella vita culturale della Francia e dell’Europa, ma avrebbe potuto contare ancora di più se anche gli ambienti aperti e sofisticati dell’intellighentsjia non fossero stati intossicati da un convenzionale ossequio alle regole della superiorità maschile, arbitrarie e decisamente immeritate. Un’intellettuale vulcanica che ha scritto molto. Alcuni romanzi bellissimi, altri più segnati da un’ostinazione sperimentale che voleva essere una sfida al senso comune ma che qualche volta finiva per umiliare anche il lettore.

La Petrignani racconta bene il senso di un’ingiustizia, lo stato di minorità che la vicenda della Duras ancora soffre se confrontata con la fama di altri scrittori e filosofi suoi contemporanei di talento inferiore eppure premiati oltre misura. Non è un risarcimento postumo, ma la ricostruzione di un percorso esistenziale accidentato eppure affascinante, atipico, non rinchiuso nelle poche certezze

di una vita borghese di routine anche se baciata dal successo letterario e dalle mitologie nate nei caffè e nei bistrot della rive gauche.

Il romanzo di una vita, di una vita difficile e tumultuosa. E proprio per questo sempre eccessiva, nel bene come nel male.

Copyright Corriere della Sera


Vita e menzogne di una scrittrice chiamata Nenè.

di Elena Stancanelli (La Repubblica)

 

«Scrivere tutta la vita ti insegna a scrivere, non ti salva da niente». È l’autunno del 1996 e Marguerite Duras sta morendo. Il fido Yann, l’ultimo amore, annota in un quaderno, “le livre a disparaître” lo chiamano tra loro, questa finale scia di pensieri, frasi magre. «È finita. Non ho più niente. Non ho più bocca, più viso. È atroce», detta Duras, con la voce spezzata da una tracheotomia e alcol a fiumi e sigarette.

Era nata i 14 aprile del 1914 (cento anni fa) in un altro posto – un piccolo paese ricino a Saigon, ex Indocina francese – con un altro nome: Marguerite Donnadieu, detta Nenè. Segno zodiacale ariete. Come la madre, che amò disperatamente e per tutta la vita, nonostante lei le preferisse il fratello Pierre, bello, tossico e disperato.

Sandra Petrignani inventa una scena straziante e perfetta per raccontare il rapporto che lega i due fratelli. Poche righe, come una boule à neige. La inventa? Chissà. Marguerite è un romanzo, la cui protagonista è un persona vera. Vera? Chissà. Con tutto quello che della sua vita lei stessa, Duras, ha inventato, è difficile fare i conti. Somiglia, Marguerite, alle biografie che Jean Echenoz dedica ai suoi eroi, Ravel, Nikola Tesla, Emil Zàtopek. E Jéróme Lindon, l’editore, che fu anche l’editore de L’amante e che Duras abbandonò, irrimediabilmente seccata per il successo mondiale del libro. Ruba, Petrignani, dai libri, dalle interviste, dalle fotografie. Ruba frasi, situazioni, personaggi. «Lassù», dice Pierre al nipote, seduto al ristorante di fronte al numero 5 di me Saint Benoit, «al terzo piano, vive una grande scrittrice». Duras dalla sua finestra lo vede, piange, ha la tentazione di invitarlo a salire, ma poi non lo fa. Troppo male, troppo, tra loro, come tra lei e ogni cosa del mondo. E troppe bugie. Duras teme che il fratello possa smentirla, anche solo per sciatteria, distruggere il romanzo della sua vita che la scrittrice ha messo in scena anno dopo anno, cancellando le tracce dietro di sé.

Marguerite, come ogni buon romanzo, è una menzogna costruita su altre menzogne, assemblate per sembrare verità. Un gomitolo di rimasugli che si fa maglia preziosa, se è ben lavorato. Quando ne11950 Duras pubblica Una diga sul Pacifico, la madre si infuria.

Non si riconosce in quella vedova pazza che combatte contro il mare, cercando con espedienti sempre più rocamboleschi di salvare la sua risaia, un’indomabile concessione sul delta del Mekong. Lo dice sempre Philip Roth, quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita. «E infatti non sei tu, e sei tu. E’ la letteratura! », le grida Marguerite secondo quanto racconta Petrignani. Ma Marie, non paga di non averla amata abbastanza, non la perdonerà, mai più.

Nenè era bella, aveva quella bocca carnosa e gli occhi orientali che conosciamo dalle foto.

Era piccola e sensuale, portava tacchi e gonne strette anche quando militava nella resistenza e nella sua casa si nascondeva il giovane Mitterand, alias Morland. Così di lei si innamorò, tra gli altri, Charles Delval, commissario di polizia al servizio dei tedeschi. Forse.

E forse anche lei un po’, di lui. Comunque lui morì, fucilato a guerra finita. «Lei gode a farsi picchiare, gli chiede di ucciderla a volte, mentre fanno l’amore. Deve farsi perdonare di essere com’è. Che le importa solo di scrivere». All’inizio di Marguerite, la scrittrice attraversa la Francia in macchina insieme a uno dei suoi amanti, Gerard. Deve raggiungere la madre che sta morendo, nella tenuta comprata nel 1950, di ritorno dall’Indocina. Il padre era già morto, quando Nenè era una bambina; lei quasi non fa in tempo a conoscerlo. Il suo amico Jacques Lacan dirà che da una vita così, non poteva uscire che una donna affamata di tutto, soprattutto d’amore.

Ma va? Centinaia di amanti, capace di qualsiasi imbroglio, all’altezza di qualsiasi tradimento, Duras non si fermerà neanche davanti alla possibilità di ferire a morte l’amatissimo Robert, l’ex marito. Pubblicando il diario che racconta nel dettaglio il calvario di lui, tornato da Dachau, la miseria orribile di un corpo distrutto, la fatica e il disgusto di quel tornare alla vita. Dopo questo episodio, Robert non le rivolse più la parola. Litigò con tutti, col figlio, gli editori, gli amici. Litigò fin quando ne ebbe forza. Perché era una scrittrice, e, lo racconta con emozione e intelligenza Petrignani, nessuno può essere perdonato per questo.

Copyright la Repubblica


Intervista Venerdì

Scarica il PDF


Tiliacos Il Foglio

Scarica il PDF


Così Duras fece della vita un romanzo

di Stenio Solinas su Il Giornale
Scarica il PDF


La vita eccessiva di Marguerite Duras è un romanzo

di Irene Bignardi su Il Venerdì

Scarica il PDF


 

Ecco i segreti e gli amanti della Duras

di Francesco Mannoni su Il Mattino

Scarica il PDF


 

Marguerite, la donna

L’Unità

Scarica il PDF


 

Marguerite, scrittrice dalle celate fragilità

di Anna Anselmi su Libertà di Piacenza

Scarica il PDF


 

su LETTERATE MAGAZINE (17 aprile 2014)

di Bia Sarasini

La prima cosa che mi viene in mente, se penso a Marguerite Duras di cui il 4 aprile si è celebrato il centenario della nascita, è la sua voce. Calda, carezzevole, seduttiva, impressa nel ricordo dai suoi film, per esempio Le camion, o da interviste catturate su France2. La voce che risuona nei suoi libri, in quel ritmo inconfondibile che genera il fascino della sua scrittura.

Una voce, una lingua che ho ritrovato immediatamente in Marguerite, il romanzo di Sandra Petrignani che ne racconta la vita. Non che Sandra scriva in stile Duras o perda la propria fisionomia d’autrice. Anzi. Si può dire al contrario che questo romanzo è un nuovo tassello in quella speciale abilità di Petrignani per l’attenzione amorosa alla scrittura di un’altra, già messa in gioco in La scrittrice abita qui. È la costruzione di una scrittura lieve e attenta, strumento fine di analisi e nello stesso tempo di costruzione narrativa, che nel suo stesso svolgersi coglie il punto essenziale, per Marguerite Duras la coincidenza di scrittura e vita.

E sono tre le Marguerite al centro del romanzo, a ognuna di loro è intitolato un capitolo. Nenè, la bambina l’adolescente la figlia, Margot, la donna l’amante la moglie, Duras il personaggio l’autrice lo stile. Di cui lei stessa parlava in terza persona. Negli scambi tra questi figure molteplici, immagini di un io multiforme contemporaneamente fragile e imponente, si snoda la storia e le vita di questa donna unica nel suo talento eppure comune, nell’essere dominata e ancor più ribelle a quella legge che regola la vita delle donne, la legge dell’amore. Amore per gli uomini, amore per la madre. Amori contradditori, spesso confusi.

È nei giorni della malattia e della morte della madre che si apre il romanzo, nel viaggio attraverso la Francia insieme a Gerard, il suo compagno. Un viaggio alcolico, segnato da lunghe soste e ripensamenti. Arriverà solo per seppellirla, Marie Donnadieu, la giovane donna avventurosa che aveva assecondato la sua fascinazione per l’esotico, sulla scorta dei libri di Pierre Loti, andando a vivere in quella che allora, nel primo decennio del Novecento, era la Concicina, l’attuale Vietnam. Marguerite prova pena e dolore per lei, eppure ne ha costruito un mito negativo, in La diga sul Pacifico, il mito di un’impresa disperata e una povertà senza rimedio, alimentato per tutta una vita. Ma scrivere non è mentire? O meglio inventare mondi che trasfigurano la vita reale? E non è questo un incredibile potere? Eppure fuggevole, come acqua che scorre tra le mani?

Di questo parla Sandra Petrignani, nel ri-tessere la trama della vita di questa scrittrice così amata. Della potenza della parola scritta, e della sua inafferrabilità. Di una donna che avuto centinaia di amanti, che ha vissuto nell’amore, fino all’ultimo compagno, Yann Andrea, così giovane, così pazzo di lei.

Di una donna minuta e bellissima, capace di seduzione e incanto anche quando distrugge il proprio corpo, nell’alcool che induce a vivere fuori ogni misura. Di una scrittrice, sceneggiatrice e regista adorata da intellettuali di cui era la voce sinuosa e ammaliante. Di una donna che per la scrittura tradisce, sempre. Per esempio il marito Robert Antelme, quando in La douler ne racconta il duro ritorno dal campo di concentramento. E da cui tutti si sentono traditi, anche lettori e lettrici di una vita, quando arriva al successo popolare, lei che sembrava illeggibile per chi non fosse parte di un élite raffinata, con L’amante, il libro, il film. Una storia d’amore. Impossibile. Perché c’è sempre una storia da inseguire, da scrivere, perché ogni volta ci sono apparizioni, e vuoti, che non si possono colmare.

«Siamo condannati all’impossibilità di raggiungere una qualche verità nella vita» scrive acuta Sandra Petrignani. «Marguerite accresce l’inquietudine, non spiega niente, avvicina gli incubi, esplora il vuoto, illumina i frammenti di materia, di vita, che vi nuotano dentro».


PETRIGNANI E “MARGUERTE” ALLA RICERCA DI DURAS (20/4/14)

di Roberto Cotroneo sul Messaggero

Ci sono scritture che si sovrappongono ad altre scritture. Come scrivere su un foglio dove qualcuno ha già scritto e confondere le calligrafie, mescolare le parole, allargare il romanzo come una spiaggia che ha bisogno di ancora più profondità. Sandra Petrignani mi dà questa sensazione: quella di una che combatte contro le maree, non quelle che costringevano la madre di Marguerite Duras a costruire dighe sul Pacifico, Ma quelle maree che si mangiano la spiaggia della letteratura. Perché oggi è tutto consumato, tutto più sottile, con poche cose. E quando cammini sulle spiaggie letterarie di oggi c’è sempre qualcuno di più vecchio che ti dice: vedi qui? Qui la sabbia arrivava fino là in fondo, e ci si poteva fare una partita di calcio tanto era profonda. Adesso il mare si è mangiato tutto. Non potresti metterci neanche due file di ombrelloni.

Il mare si è mangiato tutto. Le vite, le intensità, le insensatezze. Non c’è più alcol, sesso e non c’è più crudeltà, non ci sono luoghi e miserie, malattie e drammi della storia. Non c’è più tutto quello che Sandra Petrignani ricostruisce nel romanzo Marguerite (Neri Pozza, pp.212, euro 16.00), come si potrebbe dire: liberamente tratto dalla vita e le passioni di Marguerite Duras. Il mare si è mangiato tutto e l’unico modo è fermarlo, con una diga che trattenga le inondazioni di indifferenza, di buon senso, di quella letteratura compitamente intellettuale e letteraria da un lato, e fintamente provocatoria dall’altra: di quel crudo realismo che non ha niente di reale e tantomeno di crudo.

Duras la conosciamo. Tutti la conoscono, anche chi non l’ha mai letta. Persino chi non ha mai neppure visto il film di Jean-Jacques Annaud, L’amante: Duras irritante e retorica, innamorata di se stessa e incontenibile, impegnata quanto basta perché il mondo si impegnasse ad accorgersi di lei, egocentrica e anche persino facilona, per certi versi, antipatica e selvaggia. Solo un uomo paziente, dalla voce sottile e disponibile come il suo editore Jérôme Lindon poteva reggere (e ha retto fino a un certo punto) le sue impuntature, il suo essere sempre su un crinale incerto, la sua diffidenza per gli intellettuali e quel suo modo arcaico di calpestare il mondo. Ma era una grande scrittrice, Duras. Oltre che una grande donna. Una capace di trovare sulla spiaggia della letteratura la sabbia più abbagliante, le conchiglie più colorate e sorprendenti. Una che viveva per raccontare.

Sandra Petrignani lo sa. Sa bene che questa sua lotta per ritrovare i paesaggi che si vanno perdendo è quasi un’impresa disperata. Lo aveva fatto con La scrittrice abita qui, ma ancora di più in Addio a Roma, lo fa con questo libro. Non c’è più quel mondo e non c’è più quella maniera di essere scrittori e intellettuali. Non c’è neppure quel modo di amare, di guardarsi, e quel modo di piacersi. Quel modo che era di Duras, e di tutti gli altri. Ma non c’è nessuna nostalgia in questo bel libro. C’è una feroce sistemazione di quel disordine intellettuale e letterario, importante per rendercelo comprensibile. E non c’è nulla di didascalico, nessuna linearità. Qui Duras ti avvolge con la sua vita e attraverso continui salti temporali si cerca una risposta alla crisi della letteratura e dell’autorialità. Karl Weick, il sociologo e studioso delle organizzazioni, si chiedeva: «Come faccio a sapere quello che penso se non ascolto ciò che dico?».

La poetica di Sandra Petrignani e nel racconto di Duras. Non leggerete una biografia. La biografia è un arredamento per far muovere i personaggi. È un po’ di quella spiaggia che la Petrignani vuole salvare in un modo o nell’altro. La scrittura di Duras è un riflesso: specchiandosi l’autrice di Marguerite si interroga sul suo sguardo di scrittrice. Un riflesso che dà più profondità a quella spiaggia sempre più sottile. Aspettando che la marea si ritiri e lasci agli scrittori e ai libri lo spazio che meritano, in questo mondo smarrito.


Margot, scrittrice e amante

una vita di parole e dolore

SILVANA MAZZOCCHI su Repubblica Sera

Scarica il PDF

Scarica il PDF


Maggio 2014

Sonia Gentili su Il Manifesto

Dal 28 aprile è nelle sale la copia restaurata dello stupendo film Hiroshima mon amour (1959) di Alain Resnais. L’immagine iniziale di due corpi avvinghiati evoca, col disastro di Hiroshima, le due vicende d’amore e morte intrecciate nel film – quella che un’attrice francese, in Giappone per un film, vive con un uomo del posto, e quella della perdita, che la stessa attrice ricorda, del suo innamorato tedesco nel corso della guerra. La sovrapposizione di tempi e di personaggi è un tratto peculiare del linguaggio di Marguerite Donnadieu, in arte Duras, cui si deve la sceneggiatura del film, e che il 4 aprile avrebbe compiuto cento anni. Per ricordarla, in Francia si sono pubblicati volumi vari, tra cui il terzo tomo delle sue opere nella Pléiade e una nuova edizione della monumentale biografia di J. Vallier (C’était Marguerite Duras, Livre de Poche, 2014); in Italia, oltre a qualche nuova traduzione (Moderato cantabile, tr. R. Postorino, ed. Nonostante; le due sceneggiature Il camion e Agatha raccolte nel volume La ragazza del cinema, tr. A. Molica Franco, pref. S. Petrigniani, Del Vecchio editore; ma molte opere restano esaurite in edizione italiana), si è avuto un notevolissimo romanzo sulla sua vita, firmato da Sandra Petrignani (Marguerite, Neri Pozza). Il circolo vizioso vita-letteratura, diciamolo subito, si deve a Duras stessa, ed è il suo capolavoro.

Le opere di Marguerite Duras – romanzi noti come Una diga sul pacifico (1950), il tardo bestseller planetario l’Amante (1984), e poi moltissimi altri testi, film e pièces teatrali – esercitano sul lettore / spettatore un effetto di serialità poiché ripetono, pur nella variazione, la storia familiare dell’autrice. Sullo sfondo di una natura che produce abbondanza di vita e con la stessa abbondanza uccide, si disegnano le solitudini dei membri della famiglia, ciascuno dei quali è trascinato da un suo impulso di dissipazione: la madre, dominata dall’amore per il maggiore dei suoi figli e dallo sforzo ossessivo di addomesticare la natura e coltivare la terra-; il fratello maggiore, occupato a tradire tutti per soddisfare la propria avidità di vita; lei, la ragazza non abbastanza amata dalla madre, che scopre l’oltranza del desiderio col primo amante. La variazione principale di questo quadro fisso, ossessivamente ripetuto di opera in opera, è geografica: va cioè dalla geografia di un passato originario – la regione francese del Lot-en-Garonne e del villaggio di Duras, luogo d’origine del padre Henri Donnadieu da cui la scrittrice trasse il nome d’arte – alla geografia reale del vissuto – l’Indocina francese in cui Marguerite crebbe. Questa ripetizione nella variazione è, dunque, iniziale allontanamento del vissuto durassiano nel tempo mitico delle radici francesi e paterne, e poi, di opera in opera, progressivo ritorno verso la biografia reale dell’Indocina, segnato in modo definitivo e totale dal più noto dei suoi romanzi, l’Amante. Lo schema di Hiroshima mon amour, quello di un vissuto che si ripete sovrapponendo due luoghi e due situazioni – una passata e una presente- ha la sua chiave di comprensione nell’opera durassiana, dove passato e presente, storia collettiva e storia individuale, macrocosmo naturale e microcosmo individuale si strutturano non nella progressione lineare ma nella concentricità della ripetizione: al centro di tutto c’è uno stesso movimento vitale, uno stesso desiderio di esistere che si ripete e fallisce, costantemente, fino a chiudersi in se stesso e in una radicale solitudine. Questa assolutizzazione del desiderio vitale come corto circuito di vita e morte, questa solitudine come attesa assoluta dell’altro, che al contempo isola e mette in comunicazione personaggi, esperienze ed epoche diverse è la via attraverso la quale Duras accede al nouveau roman (svolta segnata nel 1958 da Moderato cantabile): nel 1979 un solo titolo, Aurélia Steiner, intitola tre testi collegati e percorsi da tre vicende parallele, in cui una medesima perdita, variata nel tempo e nello spazio, si ripete sotto lo stesso nome: Aurélia Steiner è una ragazza che attende l’amante perduto da cui epoche e spazi ignoti la separano, è una donna il cui corpo giace riverso nel cortile del lager, uccisa col suo amante per aver cercato di salvare la loro neonata, che giace ancora viva accanto a lei, ed è una bambina ebrea che aspetta con sua madre di essere deportata dai tedeschi. Sin dall’inizio, nelle parole che Aurélia indirizza all’amante perduto, le tre storie sono misteriosamente coincidenti, in una dimensione sospesa tra la reminiscenza e il rispecchiamento («dicono che è stato nei crematori – sapete, dalle parti di Cracovia – che il vostro corpo è stato separato dal mio… come se questo fosse possibile… parlano a vanvera… non sanno niente…»). Anche le parole, in Duras, sono conseguenza della solitudine irreversibile provocata dal desiderio. Invariabilmente ed originariamente, nel mondo durassiano, la voce umana è urlo che riempie il vuoto del desiderio: sia in Una diga sul pacifico che nell’Amante la madre, assopita, si riscuote ed urla quando il desiderio rinasce dalla momentanea stasi come angoscia. La voce e la parola nascono nel vuoto prodotto dal desiderio, abitano il suo territorio desertificato, occupano le enormi distanze che separano il personaggio dal mondo o da un altro personaggio. In sostanza, come la dinamica vitale del desiderio, della ripetizione e del fallimento si dà ogni volta col valore iniziale di una scena “primaria”, così la parola, ogni volta che è proferita, emerge dalla sua lotta primordiale col silenzio: da qui nasce la fisionomia assoluta ed essenziale del linguaggio durassiano, la sua musica particolare e spezzata, assediata dal silenzio come lo è nel vissuto la parola pronunciata. Questa genesi del linguaggio che è nascita della voce in lotta col silenzio originario vale anche per la parola letteraria e la scrittura (M. Duras, Scrivere [1993], tr. L. Prato Caruso, Feltrinelli, 1994: «Esser soli con il libro non ancora scritto, significa trovarsi ancora nel primo sonno dell’umanità. Significa anche esser soli con la scrittura ancora incolta. Significa tentare di non morirne»)

La riduzione del tempo storico a dialettica esistenziale tra desiderio vitale e morte svolge la stessa funzione di retrocessione della lingua alla sua originaria lotta col silenzio solo in un altro grande scrittore eccentrico e “coloniale” del Novecento francese: Albert Camus.

La dimensione originaria dell’esistenza come corpo a corpo con una natura – mediterranea in Camus, asiatica in Duras – che vivifica e distrugge comporta, in entrambi gli scrittori, la retrocessione della parola alla sua origine: ai molti mutismi dei personaggi che popolano l’autobiografia algerina di Camus (il mutismo timido e illetterato della madre, il mutismo balbuziente dello zio, le poche parole autoritarie della nonna) si affiancano idealmente i mutismi, le solitarie urla, o la ripetizione di poche frasi ossessive dei personaggi durassiani. Duras e Camus retrocedono dal materialismo storico all’esistenza, dall’“io” idealistico all’individuo concreto: partono cioè dalla solitudine dell’individuo in carne e ossa, riformulando la mediazione tra il singolo e la storia. Un certo pensiero antropologico – ad esempio quello di Ernesto De Martino, cui non a caso l’idealista Croce negò ogni statuto filosofico – ha individuato questa mediazione in un momento fondativo ed originario di unità tra l’individuo e il tutto naturale: il piano della «metastoria mitico-rituale», motivo filosofico centrale degli scritti di Camus che descrivono la relazione tra l’uomo e il paesaggio algerino prodotti tra il 1936 e il 1953, poi riuniti in Nozze e in Estate. La percezione della natura africana – il deserto, il mare – riconduce l’uomo alla coscienza di essere vivo, in relazione con ciò che rende la sua vita un fatto presente. La vita è «solarità tragica», «pienezza angosciante» in cui tutta la storia si azzera e rinasce concretamente, individualmente, misteriosamente nel rapporto tra natura e singolarità concreta. È questo il senso del titolo che Camus diede al suo ultimo romanzo, pubblicato postumo nel 1994: Il primo uomo è l’individuo còlto nel concreto assoluto della sua esistenza, così chiusa nel presente da rendere il figlio che visita la tomba del padre morto in guerra a vent’anni per sempre «più vecchio» del defunto. Lo stesso vale per le varie Aurélia –madre, figlia, amante – che formano le tre storie di Aurélia Steiner, o per i due corpi metastoricamente accostati nell’amore e nella morte, nei film Hiroshima mon amour e in India Song (1975): nella ripetizione dell’eterno presente vitale non c’è spazio per la progressione della storia.

Intervista a Sandra Petrignani, autrice di Marguerite, Neri Pozza, 2014:

Gentili: In che modo Marguerite Duras è divenuta un tuo personaggio?

Petrignani: Ho sempre letto cercando nei libri il rapporto intimo con l’autore. Non mi interessano gli scrittori di trame, ma quelli che lavorano con l’inconscio, che lo esprimono attraverso lo stile e l’immagine: in questo senso il rapporto con la biografia di un autore è sempre stato per me naturale. Nella lettura di un libro si entra in rapporto con un tipo psicologico, con un carattere, si entra in profonda sintonia con un autore. La mia famiglia, penso talvolta, sono gli scrittori che amo. Mi chiedono se la mia Marguerite è davvero Duras… altri l’avrebbero raccontata diversamente; c’è sempre un’appropriazione indebita, forse, quando si usano le vite vere. Giorgio Manganelli sosteneva che della biografia di chi scrive non deve importarci nulla; in realtà, se si legge la sua di biografia, l’opera di Manganelli si percepisce diversamente: in modo più carnale e commovente.

Gentili: Che rapporto c’è tra scrittura e vissuto, in Duras?

Petrignani: Duras ingaggia un corpo a corpo con la propria autobiografia in tutta l’opera. Nell’assenza della persona e nella presenza della scrittura c’è l’io dello scrittore, e c’è l’invenzione dell’altro. L’amore, in Duras, per esempio, è invenzione dell’altro: che è poi la verità profonda dell’innamorarsi. L’invenzione dell’altro, il gioco tra assenza e scrittura è per me la chiave per capire Duras, ed è il modo in cui io l’ho reinventata. Quando scrivo mi servo spesso di destini “preconfezionati”, che mi sollevano dal problema d’inventare una trama. Nelle Navigazioni di Circe, il mio romanzo d’esordio [Theoria, 1987], il personaggio principale non ha un destino bell’e fatto, ma è un mito in cui si condensa il percorso storico del mio personale femminismo, e del femminismo di quegli anni, dalla furia del consumismo sentimentale alla scrittura. Anche in Vecchi [Theoria,1994], uso destini già dati – vecchi veri, che ho incontrato per strada o nelle case di riposo. E nella Scrittrice abita qui, naturalmente, dove si muovono Karen Blixen piuttosto che Virginia Woolf, Yourcenar come Deledda.

Gentili: Qual è stato il tuo corpo a corpo con la scrittura e con la temporalità di Duras?

Petrignani: C’è stato un momento, all’inizio, in cui involontariamente riproducevo la musica del suo stile, spezzature che erano un’eco della sua scrittura; poi me ne sono difesa. È come con la poesia: rischi di più quando ti lasci guidare dall’inconscio. Questo è anche il fascino delle opere di Duras: non puoi seguire un suo film se non ti abbandoni al flusso del linguaggio, a ciò che lei sa scatenare nell’inconscio dello spettatore. Personalmente ho elaborato una forte sensibilità per il tempo interno attraverso la psicanalisi, ma anche, semplicemente, attraverso il mio rapporto con la realtà, che non è di tipo razionale. Ho sentito in Duras – e forse ho anche attribuito a Duras – la mia richiesta spropositata di amore verso la madre, la sovrapposizione tra amore passionale e amore fraterno, e soprattutto la consapevolezza totale della fine delle cose, tema molto poco di moda: oggi viviamo in un bozzolo consolatorio e superficialmente dimentico delle cose ultime. In qualunque momento, anche nel momento della felicità, invece, Duras sa sempre che la verità della vita sta nella sua fine. L’orrore della natura in India Song, nella Malattia della morte e in tutta la sua opera è questo.

Gentili: Possiamo dire che il percorso che va da Duras a Petrignani è quello che va dalla Malattia della morte alla verità della morte?

P. Forse sì. Comunque suona bene!


Marguerite nonostante Duras

di Nadia Tarantini su LEGGENDARIA n.105

La coglie a metà della vita, nel momento in cui sta perdendo sua madre. Ne afferra i pensieri scomposti, le catene associative che l’evento solleva come nugoli di mosche. È spezzata la scrittura, così come l’animo di Marguerite, che a quel momento chiamano Margot. E che, nel mettersi in contatto con la morte della madre, ridiventa Néné. Abituata a corteggiare i luoghi dove le scrittrici si sono fatte se stesse, appassionata, insieme, ai racconti d’epoca e alle individuali storie d’amore – Sandra Petrignani approda a Nené – Margot – Marguerite – Duras con un bagaglio ricco, con una scatola degli attrezzi (come direbbe Stephen King) ricchissima. Chi, se non lei?

Autrice, oltretutto, di uno straziante romanzo dagli echi durassiani, Dolorose considerazioni del cuore, che nel suo discostarsi dalla cifra abituale di Petrignani, più sorvegliata (ma tuttavia ogni volta vibrante), rivela un innamoramento intimo e persistente per quel genio contraddittorio e indimenticabile che è stata Marguerite Duras. Affiora nel romanzo l’eco della «cantilena Duras», un modo di scrivere che si può imitare ma non riprodurre (come scrive la stessa Petrignani). Rotolante dentro i meandri della coscienza; e insieme attento a ogni muovere di foglia del mondo, dell’ambiente, delle persone fuori di lei.

Gli andirivieni del tempo

La scrittura di Petrignani, dunque, rincorrendo la vita/opera di Duras (come scinderle?), si specchia in se stessa e si rincorre: da un anno all’altro, tornando indietro; fermandosi e aprendo spaccati triangolari nel tempo lineare, buoni a fissare un personaggio, un clima, una situazione. Ripetizioni volute nel suo rammemorare e rammemorarsi (ritrovare le radici delle proprie emozioni nelle pagine lette): come quando in un chiacchierare fra amiche riprendiamo la trama che abbiamo lasciato a metà per esplorare un sentiero laterale, un grandangolo. Senza il quale la storia che stavamo narrando sarebbe restata piatta, esteriore.

Un libro che Petrignani ha tenuto nella pancia (nella mente, nel cuore) per quasi vent’anni, di cui ha coltivato la fattura in altri momenti, cercando e pensando. E che più di una volta le è venuto incontro da sé, per straordinarie coincidenze: come quando, pur avendo dovuto rinunciare a Duras nei pellegrinaggi de La scrittrice non abita più qui (di Duras non c’era una casa-museo), proprio per quel libro è stata invitata in Vietnam da un diplomatico che le ha chiesto di presentarlo a Saigon. E, perciò, la scrittura appare spontanea, nonostante si veda la poderosa conoscenza profonda della scrittrice e di tutti i contesti narrati.

Sottotesto al racconto della vita di Nené – Margot – Marguerite – Duras è un panorama abituale per la scrittrice piacentina (e romana, e umbra di residenza). Lo svolgersi dei movimenti culturali, l’aggregarsi di creatività e talenti in un determinato momento storico. I conflitti, i pettegolezzi rivisitati o piuttosto de-mistificati, il giro della vita vera sotto la patina della celebrità. Ma al centro della storia resta ciò che fa la storia: il nucleo di passione/passioni che segna una vita.

Accende una sigaretta, appoggia un braccio nel vuoto del finestrino e guarda fuori la notte. Le parole si perdono, Gerard ricostruisce il discorso a spezzoni, ma non la interrompe; poi si concentra sulla strada e quel che racconta Marguerite è un borbottio indistinto di cui gli arrivano chiari i temi, perché li conosce. Sono sempre gli stessi, quelli della sua vita, quelli dei suoi libri. Sette ne ha scritti. Ha quarantadue anni Marguerite e non è ancora guarita dall’infanzia. Lui ne ha nove di meno.

Genialità e bisogno d’amore

Gerard Jarlot e Marguerite sono in viaggio dalla Costa Azzurra alla Valle della Loira, dove Marie, la madre di Duras, sta morendo forse è già morta, il telegramma ci ha messo giorni a essere re-indirizzato da Parigi. È un agosto che brucia di una passione spudorata fra loro, stanno insieme da due anni nell’indifferenza della moglie di Jarlot, Eva, che gli ha dato tre figlie. È la loro prima vacanza insieme. Benché Nené, a sedici anni, abbia conosciuto carezze esperte ed indimenticabili narrate nel suo romanzo più famoso, una passione esemplare che ha conquistato milioni e milioni di anime amanti (o desiderose), solo ora che ne ha quarantadue sperimenta un fare all’amore che è un «appropriarsi dell’altro», fino a farsi del male: «questa guerra dichiarata, questa attrazione di ogni momento senza tregua». Ma anche se praticano il pissing, anche se lui le stringe la gola per farla godere come in un film erotico, la base di quella passione smodata è uno squilibrato rapporto di forze: dove la scrittrice grande e geniale, la conversatrice di straordinaria brillantezza, «Deve farsi perdonare di essere com’è, che le importa solo di scrivere». Deve scambiare con passività e dolcezza – entrambe le possiede, non ha bisogno di mascherare la sua anima – la superiorità sul suo amante, scrittore/giornalista ammiratore della Duras.

Siamo appena a pagina 23 e già Sandra Petrignani ha messo a fuoco il conflitto fra genialità incoercibile e disperato bisogno d’amore, che squasserà la vita di Marguerite Duras producendo le sue enormi sofferenze – e le sue opere grandiosamente umane. Già in questa prima parte del libro, intitolata Nené, dove attraverso l’evento capitale della morte della madre Marie entriamo nell’infanzia di Duras, è avvenuta la contaminazione, l’osmosi che dichiaratamente Petrignani celebra nella scrittura del romanzo. Non ci dirà quali frasi e quali pensieri ha rubato alla sua autrice, né quelli che sono del tutto suoi; e neppure ci grazierà dei consueti indicatori (le citazioni tra caporali, le libere associazioni senza segni grafici). Si prende la libertà di mescolarli e ammicca alla lettrice, al lettore altrettanto appassionato, perché li discrimini. Solo così sarà davvero un romanzo.

Una trama piena di echi

La trama dunque è libera, si compone per blocchi che a loro volta contengono residui, tracce, echi, anticipazioni di altri blocchi. Nené l’infanzia, Margot la vita piena, Duras la fama e l’ultima parte della vita. Personaggi che tornano in ogni momento, perché costitutivi dell’identità privata/pubblica della scrittrice: Antelme (Robert) e Dionys (Mascolo), l’uno marito ma non padre e l’altro padre non marito di Jean Mascolo (Outa), il suo unico figlio, concepito quando tutti e tre potevano dormire nella stessa casa. Pierre, il fratello amato/odiato, sua costante preoccupazione. E, sempre, dalla prima all’ultima pagina, la madre Marie. Sono la carne delle giornate di Duras, sono le persone per le quali cucina pasti deliziosi; quelli che conoscono gli abissi e i cieli dei suoi umori. Che, lo vogliano o no, si fanno carta e inchiostro dei suoi libri. Come Marie, che non le perdona il tradimento della propria storia in tanti suoi romanzi e racconti (è provato che, a partire da La diga sul Pacifico, Marguerite abbia tramato contro sua madre a favore del risultato letterario dell’opera). E che non la vorrà più vedere negli ultimi due anni della sua vita. Come Robert, «il più importante», che resta atterrito e sconvolto per la descrizione del proprio corpo – fino ai più intimi umori odori e sapori, fino agli escrementi – in un racconto di Duras, in una storia che lo coglie al ritorno dal campo di sterminio dal quale non sarebbe dovuto uscire vivo.

Ma c’era qualcosa di più importante di Robert per Marguerite Duras: scrivere. E scrivere per lei significava dire la verità estrema, quella nascosta, che affiora quando intorno è il vuoto, il deserto del pensiero, della compagnia, e resta solo la parola, la più precisa, l’unica. (…) «Bisogna essere più forti di quel che si scrive. Perché scrivere è sempre una porta aperta verso l’abbandono, è gridare senza fare rumore. Sono disposta a pagare qualsiasi prezzo per aver osato uscire e gridare. Anche quello di perderti, perdere te, il più importante».

Margherite nonostante Duras

È vero, lo diranno i critici e i lettori, che Marguerite di Sandra Petrignani, pur essendo un romanzo, è una straordinaria, e molto bella ricostruzione della vita e dell’opera di Duras, di una o più epoche: pensate che era nata nel 1914, nell’Indocina francese, prima della prima guerra mondiale; ed è morta nel 1996, dopo due guerre e varie rivoluzioni, compreso il Sessantotto in cui recupera a 44 anni la sua giovinezza appartata; pensate che nella sua vita ha vissuto la nascita la crisi e le resurrezioni del comunismo, almeno di quello che intendeva lei; che si è salvata da un alcoolismo mortale, da una crisi respiratoria incoercibile, da un coma disperato. Che ha dialogato con Lacan, che ha cenato e si è confidata con Jeanne Moreau, che è stata intima amica di Sonia Orwell, moglie dell’autore di 1984 e de La fattoria degli animali. Che i suoi amori sono stati leggendari, dal primo segreto e scandaloso all’ultimo scandaloso ed esibito (con Yann-Andréa, che ha trentotto anni meno di lei). Che tutto questo Petrignani lo sa raccontare facendoti tenere il fiato sospeso, andare avanti e tornare indietro, per riassaporare qualche episodio, riannodare qualche treccia a tre, a quattro o cinque fili. Eppure niente di tutto questo fa, veramente, la bellezza di questo romanzo; quanto l’essere riuscita a ribaltare l’immagine di Marguerite Duras, che i suoi libri e la sua vita, i suoi film con tutti quei neri e quelle ombre, le sue aspre dichiarazioni e i suoi pubblici e privati conflitti, hanno inevitabilmente incardinato dentro di noi. E di averle invece restituito luce, vitalità, dolcezze e gesti di commovente tenerezza; e tutto insieme al resto. Fino al racconto delle sue case arruffate e accoglienti, piene di angoli per ospitare, con al centro la cucina e i suoi attrezzi, i ciuffi di lavanda seccata e le macchinette del caffè: nell’ultimo capitolo (La storia di questo libro), compimento non solo di Marguerite, ma anche del desiderio da cui questo romanzo è nato, il mancato pellegrinaggio di Petrignani nei luoghi intimi della scrittrice forse da lei più amata.

E ci riesce, a illuminare Marguerite nonostante Duras, perché da lei apprende quella necessità che le fece gettare a mare il primo e unico libro che stava componendo con suo figlio, Jean detto Outa, fatto di fotografie e scrittura. Dal tradimento del figlio nacque L’Amante, storia della foto che manca, la foto che può spiegare una vita. «È ciò che non c’è o non accade che fa scaturire una storia, non l’episodio in sé, ma tutto ciò che gli sta intorno e non si vede».


Alla scoperta di Marguerite Duras in un ristorantino di Parigi

di Mario Lavia su DONNAEUROPA

Un nuovo saggio di Sandra Petrignani, Marguerite, la racconta come una donna strana e geniale. E le testimonianze della scrittrice francese, vitale e intrinsecamente drammatica, si ritrovano sui muri di un locale francese come nel cuore dei suoi lettori

Ora non ricordo esattamente quando, gironzolando per Parigi stanco morto come ogni turista, decisi di andare a cena in un piccolo ristorante vicino Saint Germaine des Prés, fatto sta che entrammo e ci sedemmo a un tavolo nell’angolo. Atmosfera molto Quartiere latino, era un ristorante vecchiotto, ai muri tante fotografie, biglietti, autografic di intellos di decenni prima, d’altra parte si era a due passi di luoghi dove nei Quaranta e nei Cinquanta c’erano state le leggendarie caves degli esistenzialisti, del jazz, del fumo, degli artisti col colloalto nero. Bene, accanto a me c’era una fotografia, in bianco e nero, di una donna anziana, bella, gli occhi sottili, e sotto la sua firma: Marguerite Duras. Ah, questa la conosco, Marguerite Duras, la scrittrice de L’Amante!

Ma quella foto non era come le altre. Entrava direttamente in rapporto col ristorante, come fosse stata una cliente fissa. E infatti, seppi dopo, lo era stata veramente! Perchè la Duras abitava proprio di fronte, nella stessa rue St.Benoit – e il ristorante aveva proprio quel nome. Avendo una specie di soggezione per i grandi della letteratura, specie a Parigi dove ogni momento c’è una targa di marmo che ricorda che lì ci è passato Balzac, lì ci ha passeggiato Proust, lì ci ha dormito Baudelaire, da quella prima cena al ristorante di rue St.Benoit mi venne voglia di leggere la Duras (avevao solo letto il più celebre romanzo, L’Amante, appunto).

Via via ne ho letti diversi. In particolare ricordo La vita tranquilla e Occhi blu capelli neri. Non avendo io la capacità né la cultura per azzardare qui altre valutazioni che non siano strettamente legate al mio gusto personale, posso dire che nelle pagine della Duras si agita qualcosa di terribilmente vitale – non saprei come dire – come di una serie di vibrazioni anche molto dolorose e sempre intensissime, anche quelle pù glaciali. Non è facile spiegarsi.

Dicevo di Occhi blu capelli neri, che è un piccolo romanzo che ha per protagonista assoluto l’amore. Ci sono un lui e una lei e c’è una scrittura a scatti, piena di vuoti, intrinsecamente drammatica. “Il giovane straniero raggiunge la giovane donna. Come lei, è giovane. È alto come lei, come lei è in bianco. Si ferma. L’aveva perduta. Per il riverbero che viene dalla terrazza i suoi occhi fanno paura tanto sono blu. Quando si avvicina a lei, si vede che è al colmo della gioia di averla ritrovata e dall’angoscia di doverla perdere ancora. Ha il pallore degli amanti. I capelli neri. Piange”. Questa è la scrittura della Duras. Sono tratti rapidi, intensi, misteriosi. Chissà cosa la muoveva.

Diversi anni dopo, vidi la magnifica Mariangela Melato recitare Il dolore, opera durissima, e ho capito meglio la grandezza di quella scrittrice. L’angoscia senza tempo che ne pervade la scrittura. Poi me ne dimenticai, come spesso accade con la letteratura, che non è mai un dimenticarsi completamente perché basta un qualcosa che ecco che si risveglia tutto.

È accaduto così, a me, leggendo il libro di Sandra Petrignani, Marguerite (Neri Pozza) – e invidio molto l’autrice che ha saputo così bene penetrare l’animo della scrittrice francese e raccontarlo a tutti. È un libro molto bello, con un po’ di finzione dentro un ritratto a pennellate forti, sincere: un ritratto di una grande donna, una strana donna, una geniale donna. Va letto, Marguerite, da chi ama già l’opera durasiana come da chi quell’opera ignora. E da chi vuole immergersi negli anni meravigliosi della Parigi intellettuale del dopoguerra, gauchiste e piena di amore , gli anni di una grande illusione – politica, esistenziale, artistica –, le nottate, le riviste, la musica, il cinema, il sesso, il comunismo.

C’è stato davvero tutto questo, ci sono stati davvero i ristoranti pieni di fumo e le discussioni sui comunisti e sull’America. Uno di questi ristoranti, appunto, era il St.Benoit: negli anni, ci sono tornato diverse altre volte, preferendo sempre lo stesso angolo, vicino alla fotografia di una donna con gli occhi stretti, orientali. Chissà se c’è ancora.