Prestigiosa Palma (Il Foglio, 1/6/12)

Prestigiosa Palma (Il Foglio, 1/6/12)

 

«Farò di te un capolavoro» scrive nel 1938 Paolo Monelli, giornalista prestigioso e scrittore di libri fra cronaca e storia, a una Palma Bucarelli ventisettenne, bella come una diva dei telefoni bianchi. Veramente la frase tutta intera suona così: «Prima di tutto ami te stessa, poi l’amore, poi terzo il povero Monelli… Eppure farò di te un capolavoro». Palma, di buona famiglia e di buone letture, non aveva nessuna intenzione di diventare attrice, come tentarono di convincerla il popolarissimo Mario Camerini, regista di film tipo Gli uomini che mascalzoni, e più tardi un altro Mario, Soldati. No, Palma aveva fatto impegnativi studi di Storia dell’Arte con Adolfo Venturi e Pietro Toesca, si era preparata a un concorso con Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi, che resteranno suoi amici per tutta la vita, parlava bene varie lingue e, soprattutto, aveva un altissimo concetto di sé. Capolavoro, probabilmente, già si sentiva nel lontano 1936 quando, sullo Stelvio, appassionata montanara e sciatrice lei, gran sportivo lui, aveva conosciuto Monelli, 45 anni ben portati, e se n’era innamorata. I coetanei non l’attiravano granché. Veniva da una storia d’amore finita tragicamente con il venerato storico dell’arte Arduino Colasanti 53 anni (lei 22). A un altro valente giornalista, Vittorio Gorresio, suo eterno innamorato non corrisposto, lo descrisse lei stessa così: «straricco d’intelligenza e di denaro». Fu un amore clandestino, perché il professore era sposato e si può supporre che nel suicidio messo in atto nel ’35 avesse avuto parte importante l’insostenibile tensione di quella relazione fatale, dove Palma era affascinata, invaghita, ma forse tentata di tirarsi indietro, e Colasanti completamente perduto. Erano tempi in cui, non esistendo il divorzio, la nuova coppia si sarebbe condannata all’ostracismo sociale.

Anche Monelli era sposato, ma aveva un carattere completamente diverso. Affrontava la vita con umorismo e con il piglio coraggioso e spensierato del grande inviato (dal Mondo di Pannunzio al Corriere della Sera, passando per La Stampa). In un recente volumone edito da Palombi, Palma Bucarelli, immagini di una vita, di Lorenzo Cantatore e Edoardo Sassi, sono raccolte, fra le moltissime altre, le foto che Monelli scatta all’amata accompagnate da spiritosi commenti. In una serie presa a Cernobbio, durante una visita insieme a Villa d’Este nei primi anni della loro relazione, durata fino alla morte di lui (1984), i commenti sono addirittura poesiole: «Guancia di pesca/ quanta civetteria settecentesca! /Ma sul duro il culetto si rinfresca» (perché Palmina è immortalata semisdraiata su panchina di pietra) oppure: «Fiore che cade/ c’è qualcosa, si vede e non si vede/ c’è qualcosa che non persuade» (perché Palmuccia è salita sul piedistallo fra le gambe di un gigante di marmo e ha la testa appoggiata al nudo…bassoventre, diciamo, della statua). E sotto un’altra del 1938, dove lei sorride furbetta in calzoncini corti mostrando cosce abbronzate e sode, Monelli annota: «Fiore di latta,/ porca miseria, piccola civetta/ guarda in due anni come ti sei fatta!»

Le gambe sono molto graziose, il corpo snello, seno piccolo e perfetto (da lui si lascia fotografare anche senza vestiti, ma non perde un’unghia della sua naturale, aristocratica eleganza). Il viso è classico con labbra tornite e naso aquilino che aggiunge personalità, ma sono gli occhi il pezzo forte: fra il grigio e il celeste, cangianti; qualcuno li ricorda viola. Occhi cattivi, che le danno uno sguardo raggelante, a volte. «Gatta siamese» la definisce Ungaretti che la conosce alla fine degli anni Trenta alla galleria La Cometa di Mimì Pecci Blunt, dove i poeti erano di casa quanto gli artisti, e le resta amico per tutta la vita. Alberto Savinio, dei tanti pittori che l’hanno ritratta, ne ha forse meglio centrato l’elemento sfuggente suggerendone la possibile repentina trasformazione in rapace. Oggi il quadro è conservato alla Gnam, Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma, di cui Palma Bucarelli fu la contestatissima regina dal ’42 (ma aveva cominciato ad avervi un ruolo importante già nel ’40) fino al ’75, come sovrintendente e direttrice, sempre abile a sfruttare l’indubbio ascendente che esercitava sugli uomini, soprattutto se anzianetti e potenti, dicevano i tanti colleghi che avrebbero voluto essere al suo posto, dicevano gli artisti che non amava e che trascurava. Ma Palma aveva una sua precisa idea dell’arte e del moderno e la perseguiva con sicurezza, con tenacia, con snobistica indifferenza verso i detrattori del suo operato e pure, all’occasione, con ironica capacità di rispondere anche con ferocia verbale ai colpi, che non le venivano risparmiati. Considerava superato il figurativo, il suo cuore batteva per l’informale. Era disposta ad affrontare il sarcasmo dei giornali, la melma pettegola delle maldicenze per promuovere gli artisti innovativi in cui credeva, Burri, Vedova, Turcato, Pascali, Manzoni…

Dalla sua casa di via Isonzo 2 alla Gnam, in quei primi anni, va a piedi o in bicicletta o con la Topolino che le ha regalato Monelli. Appesi alla parete sopra il divano i suoi ritratti firmati da Savinio, appunto, e da Carlo Levi e Mazzacurati e Dario Cecchi e Leonetta Pieraccini. Uno bellissimo è di Turcato prima che si convertisse all’astrattismo. Nell’estate del 1952 Palma se li porta con sé a un nuovo indirizzo: va a occupare un appartamento all’interno della Galleria. «Un ampio salone con doppia terrazza, camino, angolo studio, camera da pranzo, camera da letto, guardaroba, locali per la servitù e un affaccio spettacolare sui pini di Villa Borghese» descrivono Cantatore e Sassi. E qui la Bucarelli può finalmente dare grandi feste a cui sono invitati Alvar Aalto come Moravia, Salvador Dalì come i Bellonci (fa parte dei primissimi Amici della Domenica che daranno vita al Premio Strega), e Sandro De Feo e Goffredo Petrassi e Alba de Céspedes e Ercole Patti e anche la Morante che non le è per niente simpatica. L’ha conosciuta a Capri e si sono guardate in cagnesco. Palma la descrive «brutta, letteratoide e con una voce sgradevolissima» sempre troppo alta. Ma poi ne leggerà i libri e, almeno come scrittrice, l’apprezzerà. Morante, da parte sua, non doveva stravedere per quella possibile rivale nello charme intellettuale, affettata e altera per giunta, che la stampa descriveva con parole del genere: «Una bellissima ragazza: bionda, occhi azzurri, e un’aria d’angelo sapiente che imbarazza e che stuzzica».

Veramente non sempre i giornali erano così teneri, anzi lo furono sempre meno man mano che Bucarelli diventava un’autorità, e un’autorità allineata a nessun potere politico. Allora la sua bellezza le fu rivolta contro, quasi fosse solo con quella che la gran dama dell’arte si era fatta strada. Eppure aveva anche dimostrato durante la guerra un notevole coraggio e il suo proverbiale decisionismo era tornato utile alla salvezza di tante opere quando, collaborando con Argan e altri funzionari e studiosi (Rotondi, Lavagnino, Rosi, Battelli), si prodiga per la salvaguardia del patrimonio artistico impacchettando con cura sculture e quadri e nascondendoli fuori città in luoghi protetti dai bombardamenti. Ragguaglia per lettera Monelli il 22 agosto del ’41: «Sono in gran da fare a preparar le casse, a far imballare, a compilare elenchi; insomma la Galleria è sossopra e sembra un cantiere. Poi cominceranno i viaggi col camion (forse andrò anch’io o forse dovrò prendere il treno, in ogni modo dovrò essere sul posto per collocare la roba)… Ho una paura terribile che succeda qualche cosa: cattivo tempo improvviso, un guasto agli autocarri, un urto, che so io… faccio orribili sogni di quadri che si sfondano, di sculture che vanno in pezzi e non vedo l’ora che tutto sia a posto».

Altrettanto rocambolesco sarà riportare le opere a Roma per nasconderle in Castel Sant’Angelo, quando i precedenti ricoveri diventano meno sicuri dopo l’8 settembre. Nella sua avvincente biografia, Regina di quadri. Vita e passioni di Palma Bucarelli, uscita da Mondadori due anni fa, Rachele Ferrario fa un racconto dettagliato ed emozionante di quei giorni ed evoca un’intrepida Bucarelli che cela le pagine clandestine de L’Azione, foglio cristiano-sociale, nel cestino della bicicletta e la sera, tornando a via Isonzo dalla Galleria, le attacca agli alberi di Villa Borghese o le infila sotto le saracinesche già abbassate dei negozi. Con queste sue attività si guadagnerà l’epiteto «Palma e sangue freddo» e un ritratto ammirato di Indro Montanelli raccolto in Tali e quali (Longanesi, 1952): «Circolava allora in bicicletta, fasciata in un tailleur grigioverde, con una cintura alla vita fatta di bossoli d’ottone vuoti. Era un modo anche quello per impressionare i comandi germanici che, sensibili com’erano a ogni sollecitazione razziale, dovevano ravvisare in lei, così fiera e guerrieramente vestita, una specie di Brunilde».

Ma intanto l’irresistibile Palma, non contenta di tanti trambusti, pensa di movimentare anche la sua vita sentimentale e si scapriccia un po’ con un vecchio, prestigioso amico di famiglia, Cesare Frugoni, il grande clinico, medico di tanti illustri pazienti, da Mussolini a Togliatti, da Guglielmo Marconi ad Arturo Toscanini. Ha 29 anni più di lei, la gratifica con spericolata ammirazione; Monelli è sempre in viaggio e tenuto in ostaggio da una moglie che non molla. Palma annota nel diario: «Gentile, delicato, mi comincia a piacere. Mi ama come un matto». Insomma, fuoco alle polveri del pettegolezzo. «Il terno a letto» chiosa lo scultore Marino Mazzacurati, lui stesso suo corteggiatore, abile nei giochi di parole quanto Ennio Flaiano e Mino Maccari: è sua pure la definizione di Guttuso «picassata alla siciliana», per dire. Di quei «terni» Bucarelli amerà giocarne parecchi nella vita e circondarsi di uomini galanti tenuti sul filo della speranza (un altro fu il figlio di Adolfo, Lionello Venturi, leggendario antifascista e “pontefice” delle Belle Arti). Con Frugoni la storia proseguì, fra alti e bassi, fino al ’58, anno terribile in cui si aliena anche il fedelissimo Toio, alias Gorresio, che si sposa con una donna che le somiglia. Frugoni invece sposò nel ’65, a 84 anni, la ben più giovane Giulietta Simionato, la cantante, che Palma trova «una palla gelosissima». E del resto la stessa Palma nel ’63 aveva finalmente sposato Monelli, che era rimasto vedovo: eppure si era legata in una relazione sentimental-intellettuale all’amico di sempre, Giulio Carlo Argan (ma «Paolo ci teneva tanto» spiegò anni dopo in un’intervista). La molla di questi amori multipli non sembra essere il sesso. Le piace piacere, non le piace restare sola, e in genere s’innamora di uomini sposati che le lasciano un sacco di tempo per intrecciare contemporaneamente altri flirt. Ma quello con Argan non è un flirt, è una sintonia profonda costruita nel tempo. Hanno la stessa passione per l’arte contemporanea, e posizioni simili. Si spalleggiano, si aiutano, si confortano. Lui non si sente di lasciare la famiglia e così non si oppone alla decisione matrimoniale dell’amata. «Non respingere per il mio, inutile e disperato, l’amore di un uomo che ha più diritti e ragioni di me. Il mio è angoscioso tormento, il suo è certezza morale». Tanto gli resta inamovibile la convinzione: «So che sei stata mia come di nessun altro: nessun possesso avrebbe potuto essere più completo e esclusivo».

E dunque il loro «terno a letto» (e altrove), continuò per il resto dell’esistenza. Mentre intanto Palma costruiva fra baruffe, polemiche, clamorose ripicche la grande collezione della Gnam, teatro di mostre epocali, di annessioni ed esclusioni che rimbalzavano chiassose sulla bocca di tutti negli anni ’50 e ’60 fino al ’75, quando se ne andò a malincuore in pensione.

«Era una donna affascinante e intelligente» ricorda oggi Alfredo Reichlin, «ma era la nostra nemica». Erano tempi di grandi contrapposizioni e il Pci aveva sposato in campo artistico il realismo riconoscendo suo vate Renato Guttuso. Ci si poteva annettere Picasso e conseguenti scomposizioni della figura, ma niente di più. L’astrattismo veniva irriso, in quanto lontano dalla comprensione delle «masse». Si creò in Italia una curiosa situazione. C’erano dentro il partito molti artisti «sperimentali», come Consagra, come Carla Accardi e suo marito Antonio Sanfilippo e Turcato e Perilli e Dorazio e Scialoja e tanti altri che considerando rivoluzionario il Pci non capivano come non si aprisse alle novità che si diffondevano in tutto il mondo in campo artistico. Non restituivano la tessera e non venivano cacciati, ma polemizzavano in continuazione, e venivano umiliati e presi in giro sull’Unità e su Rinascita, soprattutto dal critico ufficiale della stampa di sinistra, Antonello Trombadori, che spandeva dileggi e scomuniche ferocissime. Palma Bucarelli, che stimava e promuoveva quegli artisti invisi, finiva regolarmente nel tritacarne.

Dopo un parapiglia di male parole e botte scoppiato in occasione di una mostra di Corrado Cagli, sostenuta dal Pci, per cui erano finiti tutti al commissariato, la frattura fra i due schieramenti diventa irrimediabile. «Fate scarabocchi» insolentisce Guttuso che pure fino a quel momento aveva incoraggiato e aiutato generosamente i giovani ribelli. Scende nella mischia dalle pagine di Rinascita Togliatti in persona che maledice gli innovatori con parole di fuoco: «orrori e scemenze… raccolta di cose mostruose…come si fa a chiamare Arte e persino Arte Nuova questa roba…» Era il novembre del 1948, l’arte nuova aveva una lunga strada davanti a sé e una grande alleata in Palma Bucarelli, che Guttuso odiava perché non gli aveva mai dedicato e mai gli dedicherà una personale.

Alla Gnam saranno presentati negli anni Picasso e Scipione, Gino Rossi e Calder, Pollock e Burri, Kandinsky, Paolini, Klee l’Arte Povera, Ettore Colla,  Pino Pascali, Capogrossi, Umberto Mastroianni… Tutti avvenimenti che fanno scalpore, ma mai quanto la scandalosa «Merda d’artista» di Piero Manzoni esposta nel ’71. Dentro il celebre barattolo con quella etichetta non c’è niente, ma nessuno ci crede.  Il caso finisce in Parlamento al grido: «come vengono spesi i soldi degli italiani?» e passa in secondo piano il fatto che la madre dell’artista abbia per l’occasione regalato cinque opere del figlio alla Galleria. Spesso Palma, a corto di soldi pubblici, usava il suo ascendente o il suo potere promozionale per convincere grandi artisti a fare donazioni e acquisendo così opere che altrimenti non si sarebbe potuta permettere.

Ma c’era un altro grande nemico, e non per questioni di scelte artistiche, bensì personali: Giorgio De Chirico. Palma lo stimava, ma non abbastanza secondo l’ipertrofico, sensibile ego del Maestro metafisico che bollò la Galleria come «Museo degli Orrori» e la Bucarelli come «Amazzone delle croste». Nelle Memorie della mia vita (Bompiani) la definisce «ardente sostenitrice di tutte le più brutte, trite, noiose e sceme manifestazioni della cosiddetta arte moderna». Nulla comunque rispetto alle campagne denigratorie che le riservava la stampa di destra, giornali scandalistici e umoristici come Il Borghese e il Candido, dai quali era stata soprannominata «la Callas dell’astrattismo» o «Palmina dei Sacchi» (a proposito della sua passione per Burri), «maturetta e vezzosetta», «colei che tiene il verbo dell’estetica nella scatoletta della cipria».

In effetti cosmetici e bei vestiti erano un’altra passione di Palma. Tanto che arrivò a sognare di aprire la Galleria al lancio di una nuova marca americana di rossetti o alle stoffe artistiche delle sue amate Sorelle Fontana. Ma non se ne fece niente: una simile leggerezza era davvero troppo in anticipo sui tempi.

 

 

 

 

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