Maria Montessori (Il Foglio, 8/8/2020)
Tutti sappiamo chi è Maria Montessori. O crediamo di saperlo. Molti di noi hanno mandato i figli alla scuola che porta il suo nome, inteso come metodo. E molti di noi non hanno ben capito in cosa consistesse questo metodo. Alcuni detrattori pensano addirittura che iscrivere i bambini alla Scuola Montessori si risolva nel fargli fare «tutto quello che vogliono», ottenendo risultati altamente diseducativi. Ecco là piccoli demoni scatenati, che saltano sui divani con le scarpe o si denudano in pubblico urlando come ossessi.
Poi uno legge una biografia (Il bambino è il maestro di Cristina De Stefano, edito da Rizzoli) e scopre che dietro quel nome c’è un pensiero rivoluzionario da molti frainteso e c’è una vita che definire romanzesca è dir poco, una personalità contraddittoria e tenace, un’incrollabile convinzione nella giustezza delle proprie idee. Insomma scopre che quell’anziana signora vestita all’antica e dalla faccia buona, sempre circondata di bambini, come appare anche sulla copertina del libro, era una leonessa. Determinata a rinunce clamorose pur di far trionfare il suo pensiero. Ma tant’è: il genio femminile, in Italia più che altrove, è guardato quasi sempre con una sorta di patetismo, appiattimento, svalutazione difficili da scalfire.
E dire che la bibliografia montessoriana è sterminata, e un’altra biografia (uscita qualche anno fa), Maria Montessori, della pedagoga Gabriella Seveso, è stata da poco allegata al Corriere della Sera in una collana dedicata alle “Grandi donne della storia”: dalla solita Cleopatra a Marie Curie. Senza parlare di un (modesto) film televisivo a lei dedicato, che l’anno scorso è andato in onda su Tv2000, con Paola Cortellesi, sceneggiato che non ha saputo scrollarsi di dosso una convenzionale impostazione cattolica.
Perché forse è questo il problema: la convinta fede religiosa di Maria Montessori, muovendosi lei nel campo innovativo, laico e “di sinistra” della pedagogia, ha senz’altro giocato a suo sfavore, mettendo in imbarazzo persino i tanti sostenitori. Ma in realtà, al di là delle etichette confessionali che le possono venire attribuite, Montessori è un’ “illuminata”, nel senso che Gandhi e tutta la filosofia indiana attribuivano a questa parola. E’ uno dei meriti del lavoro di Cristina De Stefano aver insistito su questo punto.
Per capire il personaggio (nato il 31 agosto 1870) e le vicende sorprendenti della sua esistenza, è essenziale partire dall’infanzia e da un padre estremamente mite, e da una madre estremamente determinata a spingere la figlia verso un destino prestigioso. Lui, Alessandro Montessori, è un funzionario statale; lei, Renilde Stoppani, è una maestra che, sposandosi, ha dovuto lasciare a malincuore un lavoro molto amato. Ma erano tempi così, non si poteva ammettere che una donna dopo le nozze conservasse la sua professione. Sarebbe stato segnale di una condizione sociale indecorosa: che il marito non avesse disponibilità sufficienti a mantenere la moglie. Così Renilde si dedica alla figlioletta, ma senza viziarla, anzi. La mette in contatto con i bambini poveri esortandola a lavorare per loro a maglia e non sopporta capricci. La bambina cresce esigente e critica, attenta agli altri meno fortunati di lei. Con le bambole gioca facendone piccoli pazienti da visitare e a cui somministrare lo sciroppo. A scuola morde il freno. Si annoia, è sempre avanti sui tempi, ma non studia la lezione del giorno e passa per somara.
Nata nella provincia di Ancona, a Chiaravalle, si trasferisce a Roma con la famiglia e, siccome non ha voti abbastanza alti per il liceo classico, ripiega sulla Regia Scuola Tecnica, dove ha il vantaggio di doversela vedere con un ambiente di maschi facendosi strada ad armi pari da studentessa modello qual è. Maria è decisa a diventare medico, ma all’università non la vogliono. Le donne ammesse sono pochissime e devono presentare un curriculum ben più ferrato del suo, le manca la richiesta Maturità Classica. Ma se il problema è il latino, lo studierà, decide lei. E così fa, e rompe le scatole al preside di facoltà. E alla fine viene ammessa. Resisterà con successo anche alla prova-cadavere. Tutti quei corpi morti, maschili e femminili, nudi e indifesi, smaneggiati senza pietà sul tavolo del gabinetto di anatomia… E il professore che ci prova con lei durante quelle pesantissime lezioni… Ma lei è «una nave da guerra», come hanno tramandato in tanti, e alla fine realizza il sogno di diventare medico. «A Roma, prima di lei, solo altre due donne sono laureate in medicina» annota De Stefano. La prima tappa importante della sua vita. E’ il 1896.
Intanto è diventata socialista. E femminista. Come avrebbe fatto del resto una come lei a non essere una suffraggetta? E di quelle che si mettono in vista e che trascinano le altre con discorsi lungimiranti. Pazienza se poi sui giornali si parla solo del suo aspetto: è carina, con un visetto arguto tondo tondo. «La voce, la chioma bruna, lo sguardo penetrante, i guanti portati con eleganza» scrivono. Con quelle manine guantate, a Berlino, durante un congresso internazionale femminile, ha concluso il discorso (che invitava a superare le differenze di classe per unirsi nella lotta) togliendosi il cappello e sventolandolo sopra la testa al grido: «Viva l’agitazione femminile». Le altre l’avevano applaudita, imitandone il gesto con un generale sventolio di cappelli.
Ma non è ancora diventata «l’amica dei bambini» che conosciamo, quella che, raccogliendo il dimenticato insegnamento del precursore francese Edouard Séguin, comincia col salvare dal manicomio cinquanta ragazzini disturbati istituendo per loro una scuola speciale. E ottiene i primi grandi risultati lasciandoli liberi di esprimersi, senza costrizioni né punizioni, fornendo materiali didattici nuovi e creativi, mettendosi da parte a osservali invece di intimidirli imponendo ordini umilianti.
Perché «il bambino è il maestro». Questo lo slogan che la caratterizza. Le cose, secondo lei, non stanno come tutti hanno sempre pensato agendo in modo coercitivo. Nel 1909, quando avrà già fondato a Roma «La Casa dei Bambini», il primo dei suoi asili d’avanguardia, dirà: «Non sono io quella che ha creato qualcosa di nuovo nell’arte di educare, ma è lo spirito infantile che si è rivelato in me». Per i suoi amati piccoli abbandona persino la promettente carriera universitaria. Perché era così Maria Montessori, seguiva solo una voce interiore, profondamente spirituale, che la guidava – sosteneva – indicandole la scelta giusta da fare. A qualunque costo. Era consapevole di avere una missione e per seguirla cercava aiuti politici e finanziari con grande disinvoltura, che le venne immancabilmente rimproverata. Ma non fu demolita pubblicamente persino Teresa di Calcutta per un’analoga “disinvoltura” nel reperire finanziamenti? Sono così le Grandi Anime, indifferenti alle astuzie che salvano l’immagine, interessate esclusivamente al fine: la loro opera straordinaria. Hanno bisogno di fondi e li cercano dove li trovano, dai teosofi come dai sufi, nella Chiesa, presso Mussolini (abbagliato in un primo momento da quella donna spavalda, quella Montessori così determinata, quella innovatrice fuori misura). Ciò che conta, in personalità come Santa Teresa o la nostra Maria, animate da un progetto che sentono benvoluto in cielo come necessario in terra, è raggiungere lo scopo, che è indubbimente un grande scopo umanitario.
A cercare ombre sulla Montessori se ne trovano quante se ne vogliono, e non andando nemmeno tanto per il sottile, se ci si mette a giudicarla con la lente (deformante) dell’appartenenza politica. Lei apparteneva a un disegno più alto, quello di una grande rivoluzione pedagogica. Dopo di lei il bambino è stato considerato in un altro modo. Lei ha capito la straordinaria potenzialità infantile dalla nascita ai tre anni, ha ribaltato luoghi comuni, ha fornito strumenti didattici, studiati con attenzione sul campo, per facilitare l’esplosione della naturale intelligenza dei piccoli, li ha messi nelle condizioni migliori per apprendere, ha costruito per loro, con le proprie mani, mobili e attrezzature a dimensione di bambino. Oggi tante innovazioni sembrano scontate, oggi che il metodo Montessori è entrato non solo nelle scuole, ma nella concezione dei giocattoli, quei tanti giocattoli meravigliosi che divertono stimolando la crescita intellettiva e che sono ormai a disposizione dei giovanissimi “utenti” anche in asili non particolarmente innovativi.
E dunque da una parte c’è una donna di indubbio successo, soprattutto internazionale quando cominciano a invitarla ovunque, in Europa, negli Stati Uniti, in India (Gandhi in persona ha stima di lei, si conosceranno a Londra prima della seconda guerra mondiale, e Tagore e Thomas Mann…) C’è la sua vita movimentata e attivissima.
E poi, come nei più avvincenti romanzi sentimentali c’è anche un grande segreto privato, che la tormenta, ma insieme la spinge, che dà forma e vigore al suo pensiero rivoluzionario. Perché nella sua vita privata c’è un figlio. Ma un figlio che, per diventare se stessa, ha dovuto abbandonare. Un figlio negato, eppure amatissimo.
Lo vediamo accanto a lei, già uomo fatto, in tantissime fotografie in cui sorride con dolcezza, mano nella mano della madre o mentre la guarda pieno di ammirazione. Era il figlio di un grande amore, ma capitato nel momento sbagliato. L’uomo di cui si era innamorata Maria, l’unico della sua vita che si sappia, si chiamava Giuseppe Montesano, un giovane medico (che diventerà primario al manicomio di Roma) conosciuto all’Istituto di Igiene nel 1895. Lei era ancora una tirocinante. «Era un uomo molto bello, dal viso affilato e intenso. Di due anni più grande» c’informa Cristina De Stefano. Nato a Potenza da una ricca famiglia di origini ebraiche, ha un carattere dolce ma rigido, «biblico». Quando nasce il piccolo Mario (31 marzo 1898), con parto in casa con la complicità di donna Renilde, accetta che il bambino sia dato a balia e che la sua esistenza resti nascosta perché la carriera della sua compagna ne sarebbe rovinata. Anche il matrimonio è fuori discussione per lo stesso motivo. Giuseppe accetta, ma i suoi sentimenti si raffreddano.
Fino al 1901. Quando la informa improvvisamente che sposerà una ragazza col suo stesso nome, Maria. E che ha riconosciuto Mario, il loro figlio. Quindi per legge ora sarà solo suo. Così stavano le cose. A una madre non era permesso riconoscere il proprio figlio: un illegittimo veniva bollato con la sigla infamante N.N, figlio di nessuno. Giuseppe però non tiene il bambino con sé. Mario cresce lontano, con la balia e poi in collegio. Finché è piccolo vede ogni tanto una misteriosa signora che va a trovarlo. E su di lei sogna immaginando che sia la madre sconosciuta. Poi un giorno quella signora gli scrive in collegio e gli propone di vedersi.
Non si separeranno più. Lui ha quindici anni e quando la vede la chiama istintivamente “mamma”. Ma per tutti, anche quando Mariuchino (lei lo chiama così) diventerà il suo assistente, il suo braccio destro, è solo un nipote. Il segreto non si svelerà che alla morte di Maria, che scrive la verità nel testamento e lo proclama suo erede e continuatore.
Nel frattempo la «Casa dei bambini» ha conquistato il mondo. La Francia onora Maria Montessori con la Légion d’Honneur, in Olanda è insignita dell’Ordine Orange-Nassau per meriti civili, dalla Svizzera riceve il premio della Fondazione Pestalozzi. Per un pelo non vince il Nobel per la Pace. E’ candidata tre anni consecutivi, ma le viene sempre preferito un uomo. «E’ molto probabile» scrive la biografa «che la collaborazione col fascismo abbia pesato contro la sua candidatura». Alla fine della guerra, alle domande dei giornalisti sui suoi coinvolgimenti politici, rispondeva così: «La politica non m’interessa. Inoltre le idee politiche sono tutte sbagliate. Noi dobbiamo creare un mondo nuovo, con un taglio nuovo e una nuova stoffa, non l’arlecchinata di stracci e sete che si vede oggi». Rivendicava di essere cittadina del mondo: «Il mio Paese è una stella che ruota intorno al sole e si chiama Terra». Aveva sempre creduto nell’importanza dell’amore per compiere qualcosa di grande. «Quello che crea davvero un maestro è l’amore per il bambino» diceva. «Perché è l’amore che trasforma il dovere sociale dell’educatore nella coscienza più alta di una missione». Le sue allieve restavano incantate da lei, fino a seguirla come al cospetto di una rivelazione, pronte a lasciare tutto per dedicarsi anima e corpo al suo metodo. Era una specie di santa o, come dirà una di quelle sue allieve: «una regina» che «faceva delle entrate regali», conquistando col suo carisma le folle che venivano ad ascoltarla nelle platee di mezzo mondo.
Ci sono premi Nobel di cui dimentichiamo il nome, il suo lo conoscono ancora tutti e lo legano a un’idea di rispetto per l’infanzia e di libertà consapevole. «Non è detto che sia disciplinato solo un individuo allorché si è reso artificialmente silenzioso come un muto e immobile come un paralitico» sosteneva. «Quello è un individuo annientato, non disciplinato. Noi chiamiamo disciplinato un individuo che è padrone di se stesso».