Il mio amico Ottavio (L’Immaginazione n. 313 sett.ott.)
Lo so, lui vorrebbe che io parlassi di William Butler Yeats, il “suo” Yeats. Lui è Ottavio Fatica che Yeats ha studiato, tradotto, chiosato (vedi il recente magnifico Magia edito da Adelphi che raccoglie importanti scritti – diciamo mistici, diciamo “magici” – dello scrittore irlandese, corredati da una lunga postfazione di Ottavio). Ma Yeats non è fra i miei autori, malgrado la sua indiscutibile malìa e malgrado il suo misticismo che non posso non condividere. In effetti basterebbe l’inizio del saggio Magia a catturarmi: «Io credo nella pratica e nella filosofia di ciò che abbiamo convenuto di chiamare magia, in ciò che devo chiamare l’evocazione degli spiriti, per quanto ignaro di cosa siano, nella facoltà di creare illusioni magiche, nelle visioni di verità presenti negli abissi della mente quando siamo a occhi chiusi…»
Ma io non voglio parlare del grande romantico Yeats, adesso. Io voglio proprio parlare di Ottavio Fatica, che conosco da quando avevamo nemmeno trent’anni e che da qualche anno ho ritrovato come vicino di casa. Vicino si fa per dire: siamo scappati dalla città tremenda nella campagna umbra in tempi diversi e ora viviamo a ventiquattro chilometri di distanza, ma ci vediamo più spesso di quando a Roma ci separavano poche fermate di metropolitana. Così è la vita di campagna, ci si scambia visite tranquille di chiacchiere notturne dopo buone cene, all’aperto sotto la luna, in mezzo a un ampio paesaggio di colline, o d’inverno al chiuso davanti a un camino.
Mentre io impazzivo dietro a Natalia Ginzburg cercando di portarne a termine una quasi biografia, lui perdeva la testa con Yeats. Alle cene parlavamo soprattutto d’altro, ma poi veniva sempre il momento che ci scambiavamo (rigorosamente ridendone) le nostre diverse disperazioni per personaggi tanto sfuggenti. E – togliete Yests e Natalia – così è per tutto, tutto quello su cui lavoriamo e su cui ci danniamo: perché Ottavio (finge?) di non prendere niente sul serio. E io mi adeguo. Ma intanto mi chiedo come fare a mettere all’angolo una persona come lui, uno che non ti dice mai «questo libro è bellissimo, leggilo», ma «non è male, c’è dentro un ingranaggio interessante…» e intanto con le mani disegna nell’aria l’ “ingranaggio”, ne imita il giro da carillon che tu t’immagini un racconto di Kipling o un’apparizione misteriosa di Lafcadio Hearn o un romanzo di Flannery O’Connor trasformarsi in ruote dentellate che s’incastrano una nell’altra…
Perché in effetti che altro è un buon libro? Un sistema a orologeria perfettamente oleato che gli esegeti come Ottavio si divertono a smontare, ammirare, rimontare. Questo nella sua identità di critico e traduttore. Ma poi c’è l’altro Ottavio, il poeta. E qui finalmente conto di stanarlo. Qui ritrovo i fantasmi dei suoi autori preferiti diventati i suoi personali fantasmi, qui ritrovo i morti viventi e i viventi destinati a morire e mi sembra di aver individuato la chiave dell’enigmatica, malinconica personalità del mio amico. «Dio mette la divinità/ nell’uomo come l’uomo mette / l’umanità in un animale/ o siamo nell’universo/ come i cani / e i gatti in biblioteca?» si chiede nella poesia Ho la risposta (nella recente raccolta Vicino alla dimora del serpente, edita da Einaudi). E risponde: «Nulla osta. Io guardo/ occhi negli occhi / questa gatta, questa/ creatura. E ho paura / di aver paura. Avendo la risposta./ Giochiamo tutti e tre / a mosca cieca».
Mi piacciono molto queste sue poesie arrese alla realtà del nonsenso della vita (come del linguaggio), che ritrovano nella recente scoperta dei gatti (un giorno, nella nuova casa umbra, una gatta gli è piombata in giardino, catturandolo occhi negli occhi in un’inguaribile malìa e sfornando altri irresistibili micini…) una piccola sostanziale consolazione all’«esistenza a perdere», al «fermo immagine» o a quel «tuffatore in bilico/ sul ciglio del crepaccio» che siamo, transitori, dormienti e inascoltati. Senza mai rinunciare a un distacco quasi sereno, a un sorriso che è un disperato sberleffo contro il tiro mancino delle invisibili divinità ostili che ci tengono in pugno, magari pure loro inventate da noi….
Quando Ottavio scrive: «Nessuno ascolta / il demone di un altro / l’anonimo richiamo/ l’insensato boato / o pigolio musica sghemba/ per irreali fuochi / d’artificio sta tutto / nel non detto/ il dito sulle labbra/ per non piangere» e subito dopo cita: «Faites que je pleure…Fatemi piangere…» a me risuona la musica triste e bellissima del Rinaldo di Händel: «Lascia ch’io pianga, mia cruda sorte…» che mi sembra l’accompagnamento più adatto a questi versi capaci di toccare corde profonde dell’essere.
Ma tanto – e insieme – (perché un elemento non può fare a meno dell’altro) mi piace l’irridente capitombolo d’un invito di fine stagione a “levare le tende” e “staccare la spina”. Della piscina.