Dall’Africa all’Argentina (passeggiando per Roma)
Che rapporto c’è fra centro e periferia a Roma? Uno gira per il quartiere Talenti e potrebbe essere ovunque, cosa gli dice che si tratta di Roma, se non lo sa? Roma è le sue pietre, le sue vecchie pietre, ma nessun urbanista o architetto o palazzinaro, nel progettare quartieri e nel tirar su case di dodici piani, si è posto il problema di ricordarsene, così, tanto per dare un segno, per dire al passante: ti trovi a Roma, anche se sei a quindici chilometri dal centro della città. Fantastico a volte su questi elementi di uniformità. Mi pare che altre metropoli siano riuscite a seminare, come briciole di Pollicino, questi segni. Ehi, sei a Parigi, anche se non proprio a Saint Germain; sei a New York, anche se il Village è piuttosto distante; ti trovi a Londra, non a Piccadily Circus, ma non puoi non riconoscere qualcosa di tipicamente londinese in queste povere casette a schiera, ognuna con il suo giardino sul retro.
A Roma no. Le periferie sono una diversa dall’altra, non parliamo di quanto sono diverse dal centro. Nessun elemento comune si rincorrre da una strada all’altra fino ai margini lontani, quei non-luoghi desolati che sono dappertutto e da nessuna parte. A quel punto l’affermazione «abito a Roma» che cosa significa? Che puoi raggiungere il centro con tre autobus, una metropolitana, un’ora e cinquanta minuti di percorso?
Ma prendiamo una periferia che è quasi centrale, prendiamo il quartiere africano che conosco per averci vissuto un congruo numero di anni. Ci ho fatto su anche una trasmissione radiofonica. Dunque sono abbastanza preprarata. Che cosa fa del quartiere africano un quartiere di Roma? Il fatto, indubbio, che si trova dentro il comune di Roma. Ma a uno che a Roma non è stato mai, che ha visto la città solo in cartolina, cosa racconta di Roma il quartiere africano? Se, per ipotesi, questo pellegrino fosse catapultato nel quartiere dall’aeroporto, senza vedere altro che l’aeroporto e il punto di arrivo, mettiamo che si sia addormentato in taxi e che non abbia goduto dell’affastellarsi di immagini dal finestrino, durante l’attraversamento, per farsi un’idea della città…
Eccolo che il taxista lo sveglia e lo scarica, mettiamo, su viale Eritrea, perché lì lo aspetta un amico che lo ospita. La prima immagine di Roma che il nostro turista vedrà sarà il caos di macchine mal parcheggiate sotto gli alberi striminziti del viale e fuori dal parcheggio, lungo tutta la strada piena di negozi di nessuno charme. Un andirivieni frenetico di gente che va a comprarsi le scarpe, telefoni cellulari, jeans. Lungo i marciapiedi sorge uno spontaneo suk fatto di pezze buttate per terra con sopra vari articoli: borse, bracciali, magliette, orologi taroccati, orribili statue di legno che imitano antiche statue africane. Ma soprattutto il viaggiatore stordito sarà sopraffatto dalla bruttezza dei palazzi. Due file ininterrotte, o quasi, di edifici giallicci, nemmeno tutti uguali, perché cresciuti come funghi, ma in tempi diversi. Così balconi e finestre e portoni urlano ognuno una sua sgraziata originalità comunicando soltanto un senso di calore insopporrtabile e di oppressione.
Il malcapitato turista sta pensando di essere stato truffato. Il tassista ha sicuramente approfittato del suo sonno per portarlo fuori Roma, in qualche villaggio satellite, solo per far crescere il prezzo nel tassametro.
«No, questa è Roma, proprio la Roma dei Cesari, quella lì dei libri di storia» dice il tassista. «Non è colpa mia se lei abita a questo indirizzo. Ma se prende l’autobus, in mezz’ora è al centro. E’ una zona comoda, che crede. C’è di peggio. Non è mica un quartiere dormitorio il quartiere africano: ha tutti i negozi che vuole, supermercati, librerie, bellissimi bar, ristoranti, cinema. Qui può vivere bene anche senza mettere mai fuori il naso».
«Ma io voglio vedere Roma».
«E allora salti sull’autobus: guardi, lì c’è la fermata. La porta dritto dritto a piazza Venezia, alla stazione Termini, al Vaticano».
Ora il tassista comincia a essere stufo, saluta il cliente e riparte. Per fortuna che si è materializzato l’amico del viaggiatore sconsolato. Gli prende la valigia, lo trascina in casa. Un appartamento spazioso e ben arredato. Il turista si rilassa. L’amico lo consola.
«E’ un buon quartiere questo. Bisogna conoscerlo per apprezzarlo. E’ ben servito, come si dice, e c’è parecchio verde. Una volta era tutta macchia mediterranea. Poi Mussolini decise di farne un’area per i ferrovieri e sono stati costruiti molti villini: erano le case popolari di una volta. Vieni ti faccio vedere quel che ne resta. E poi andiamo direttamente a Trastevere ad assaporare la vecchia Roma».
S’inerpicano per una strada in salita lasciandosi alle spalle l’arroventato pomeriggio di viale Eritrea e viale Libia con il flusso inarrestabile di gente che fa lo struscio davanti alle mille vetrine tutte simili, tutte traboccanti di variegata mercanzia.
Il turista ammira i villini dei ferrovieri, ne restano pochissimi, soffocati dai casermoni della speculazione edilizia degli anni ’60. Vede freschi giardini con vasche di pesci, cancellate scure e ariose, alti pini e alberi di arance selvatiche che si affacciano da muretti tranquilli. Gatti sinuosi si attorcigliano intorno al ferro battuto delle inferriate. Ci sono le solite macchine parcheggiate ovunque, persino sui marciapiedi, ma tutto sommato le strade hanno un’aria dignitosamente borghese. Gli sembra di intuire che in queste case degli anni venti, in questo culto dei fiori che occhieggiano dai giardini privati o nel bel parco curato che attraversano a piedi qualcosa della vera Roma, che prima o poi gli si svelerà, ci sia.
Sono arrivati su via Nomentana, una grande arteria che «porta dritto al centro», gli annuncia l’amico.
«Qui c’era una stazione di posta, dove si facevano riposare i cavalli e si pagava il dazio per entrare in città. Lì c’è una delle più belle basiliche, la paleocristiana Santa Agnese, grande esempio di arte bizantina. Uno di questi giorni ti ci porto» gli promette. E il turista pensa: vedi, troppo velocemente ho giudicato male il quartiere africano. Ora si scopre che ha anche una sua perla.
«Lungo la via Nomentana» continua l’amico «ci sono ancora molte ville patrizie, i primi edifici che accoglievano le carrozze e il tram a cavalli diretti al centro. Arriva fino a Porta Pia, alle Mura Serviane, dove Roma comincia ad assomigliare a Roma. Andiamo?»
Ora il turista si sente sollevato. Salgono su un autobus veloce che con poche fermate li porterà a destinazione. La via Nomentana con la sua baraonda di traffico e semafori non gli dispiace. Sente nei palazzi umbertini che la costeggiano un’aria rispettabile e sorniona. E ogni tanto riconosce la versione restaurata e ridipinta di una di quelle ville di cui parlava l’amico, che oggi sembrano soprattutto adibite ad ambasciate o conventi.
Non ha il tempo di mettere un punto ai suoi pensieri che l’amico gli ingiunge: «Scendiamo».
Dov’è finito il quartiere africano? Si trovano in piazza Argentina. Solo il traffico è lo stesso che altrove, una disordinata baraonda, arredo di tutte le moderne metropoli, al centro come in tante periferie.
Il nostro viaggiatore, ormai disincantato, si guarda intorno, annusa l’aria, vede le sue prime rovine in mezzo alla piazza, che gli ricordano le immagini della Roma sognata, aspettata.
Eccomi a Roma dunque, finalmente, pensa.
Il suo amico lo prende per il gomito e lo guida nel disordinato fluire di veicoli e persone che poco rispettano strisce pedonali, luci rosse o verdi dei semafori, ma si buttano all’impazzata da una parte all’altra della strada. Ora lo costringe ad affacciarsi dalla ringhiera che corre tutt’intorno e a guardare le vecchie pietre che occupano il centro dello slargo su un livello più basso del loro. Le stratificazioni del tempo funzionano così sulla materia plasmata dagli uomini, la fanno sprofondare sempre di più verso il centro della terra.
Allunga il braccio e un dito esclamando: «Lì fu ucciso Giulio Cesare, proprio in quel punto».
Il viaggiatore sente gli occhi riempirsi di lacrime.
«Ci sono davvero» pensa. «Sono proprio a Roma!»
Non so cosa possa provare un turista, o anche solo un abitante dell’estrema periferia romana, ben più remota dell’addomesticato quartiere africano, quando vede Roma per la prima volta. Io, per parte mia, ne ricevo sempre un tuffo al cuore, un’emozione che altre città non sanno darmi così forte. Quando vivevo nel quartiere africano ero come anestetizzata. Ora che sto al centro sono continuamente colpita dalla bellezza di questa città. Ogni sua pietra mi racconta una storia. E mi chiedo: era proprio impensabile rispettarne la sontuosità e la meraviglia, conservando qualche sua caratteristica lungo il percorso dal centro alla periferia?
(Questo mio racconto è contenuto nell’antologia “Roma per le strade (vol. II)”, Azimut 2009.
È un progetto editoriale NO PROFIT: i proventi degli autori, dei curatori, degli agenti, e dell’editore sono devoluti a ospedali, associazioni, centri che si occupano dell’infanzia.
Gli altri autori della raccolta sono: Dora Albanese, Adelia Battista, Gaja Cenciarelli, Rita Charbonnier, Francesco Costa, Laura Costantini – Loredana Falcone, Mario Desiati, Andrea Di Consoli, Pasquale Esposito, Massimiliano Felli, Gianfranco Franchi, Andrea Frediani, Luca Gabriele, Enrico Gregori, Luigi La Rosa, Silvia Leonardi, Lia Levi, Dacia Maraini, Piera Mattei, Massimo Maugeri, Italo Moscati, Stefania Nardini, Antonio Pascale, Sandra Petrignani, Rosella Postorino, Tea Ranno, Carlo Sirotti, Cinzia Tani, Filippo Tuena).
stefania nardini
Che bello! Non sapevo che avev un blog. L’ho scoperto casualmente. Vedo che con la tecnologia te la cavi bene.Complimenti e un bacione