A casa di Mariù (Espresso 6 nov. 2022)
Da Bordighera, sulla costa ligure, bisogna inerpicarsi per 5 chilometri per raggiungere la frazione di Sasso, compatta come una fortezza. Accanto al duomo c’è un vicoletto in salita e si arriva al cancello della vecchia casa Rossi, la famiglia di Irene Brin (vero nome Maria Vittoria Rossi, detta Mariù), una donna eccezionale che è impossibile racchiudere in un’unica definizione. Intellettuale cosmopolita, scrittrice, gallerista, fondatrice dell’alta moda italiana e di un nuovo modo di concepire il giornalismo, maestra di stile e di bon ton. Parlava quattro lingue e conosceva Proust praticamente a memoria. Ma si definiva «specialista in frivolezze» e rivendicava il diritto delle donne a essere leggere senza per questo venir giudicate sciocche.
Ad aprire la porta è il nipote preferito, figlio della sorella Franca, Vincent Torre, di professione fisico perché «quanto a cultura letteraria e umanistica avevo già appreso tutto, fin da piccolo, da Gaspero e Irene». Gaspero Del Corso era il marito di Brin e insieme, attraverso la romana galleria Obelisco – aperta nel ‘43 al 146 di via Sistina – avevano costituito per quasi tre decenni un imprescindibile punto di riferimento per la diffusione dell’arte contemporanea. «Essere portato nei musei da loro è stata una grande lezione di vita. La zia mi lasciava ore davanti ai quadri e poi m’interrogava. È così che ho imparato a riconoscere la Bellezza».
Irene, nata a Roma il 14 luglio del 1911, amava molto la casa di Sasso, soprattutto ne curava il vasto giardino, tappezzato di prati irregolari, percorso da sentieri nascosti, abitato da alberi severi e qualche gatto. Lo riempì di opere d’arte, tuttora in parte presenti: sculture di artisti amici, da Arnaldo Pomodoro a Giacomo Balla, da Attilio Pierelli a Maria Dompè, da Augusto Perez a Emanuele De Ruvo e altri. E qui morì, il 31 maggio del ‘69 al ritorno da un ultimo viaggio in macchina a Strasburgo con l’inseparabile marito, per vedere una mostra di Diaghilev. «Fu un viaggio terribile, a piccole tappe d’angoscia» raccontò Gaspero (nella biografia Mille Mariù. Vita di Irene Brin di Claudia Fusani, edita da Castelvecchi) «con lei che si sentiva sempre peggio, ma visitò la mostra, irriducibile, eretta nei suoi bei vestiti eleganti, inappuntabile nei suoi guantini bianchi». Soffriva d’un tumore ed era stata operata, ma diceva di avere l’epatite virale. Sulla via del ritorno, in Italia, si fermano a Sasso perché Irene non è in grado di continuare il viaggio.
«È arrivata di giovedì» ricorda Vincent «e il giovedì dopo è morta. L’ultimo giorno mi disse dalla sua poltrona che mi voleva molto bene». Quel nipote era il figlio mai avuto, il figlio che aveva persino inventato di aver perduto durante una supposta gravidanza, tanto lo desiderava. Ma Gaspero era omosessuale, anche se lei fingeva di non saperlo e quando nel ‘60 – racconta Vincent – aveva tentato il suicido con i barbiturici per la scoperta di un tradimento del marito, la versione ufficiale fu di essere stata tradita per un’altra donna. «Eppure erano una coppia legatissima» riflette mentre attraversiamo il giardino. Suonano le campane ogni quarto d’ora, le campane del duomo che ha la torre proprio sulla «fascia de ca’», ovvero la parte del giardino più vicina alla casa, le campane che da piccolo, quando era chierichetto, suonava con altri ragazzi attaccandosi alle corde, ed era così divertente… Ora il suono è elettronico, ma la magia resta identica su quella fascia de ca’ dove in agosto si organizzano eventi artistici e letterari, di fronte a sei giganteschi cipressi. I più vecchi piantati nel ‘43 da nonno Vincenzo per moglie e figlie. Gli altri, diciassette anni dopo, per Franca, Irene e Gaspero.
Per il resto dell’anno il posto è un B&B e alla mia domanda se chi prenota viene per Brin, la risposta è sconsolata: «Proprio no». Eppure c’è anche un piccolo museo, proprio accanto alla chiesa, che si può visitare su richiesta. E dentro foto e ritratti, compreso il più celebre, firmato da Massimo Campigli, qualche vestito che racconta una donna alta e magrissima, un’istallazione di Picasso fatta per lei, il profumo di Christian Dior, Diorling, creato in suo onore con la bottiglietta adagiata sul raso dorato d’una lussuosa scatolina. «A tavola, alla fine, beveva solo champagne» continua Vincent. «Non mangiava più nulla. Ma aveva sempre mangiato poco. Era fiera, alle sfilate, di entrare dentro i vestiti indossati dalle modelle». Quelle sfilate che non cominciavano finché non arrivava lei, lei che con i suoi articoli convinse i sarti italiani ancora sconosciuti, le Fendi, le Fontana, i due Emilio – Pucci e Schuberth – Simonetta… che potevano competere con i grandi stilisti francesi. E fu la nascita del made in Italy. Sempre inerpicata su scarpine a tacco alto, aperte sul davanti per lasciar vedere le unghie smaltate, un vezzo. Come quello di non mettere gli occhiali pur essendo miope. Così il suo sguardo celeste, tanto chiaro da sembrare trasparente, vagava in una nube trasognata. Sarà la prima, poi, a metà degli anni ’50, a far uso di lenti a contatto. «Era molto bella, con chiarissimi occhi spalancati sul mondo che guardava instancabile» la descrisse Camilla Cederna che tanto imparò da lei. Ma in molti lamentavano la sua freddezza sprezzante. Caratteristica in cui non si riassumeva l’intera personalità. Disse un’altra grande giornalista che la riconosceva amica e maestra, Lietta Tornabuoni: «Era anche molto generosa. Non era affettuosa, né cordiale, non era fisica. Era una donna coraggiosa, forte, elegante ma distante». In una circostanza tragica in cui Lietta attendeva di conoscere la sorte del fratello che aveva avuto un incidente, Irene era arrivata in clinica con un thermos di brodo, tramezzini e caffè per tenerla su. «Pratica e generosa, non sentimentale».
E anche con il nipote: «Affettuosa, ma senza esagerare». Secondo lui era in realtà una donna infelice. Sia la zia Irene, sia la madre Franca, non avevano avuto dalla vita quello che desideravano «e magari la grande bellezza di entrambe è stata un ostacolo, chissà». Girando per il giardino, osservando «il colore delle foglie che cambia con la luce», passando in mezzo a grappoli d’uva che Irene amava assaggiare camminando, si arriva alla piscina voluta da quegli zii speciali nel 1960 e dove amavano molto trattenersi. È di un azzurro intenso, ombreggiata dalle palme, circondata da istallazioni e conchiglie oceaniche. Il senso di sconfitta nella famiglia Rossi (fu Leo Longanesi a ribattezzare Mariù col tintinnante, esplosivo nome di Irene Brin) veniva da lontano. Il padre Vincenzo, comandante della Brigata Roma e scampato a Caporetto, era stato accusato nel ‘17 di alto tradimento, suo fratello Francesco Rossi, fondatore del partito socialista, era inviso ai fascisti e aveva rischiato di esserne ucciso. La madre, coltissima ebrea d’origini viennesi, Maria Pia Luzzatto, confinata a fare la donna di casa, non trovò di meglio che riversare le proprie ambizioni sulla brillante Mariù. E poi Mariù, che voleva diventare scrittrice, si ritrovò a comporre “brinate”, come venivano definiti i suoi inimitabili articoli dai giornalisti del tempo, o a nascondersi dietro la famosa Contessa Clara che su vari periodici insegnava le buone maniere alle italiane. Nei suoi cassetti giaceva un romanzo dimenticato, Le perle di Jutta (ritrovato da Vincent Torre in una vecchia cassapanca, ha visto la luce solo due anni fa grazie alle edizioni Clichy), troppo eccentrico per imporsi, ieri come oggi. Ed è un peccato che in tanti non conoscano il reportage in forma di racconti Olga a Belgrado, ristampato da Elliot otto anni fa, che parla di una guerra lontana (il fronte jugoslavo durante il secondo conflitto mondiale), ricco di echi per i tempi che ci troviamo a vivere adesso. E magari non conoscono i ritratti di vita italiana raccolti in Cose viste o Le visite, storie che vogliono (parole sue) «comprendere una generazione ingenua e triste che si illuse di vivere secondo un ritmo eccezionale». E poi gli spiritosi Usi e costumi 1920-1940 e il Dizionario del successo e dell’insuccesso e dei luoghi comuni (tutti pubblicati da Sellerio). Infine l’ultimo libro, scritto quando le forze l’abbandonavano fino a spegnerla, a Sasso, a 58 anni: L’Italia esplode. Diario dell’anno 1952 (Viella), indispensabile per capire quel periodo formidabile in cui «avevamo una scelta, praticamente inesauribile, di vocazioni e disperazioni». L’anno in cui sbocciò con la forza di un tornado l’Italia moderna. Anche grazie a lei.