Bel libro di Mughini su Svevo (dal Foglio,2/6/11)
Dopo una vita da fumatore compulsivo incapace di smettere, Italo Svevo (che ancora all’anagrafe era Hector Schmitz) si vide negare da un nipote troppo premuroso l’ultima sigaretta, quella che non si nega ai condannati: e lui era condannato, dopo un incidente di macchina che non sembrava grave e che invece gli si sarebbe rivelato fatale a 67 anni, nel 1928. Quante ultime sigarette si era imposto inutilmente nella vita, e ora, di fronte alla morte, non poteva fumare quella che sarebbe stata sul serio l’ultima e l’unica. Un episodio simbolicamente illustrativo dello strano destino, mancato, spostato, di uno scrittore fra i più grandi della modernità, ripercorso da Giampiero Mughini in un libro che è insieme una biografia di Svevo, una ricostruzione delle vicissitudini di Trieste, la disanima di un’incomprensione letteraria delle più colpevoli, il ritratto di una società intellettuale e di singole generose personalità impotenti a imporre il valore di uno scrittore, la testimonianza appassionata di un collezionista di prime edizioni di testi novecenteschi (Mughini stesso); in una parola: un bellissimo avvincente racconto. S’intitola In una città atta agli eroi e ai suicidi. Trieste e il “caso Svevo” (Bompiani).
«Un’occasione propizia per cacciarmi nei guai» definisce l’autore questa sua impresa, ma subito aggiungendo: «se uno che scrive non si caccia nei guai, che razza di scrittore è?» E una volta di più si pensa a quanto poco in Italia sia frequentata questa scrittura che, sì, «caccia nei guai», perché non esiste ancora un grosso pubblico pronto ad accoglierla, come invece accade nei paesi anglofoni e anche in Francia, ma di cui si sente da noi un grande bisogno. Scrittura testimoniale, biografie, scorribande nelle proprie passioni culturali, tutto ciò che serve a riflettere da varie angolature sulla storia, letteraria e non. Questo libro porta per mano dentro un destino difficile (Svevo che nell’indifferenza dell’editoria è costretto a pubblicarsi da solo e che arriva a dubitare di se stesso), dentro una città, Trieste, dalle sorti tragiche e luminose; ci fa incontrare i suoi eroi suicidi, Stuparich, Michelstaedter, tanti altri; ci fa vedere Umberto Saba (uno dei primi estimatori di Svevo, con Benco, Bazlen, Montale, Joyce…) accovacciato nella sua poltrona dentro la sua libreria; riapre la dolorosa questione istriana e dedica alle foibe alcune indelebili pagine di commossa e indignata memoria; ricorda scrittori triestini ingiustamente accantonati, come Renzo Rosso per dirne uno, ma anche Pier Antonio Quarantotti Gambini, al cui celebre romanzo, L’onda dell’incrociatore, fu proprio Svevo a trovare l’affascinante titolo. E poi ecco che dibatte la questione dell’italiano di Svevo, sporcato dalla domestica lingua triestina, che portò Giacomo Debenedetti a definire quella lingua innovativa «un italiano fortuito e avventizio», pur comprendendo perfettamente la grandezza dello scrittore e anzi contribuendo in modo decisivo alla sua fama postuma.
A questo proposito nelle pagine finali Giampiero Mughini, riflettendo sulla vecchiaia precoce di Svevo e sugli inediti che lasciò, ha un’intuizione preziosa riassunta nell’immagine di un desiderio sessuale intatto chiuso in un corpo che si disfa: «Questo era divenuto l’onere doloroso dell’uomo del Novecento», il compito di asciugare il dire, di affrontare la perdita dell’illusione, di fare i conti con il nascere, invecchiare, morire senza l’addolcimento delle parole belle. Compito che l’autore della Coscienza di Zeno assunse fra i primi.