CAMERA CON VISTA (Moby Dick, 19/5/12)

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P.P.Pasolini

Un recente spettacolo dedicato da Fabrizio Gifuni a Pier Paolo Pasolini, un concerto spettacolo di Cosimo Cinieri, una mostra in corso a Milano fino a luglio, Pasolini a Casa Testori, con l’esposizione di cinquanta suoi dipinti e disegni, lettere inedite e altri scritti autografi, celebrano il novantesimo della nascita dello scrittore di Casarsa (1922-1975) e, soprattutto, dimostrano la sua vitalità, mai sopita veramente in questi quasi quarant’anni dalla morte, mentre su altri autori scende dopo la scomparsa uno strano colpevole silenzio o una sorta di rispettosa indifferenza. Pasolini profeta, Pasolini martire, Pasolini corsaro, «scomodo» e contraddittorio, arrabbiato e dolente, scandaloso, chiacchierato, amatodiato dai suoi contemporanei, amato e letto dalle giovani generazioni che in genere se ne fregano del passato, poeta delle ceneri e delle rinascite, autore di un cinema struggente e forse non ancora capito del tutto. Come un  grande albero che affonda più nel profondo le radici e spinge i grandi rami più in alto.

E che sparge i suoi semi e ispira altre opere con la sua ombra; un’ombra luminosa, però, pronta a ritirarsi lasciando la parola a chi da lui ha imparato qualcosa e inevitabilmente lo rimpiange. Il libro di Emanuele Trevi, per esempio. Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie) che in copertina ha una splendida foto di Elisabetta Catalano del ’69 con Pasolini bellissimo, come poteva essere intensamente, seriamente bello, desiderabile per gli uomini e per le donne, e Laura Betti sfrontata, orgogliosa di quella vicinanza. Il libro di Trevi non è un saggio e non è un romanzo, ma è un saggio ed è un romanzo. Come sa fare lui. E’ su Pasolini, in particolare su Petrolio, l’ultima sulfurea opera letteraria, e viene da Pasolini: è insieme un omaggio e una storia semplicemente autobiografica. E’ il ritratto tremendo di una donna tremenda, Betti appunto, un ritratto gigante, sordido e grandioso che la immortala se stessa e altra, a suo modo poetica, per il breve o eterno per sempre della letteratura. Trevi ebbe la ventura nei primi anni ’90, trentenne disoccupato e con velleità artistiche, di trovare un lavoretto al Fondo Pasolini che la Betti dirigeva a Roma, Quartiere Prati. Dirigeva non è la parola giusta, lo covava, custodiva, difendeva da qualsiasi intromissione, fosse pure quella indispensabile di uno studioso come Walter Siti, o come il malcapitato Trevi (e altri come lui) che dovevano per contratto mettere le mani fra le sacre carte dello scrittore scomparso. Assistiamo perciò a un repulsivo braccio di ferro fra la Giaguara (così veniva chiamata l’attrice nei suoi anni d’oro) e il giovane disorientato, messo in scena con insulti irripetibili, umiliazioni fantasiose, urla belluine da una parte, e con una forma di succube indifferenza, geniale apatia, mefistofelica sfida passiva dall’altra.

Emanuele Trevi

Emanuele resiste probabilmente in nome di un amore per PPP grande quanto quello della sedicente vedova, ed è questo amore, sempre commisto al malessere e a una certa salvifica ripugnanza, che gli permette di leggere con una comprensione inedita, spigolosa e veggente quell’opera stravagante, incompleta, forse incompiuta, forse no, che è appunto Petrolio. Nel corpo a corpo con Pasolini (diretto o mediato dalla sua temibile guardiana) lo scrittore Trevi sembra trovare più chiaramente se stesso impostando una voce nuova rispetto anche ai suoi migliori scritti precedenti, più alta e sicura, intonata a una verità personale e pubblica che mancava da molto tempo nella letteratura italiana, visto che viviamo in «un’epoca in cui l’eccellenza letteraria coincide sempre di più con l’abilità di intrattenere» come scrive in una pagina desolante per la limpida consapevolezza della deriva culturale in corso, «simile a un colpo di stato spirituale», «fenomeno ineluttuabile e repentino» che ci sta travolgendo con la forza crescente di una valanga e che Pasolini aveva previsto con malintesa disperazione.

Fulvio Abbate

Anche Fulvio Abbate, che all’intellettuale friulano aveva già dedicato il romanzo Oggi è un secolo e che nel 2005 in C’era una volta Pier Paolo Pasolini s’interrogava sulla sua eredità poetica, torna a raccontare di lui in un appassionante libro-vagabondaggio: Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi (Dalai editore). Da quel perdigiorno, imprevedibile affabulatore siciliano che è, bighellone, irregolare, attaccabrighe, profondo conoscitore di Roma dove vive da sempre, Abbate raccoglie e dispiega una notevole quantità di dettagli, ricordi, testimonianze in ordine caotico solo in apparenza, bussa agli indirizzi che furono di PPP e  chiacchiera con i nuovi proprietari, accumula indizi, rilegge pagine decisive, sparge i dovuti pettegolezzi. Anche lui vittima della Giaguara («me ne andai sbattendo la porta») non la risparmia, eppure la capisce e riesce ad avere anche parole tenere per lei: «Diceva: tu non capisci niente, sei un poveretto. Povero me. Povera Laura. Povero mondo», oppure: «Era poi, qualità impagabile, spietatamente sboccata, sboccatissima», e infine: «un’arpia vera, infrequentabile per molti versi, tuttavia accanto a questa sua principale attività di megera abilitata sia al borbottio sia al ringhio ne coltivava molte altre non meno celebri e forse addirittura invidiabili: diva, cantante, attrice, organizzatrice culturale, agitatrice…»

Sembra inevitabile, parlando di Pasolini, inciampare nella Betti, e in tanti altri celebri personaggi, protagonisti di un’epoca che appare adesso molto più lontana del cinquantennio sì e no che ci divide: pittori come Mario Schifano e Toti Scialoja, poeti come Attilio Bertolucci e Giorgio Caproni, scrittori come Alberto Moravia e Paolo Volponi, formidabili presenze di una scena letteraria, politica, culturale che sapeva alternare il Piper, appena aperto in via Tagliamento, alla costruzione di grandi architetture narrative, a feroci attacchi al potere costituito. E anche morirne, come potrebbe essere accaduto a Pasolini. Abbate appoggia questa tesi, la tesi dell’eliminazione politica dello scrittore che forse aveva delle «prove così acuminate da mandare in carcere alcuni intoccabili» (al contrario di Trevi sicuro invece che, se Pasolini avesse avuto prove concrete, sarebbe andato a portarle ai magistrati).

Ma non è questo il punto, che continuerà a dividere fino a una conclusione accettabile del caso. Il punto è la vita, non la morte di Pasolini, e quanto di straordinariamente fecondo c’è nella sua opera e nella sua leggenda.

 

 

 

 

 

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