ben placido (da Giudiziouniversale.it, 8/1/10)
Lo chiamavamo Ben e una volta gli dissi che gli stava benissimo quel nome: «ben placido» era il suo ritratto. Lui, che amava le astuzie del linguaggio, rise in quel suo modo anglosassone, discreto e ironico. Una presenza gentile, relazioni con gli amici prudenti e affettuose, una straordinaria mente che sapeva essere al contempo aspra e garbata. Oggi penso a lui come a tutto questo messo insieme e, ancor di più, come a ciò che tutto questo riassume: l’incarnazione dell’eleganza intellettuale; oggi che Beniamino non c’è più e si può dire quanto è grande il rimpianto. Un rimpianto che purtroppo era già cominciato da qualche anno, quando la malattia aveva colpito proprio la parola, sua arma affilata e precisa, sua delizia giocosa. Che strazio, allora, vedere che la mente era intatta e non poteva più esprimersi spigliatamente attraverso la comunicazione verbale. Perché credo che a Beniamino Placido parlare piacesse più che scrivere. Anche in questo era diverso dall’intellettuale tipo. Apparizioni calibrate, dai primi film di Nanni Moretti ad alcune preziose trasmissioni televisive, articoli (scriveva sulla Repubblica) che mettevano in relazione cose lontane e ti aprivano finestre sulla vita quotidiana, sugli andazzi contemporanei, sulla falsa coscienza della sinistra, dove con grazia superiore «militava», libri leggeri scritti con cultura mai proterva. Poi i suoi otto anni di critica televisiva, che hanno cambiato per sempre il modo di guardare la terribile scatoletta.
Richiamava Woody Allen nell’aspetto e come lui osservava il mondo con contagioso divertimento, ma non da dentro una qualche nevrosi. La sua personale nevrosi, se c’era, sapeva nasconderla. Il suo sguardo era apparentemente bonario, ma aveva un rigore protestante. Ed era forse questo tratto a infondergli il prestigio da guida, da Maestro, anche se lui, «non tronfio delle infinite letture e dei coltissimi ed eclettici interessi, che non usò mai come una clava», come ha scritto Nicoletta Tiliacos sul Foglio, avrebbe cortesemente rispedito il titolo al mittente. E ancora Nicoletta ricorda le «molte vite professionali» di Beniamino Placido, da funzionario alla Camera dei Deputati a insegnante universitario di letteratura americana (per un periodo troppo breve) a direttore della Fiera del Libro di Torino a critico televisivo. E senza nessuna approssimazione o improvvisazione, preparato e serissimo, senza la noia dell’accademia. Sorridente.
Sorridiamo, adesso, al telefono, anche Nicoletta e io, sue amiche – lei più di me – ricordando qualche episodio del passato. Le cioccolate calde da Babington, un famoso caffè romano molto british, dove Beniamino amava invitare le amiche per lo scambio dei regali natalizi, occasioni d’inevitabili pettegolezzi sulle sventurate che per un motivo o per l’altro mancavano al rituale. O i tanti film visti insieme, cui seguivano, intorno al tavolo di un ristorante, litigiosi scontri di idee che qualche volta coinvolgevano anche i camerieri.
O la storia del gruppo di conversazione, detto «della scarpa» (perché quello fu il primo tema da dibattere), che si riuniva settimanalmente, alla fine degli anni ’80, a casa di uno o dell’altro. Era Beniamino a fissare l’argomento, che poteva essere molto frivolo (le scarpe a punta) o impegnativo (il ’68), e in quelle serate ci si divertiva molto ma non si veniva a capo di nulla. Dispettoso com’era però, lui, all’esterno, circondava di mistero quegli incontri «a numero chiuso» giocando sul principio d’esclusione. Diceva che anche le reazioni e la curiosità degli amici non invitati a farne parte gli servivano per un mastodontico studio sulla natura umana che andava facendo. Non per scriverci su un giorno un qualche saggio, ma così, per il gusto di osservare e discuterne in salotto.
Quel gusto di osservare era la sua forza, spesso sostenuto da un mite ma incalzante interrogatorio: «E, dimmi, Sandra, perché il tal dei tali, secondo te, si è comportato in quel modo? Dimmi, Nicoletta, perché X ha ottenuto quello strepitoso successo che Y giudica assolutamente immeritato?» Domande «innocenti» che contenevano un qualche pungolo nascosto capace di eccitare gli animi e di far venire allo scoperto l’interrogato. Si stava sempre un po’ in guardia di fronte alle sue domande dirette, qualcosa avrebbe sicuramente indovinato dalle nostre risposte inutilmente prudenti, qualcosa che avremmo preferito nascondere (e che a tutti gli altri continuavano effettivamente a restare nascoste).
Un giorno mi sorprese enormemente. Il giorno del mio matrimonio. Tenne lui il discorso durante la festa. Disse una cosa cui lì per lì non ho dato la dovuta importanza, e lo disse molto seriamente. «Voi credete di dovervi promettere fedeltà l’un l’altro. Ma non sarà a voi, in quanto marito e moglie, che dovrete essere fedeli, voi siete persone come tutte, avrete stanchezze e tentazioni. Perché un matrimonio duri, bisogna essere fedeli a un terzo oggetto, qualcosa che deve venire salvaguardato e protetto, e questo oggetto è il vostro matrimonio».
Ho ripensato molto alle sue parole nel corso degli anni, di fronte al fallimento di quel matrimonio. Di fronte al fallimento di tanti altri matrimoni di tanti altri nostri amici. E ho pensato che si può restare fedeli a un matrimonio oltre il fallimento, come aveva scelto di fare Beniamino. E che questo aveva cercato di raccontarci quel giorno. Per questo era commosso: parlava di sé, non di noi.
Ho pensato alla sua voce dall’intonazione dolcemente meridionale (era nato a Rionero in Vulture, Basilicata, il primo febbraio del 1929), al modo in cui si tirava il colletto della camicia ogni tanto, una specie di tic che gli serviva anche a prendere le distanze da ciò che stava dicendo o che gli dicevano. Ho pensato che Beniamino era una persona da cui si poteva imparare molto, persone che quasi non esistono più.