Massimo Onofri e Pellizza da Volpedo (Giudizio Universale 22/1/10)
Il popolo avanza fissando il futuro, discutendo, le mani aperte o chiuse a pugno, ma soprattutto aperte con i palmi rivolti al cielo come chi è finalmente pronto a ricevere, dopo aver sempre dato. E’ il proletariato in marcia, il Quarto stato, come s’intitola il quadro che, meglio di ogni altro, rappresenta un momento storico carico di speranza. Giuseppe Pellizza da Volpedo ci aveva lavorato un intero decennio per arrivare, nel 1901, alla rotondità iconica di un’immagine-simbolo. Aveva trentatre anni, era un artista già noto, colto e inserito nel contesto culturale del suo tempo. L’opera fu capita e apprezzata immediatamente.
Eppure sei anni dopo, Pellizza si suicidò impiccandosi. Aveva subìto due lutti insostenibili, quello del terzo figlio, maschio dopo due femminucce, morto nascendo, e della moglie, l’amatissima Teresa, protagonista di tante sue tele, morta per le conseguenze del parto difficile.
Fra questi due estremi: un quadro carico di futuro e di utopia e la fine disperata del suo autore, Massimo Onofri conduce un’indagine ardita arrivando a capovolgere il significato del dipinto. Dov’è diretta davvero quella folla di scioperanti affamati? Crede di andare a riscuotere la sua porzione di esistenza felice e invece è protesa sul vuoto, sull’assenza di un progetto sociale che sul serio la contempli. E’ destinata al fallimento del sogno di uguaglianza per cedere il passo ancora una volta agli sfruttatori, perché il capitalismo, l’ingiustizia, la crudeltà della natura umana e del mistero in cui l’umanità è immersa non sono dalla sua parte.
Il modo in cui Onofri, critico letterario che si rivela qui anche sensibile lettore di quadri, mette in relazione la biografia di Pellizza – la sua mania depressiva, la fragilità di maschio, più eterno figlio che padre dei suoi figli – con una segreta premonizione del vero destino delle rivolte sociali, è emozionante e illuminante. Ecco perché un quadro, così prepotentemente narrativo e persino didascalico, ha la capacità di accendere ancora e sempre i nostri entusiasmi. Ecco perché Giuseppe Pellizza è un grande artista (e l’indagine di Onofri contempla anche molte altre sue opere così come i rapporti con scrittori e poeti del tempo, primo fra tutti Giovanni Pascoli, e Verga…)
Ed ecco come questa tela immane (conservata alla Galleria d’Arte Moderna a Milano) che per un secolo ha parlato di progresso e riscatto può diventare nella fantasia di Massimo Onofri, ma con motivazioni convincenti, il simbolo del suo contrario: il suicidio del socialismo, forse proprio per un eccesso di utopia. E può persino passare, grazie alla sua energia notturna e rimossa, dall’essere sfondo e grande affresco di un film come Novecento di Bernardo Bertolucci, che ancora ne interpreta l’anima luminosa, alle pareti dell’ufficio di Bettino Craxi con uno scarto glamorous sinistramente presago di un’ignominioso naufragio.