La Berlino di Mario Fortunato (L’Unità, 28/4/14)

La Berlino di Mario Fortunato (L’Unità, 28/4/14)

UnknownDel dicembre 1989, a Berlino, ricordo il rumore delle picconate sul Muro. Un’euforia distruttiva si era impossessata di tutti, berlinesi e non, e mentre si passeggiava sotto i tigli costeggiando quella famigerata «barriera di protezione antifascista»  – come ufficialmente l’avevano definita i sovietici al momento della costruzione nel 1961 – si aveva la percezione commovente e indelebile che si stava attraversando la Storia. Berlino per me sarà sempre legata a quelle forti emozioni, alla gente, ebbra di felicità, a cavalcioni sul muro grigio o istoriato, a Rostropovich abbracciato al suo violoncello, che improvvisava un concerto al Checkpoint Charlie e uno sparuto gruppo di persone lo riconosceva e gli faceva capannello intorno. Scorrevano lacrime di felicità perché la paura finiva, finiva la divisione e cominciava qualcosa di nuovo e meraviglioso. La Storia sembra meravigliosa quando cambia pagina, e poi, invece, già il giorno dopo ricomincia con difficoltà ed errori.

Le voci di Berlino di Mario Fortunato (Bompiani, 188 pagine, 18 euro) mi ha riportato di forza a quei giorni, a quel fantastico sentimento di centralità, quando puoi dire «io c’ero» e non per vanagloria, ma per un’intima sintonia col tuo tempo. Mi ci ha riportato insieme a Thomas, uno dei suoi personaggi, «risucchiato da un vortice di braccia, mani, facce e bottiglie di Sekt», che si issa sulla Porta del Brandeburgo «dove una massa compatta di individui mimava una danza senza musica ma ugualmente scatenata» e da lassù assiste «a uno spettacolo grandioso e sconvolgente, che avrebbe potuto esigere di chiamarsi rivoluzione e che invece preferì definirsi in maniera più equilibrata: Wende, cioè “svolta”».

Thomas è una delle «voci» di questa Berlino che Fortunato racconta dal 1929 al 2011 in modo inconsueto: attraverso squarci di biografie di protagonisti, noti come Christopher Isherwood, Wystan Auden, i figli di Thomas Mann Erika e Klaus, Gerd Schäfer, e anonimi come Thomas, come se stesso ragazzo mescolato agli altri personaggi, ma dando a tutti affettuosamente del tu, chiamandoli per nome. Li racconta nella loro ricerca di identità, sessuale e artistica, o semplicemente esistenziale, sullo sfondo di questa città plasmabile, liquida, divisa, tragica ed euforica. Racconta tante storie d’amore fra maschi e storie di amicizia, storie di matrimoni sbagliati o necessari a “correggere” un’omosessualità avvertita, da alcuni, come ferita, ancora una volta come scissione, simbolicamente incarnata nel Muro che attraversa Berlino a sua volta attraversata dalla Sprea, il largo fiume complice incolpevole, a tratti, della divisione.

Mario Fortunato

Mario Fortunato

La scrittura calma, elegante, accompagna come il fiume le storie,  fa da energica sponda quasi fosse necessario un argine, contenerle insomma queste inquiete giovinezze. Berlino cambia nel tempo. Negli anni Venti è «il luogo più vizioso dai tempi di Sodoma», una città sull’orlo dell’abisso di ogni perversione come di una clamorosa crisi economica. Wystan e Chris non possono sfrenarsi che lì e farsi le loro tenere ossa letterarie, sono poco più che ventenni. «Berlino era la città paradossale e turgida dipinta da Otto Dix e Georg Grosz, la metropoli moderna e stracciona dell’Opera da tre soldi» spiega l’autore raccontando le loro esperienze sentimentali, il diverso approccio all’eros, i loro diversi e comunque grandi risultati artistici. L’eroe degli anni Trenta è un ormai dimenticato Rinus, lo spostato che incendiò il Reichstag e sarebbe entrato in un romanzo di Isherwood del ’35, lo stesso anno in cui Erika Mann si fa sposare dall’omosessuale Auden per ottenere la cittadinanza britannica. Non avrebbero mai divorziato. Negli anni Sessanta comincia la tragedia della lacerazione, la città si fa due, ci sono fughe, uccisioni. Le voci raccontano storie dimenticate di tunnel scavati da est a ovest, di fuggiaschi lasciati a morire nella terra di nessuno fra un muro e l’altro, perché per rendere più difficoltose le evasioni dalla grande prigione della DDR i muri erano diventati due.

Ma ci s’innamora anche in tempo di guerra, ci s’innamora o semplicemente si fa l’amore anche in epoche tempestose. Le storie man mano che il libro avanza diventano più anonime, forse più personali. Quella finale, in una Berlino ricca e unificata quale oggi la conosciamo, celebra una pacificazione minima dentro la grande pacificazione della Storia, quella di tre personaggi: una giovane coppia di curdi, Azad e la giovanissima Rojin  e l’inglese Mark, innamorato dell’irrisolto mentitore Azad. E Berlino non è più quella di Isherwood, non è nemmeno più quella generosa della riunificazione, quella «non ossessionata dal denaro e dall’affermazione sociale», è «diventata senza accorgersene la capitale dello Stato più influente dell’Unione Europea». Finita la leggenda, infranto il mito. E’ la contemporaneità, più comoda dopotutto, in cui i tradimenti coniugali si risolvono senza drammi, le identità sessuali si confondono, in cui ci si può perdere senza danni, anzi in questo perdersi finalmente trovarsi. Non decisamente maschi o decisamente femmine, ma semplicemente esseri umani.

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