La formazione della scrittrice (su Vibrisse, maggio 2014)
Nella leggenda familiare si dice che intorno ai quattro anni fui messa su una sedia a recitare la poesia di mia invenzione: “Son piccina, son carina/ son la gioia del papà/ ma se sporco la vestina/ il papà mi fa tò-tò”. Riconosco nei contenuti e nei versi approssimati non la mia piccolezza, ma la retorica borghese che regnava in casa, dunque immagino che i veri autori fossero proprio i miei genitori. Nel corso del tempo, probabilmente, osservando le mie inclinazioni letterarie, si sono confusi e hanno attribuito a me la proprietà di versi che non mi preme minimamente rivendicare. Anzi, appena ho avuto la possibilità di scegliere, il mio gusto e le prime prove artistiche si sono subito mosse in senso contrario: a me piaceva tutto ciò che era spiazzante, inedito, bizzarro. Una delle prime poesie che potevo a buon diritto riconoscere mie e che affidavo a un quadernetto segreto durante le elementari, inneggiava alla felicità dello sporcarsi da capo a piedi rotolandosi nei campi. Molto presto ho scoperto l’esistenza di un genio di nome Kafka imbattendomi nei suoi racconti alla biblioteca scolastica delle Medie. Fu un’emozione così forte che non riuscii più ad aprire uno dei Delly che pure avevano deliziato la mia prima adolescenza promettendomi grandi amori romantici.
Nel ‘68 avevo 16 anni, ma mi riconobbi subito nel bisogno di sovvertire tutto della generazione appena più grande di me, quella che già andava all’università (e credo che La lettera al padre di Kafka avesse delle responsabilità). Io mi limitavo a partecipare ai picchetti per impedire l’entrata in classe quando era annunciata un’assemblea o a partecipare alle manifestazioni mano nella mano col mio ragazzo, molto bello, molto ribelle e già al primo anno di Medicina. Di politica non capivo niente, ma capivo l’aspetto artistico della Contestazione. Non sopportavo i violenti, quelli che arringavano a sbudellare gli “stronzi borghesi” al più presto, mentre andavo pazza per la dolcezza hippy, il fate l’amore non la guerra di ascendenza americana. Il futuro medico fu prontamente sostituito da un angelo biondo tedesco, dai capelli lunghi e camicie a fiori, che girava il mondo in autostop, fumava erba indiana e scriveva in inglese cose bislacche su fogli volanti che regalava alla gente per strada senza preoccuparsi del copyright. Io intanto cercavo di perdermi a Londra, detta swinging, adoravo Marianne Faithfull, scrivevo poesie incandescenti e pacifiste (trovavo gli ossimori particolarmente espressivi) e leggevo moltissimi libri.
Il ritorno dall’Inghilterra fu all’insegna della normalizzazione. Non dal punto di vista letterario, però. Prendevo ottimi voti e mi laureai con la lode. Mi sposai con un giovane insegnante universitario precario di Letteratura Moderna che era l’unico cui sottoponevo i primi tentativi di scrivere un romanzo. I miei versi avevano ricevuto una certa attenzione. Erano usciti su varie riviste canoniche e una plaquette era stata raccolta in un Quaderno Collettivo della prestigiosa Società di Poesia, costola della Guanda. L’introduzione me l’aveva scritta Giovanni Raboni. Ma io ero un po’ in crisi con la poesia, avrei voluto narrare, però in un modo “diverso”, non tradizionale. All’università in quegli anni regnava la neo-avanguardia, si scriveva sui muri “l’Arte è morta”. Un povero poeta, che non smembrasse i testi come faceva Nanni Balestrini, era visto piuttosto male….
Già da qualche anno, trovando su una bancarella un librone della Sugarco che in copertina aveva la faccia meravigliosamente aquilina di Samuel Beckett, mi ero innamorata di lui. Il libro era la Trilogia. Conoscevo il nome di Beckett, ma non lo avevo ancora letto. Dico la verità quando dico che m’innamorai perdutamente del suo viso stranissimo, un viso così prometteva un testo altrettanto originale. Non fui delusa. E mai nella vita, anche successivamente, Beckett mi ha delusa. È un autore che torno a leggere con sorpresa e passione sempre; i testi narrativi più del teatro.
Dunque Beckett mi aprì la mente. Toh, mi dissi, si può scrivere un romanzo anche così, usando gli strumenti dell’inconscio e della poesia piuttosto che quelli canonici dei grandi romanzieri che avevo amato: i russi, i francesi, Jane Austen, Melville, Cervantes. La Woolf e la Duras le scoprii un po’ più tardi col femminismo e furono una meravigliosa conferma del tipo di narrativa che volevo scrivere. Mossi i primi passi in un testo, via di mezzo fra prosa e poesia, che intitolai La non terra, omaggio alla Terra desolata di Eliott e tentativo di svuotare la mia mente strampalata al modo dei Molloy e Malone beckettiani. Il libro mi fu tirato dietro da vari editori, solo Nuovi Argomenti ne ospitò qualche pagina segnalandomi come autrice interessante. Intanto, grazie a Ada o dell’ardore, regalo d’addio del mio innamorato studente di medicina (sosteneva che la protagonista gli ricordava dolorosamente la sottoscritta) avevo scoperto un altro dei narratori che avrei trovato imprescindibili, Vladimir Nabokov. (Non so se a mia onta, un altro dei miei amori giovanili tentò senza successo di farmi entusiasmare all’Ulisse, ma non ci riuscì. Per il Joyce sperimentale ho una vera allergia e confesso che non mi ha mai scandalizzato che Virginia Woolf non l’abbia voluto pubblicare nella sua Hogarth Press).
Nella mia formazione è anche sicuramente importante la partecipazione, a metà anni ‘70, al teatro femminista La Maddalena, a Roma, e in generale al movimento femminista. Esordii in quel teatro (dove conobbi Dacia Maraini, Edith Bruck, Adele Cambria…) con una commedia, Psiche o i fiori di Ofelia, prima riflessione su condizione femminile e mito, tematica che in quel periodo m’intrigava molto e che avrei ripreso nel mio romanzo d’esordio, Navigazioni di Circe, e in almeno un racconto della raccolta Poche storie. Dopo l’esperienza teatrale, comunque, mi concentrai su una storia che somigliava a un romanzo, più per la quantità delle pagine, però, che per la struttura. Era un libero scartafaccio che risentiva della grande impressione che mi aveva fatto Il barone rampante di Calvino e che voleva tornare alle origini del romanzo utilizzando la costruzione cosiddetta a schidionata, quella del Lazarillo de Tormes: uno spiedo in cui infilare le diverse avventure di uno stesso personaggio, un po’ picaro un po’ artista. La mia picara era Circe, solo in minima parte quella omerica, in realtà una dea declassata reinventata da me e che passava il tempo su una spiaggia a sedurre e chiudere in gabbia gli uomini conquistati. Una parabola sull’inconsistenza e breve durata dei famosi amori eterni su cui mi ero baloccata con i romanzi di Delly e simili (risultato anche di una riuscita terapia analitica nella quale avevo discusso e osservato una mia insana tendenza, diciamo consumistica, a dissipare innamoramenti e relazioni).
Fu durante il lungo lavorio su questo ancora sgangheratissimo romanzo che sono accaduti due fatti importanti. Il primo fu il mio coinvolgimento, per motivi non solo intellettuali ma anche sentimentali, nella nascente casa editrice Theoria, che ebbe, fra gli altri, il merito di ridare fiato al romanzo italiano pubblicando una nuova generazione di narratori i quali, grazie al terra bruciata imposto dal Gruppo ’63, non trovavano accoglienza nella grande editoria. Il secondo fu l’incontro con Giorgio Manganelli. Un giorno andai a intervistarlo (lavoravo alle pagine culturali del “Messaggero”). Non osai dirgli che scrivevo anch’io. Ma dopo qualche giorno il caso volle che lui scoprisse dentro una rivista letteraria un capitolo della mia Circe, che era stato lì pubblicato. Lo incuriosì e mi chiese di leggere il resto. Il resto era quasi impresentabile, ma il Manga, come lo chiamavano tutti nell’ambiente, ebbe la pazienza di fare con me quel che Pound fece per Eliot (absit iniuria verbis). Mi indicò gli errori, mi segnalò dove centravo “la mia voce”, il mio “battito cardiaco” e dove invece li perdevo, dove cedevo – diceva – a cadute giornalistiche. Il mio merito fu capire la lezione, e lo scartafaccio divenne un libro, una specie di romanzo, strambo come piaceva a me, ma pur sempre un romanzo. E s’intitolò, come suggerì lui, Navigazioni di Circe. Era il 1987. Facevo finalmente il mio ingresso fra gli autori pubblicati da Theoria e nell’allora molto ristretto universo dei “giovani” scrittori, nonché nella cerchia esclusiva di una Società Letteraria che, con la scomparsa recente di Elsa Morante e di Italo Calvino, si andava definitivamente spegnendo.
Ps. Ho qualche difficoltà a chiudere qui, perché mi sembra che la formazione di uno scrittore non finisca veramente mai. Io a ogni libro cerco prima di tutto la forma in cui narrare, e così ogni volta ho l’impressione che mi sto sempre formando. Ma “Scrivere non insegna altro che a scrivere” diceva Marguerite Duras, e perciò – nel migliore dei casi – si continua a imparare per tutta la vita.