Il Notturno di Gennario Serio (L’Indice aprile ’20)
Nel romanzo d’esordio di Gennaro Serio, vincitore del Premio Calvino 2019, Enrique Vila-Matas compare nei panni di un furioso assassino che non sopportando l’incompetenza di un poco motivato intervistatore, lo fa fuori senza tanti complimenti e con inaudita violenza. Del resto, a pag. 140 del libro – dal titolo Notturno di Gibilterra e pubblicato da L’Orma – leggiamo: «Il vero scrittore è l’assassino, non è il detective né il salvatore, e la sua opera deve essere distruttiva, non deve piacere ai re». E se questo Notturno non piacerà ai re, a me, che non sono regina di nulla, è piaciuto moltissimo. Del resto ero nella giuria del Calvino che l’ha premiato. E mi è piaciuto proprio per la sua distruttività. Cosa distrugge il trentenne Serio nel suo racconto? Prima di tutto la noia insopportabile e la prevedibilità variamente mascherata di furbizia che invade tanti prodotti medi, fra il buono e il mediocre, traboccanti negli scaffali e spesso anche sui banconi dei librai. Poi in particolare distrugge, facendone una sorta di parodia, il genere più in voga (e ai miei occhi più noioso di tutti) ovvero il giallo anche nella sua forma più sofisticata, il noir, che sofisticato non è più da parecchio tempo.
Detto questo, non è che un romanzo si può reggere solo per quello che non dice e non fa, e Notturno di Gibilterra decisamente non fa il bravo romanzo basato sulla trama stringata con un inizio e una fine “a sorpresa” (ma già decisa a tavolino dall’autore fin dall’inizio, e quindi facilmente decifrabile dal giulivo lettore a circa metà della storia) e non racconta che situazioni strabilianti e incredibili, ma con il respiro della cultura alta, anzi altissima, e di un mai deposto realismo (qui si dovrebbe aprire la discussione: che cosa è mai il realismo?) Insomma, cosa dice davvero questo romanzo? Dice la letteratura, dice il narrare in sé. E per farlo ricorre a una serie di scene (alcune indimenticabili e struggenti) che si rincorrono e s’incatenano l’una all’altra per 258 pagine. C’è un improbabile detective, innamorato della sorella scrittrice Soledad alla quale scrive lunghe lettere, e c’è appunto Soledad, che lo ispira e lo spinge a proseguire la sua insensata indagine fra un cargo e un Grand Hotel in giro per il mondo, agitandogli davanti agli occhi, come una pezza rossa al toro, i casi di fenomenali investigatori da Sherlock Holmes a Maigret, da Padre Brown a Pepe Carvalho e (ricchissima) compagnia.
Soledad, intelligente in modo imbarazzante, è inquieta e misteriosa, parla coi fantasmi e spesso si traveste. Il più leggendario dei suoi travestimenti resta quello da Molly Bloom (che per inciso sappiamo nata a Gibilterra) per un 16 giugno dublinese che celebra, come ogni anno, il Bloomsday in onore dell’Ulisse di James Joyce. Qui, voglio dire a Dublino, dopo aver lanciato anatemi contro i nemici del romanzo joyciano, quegli «untori che hanno diffuso la diceria del libro “illegibile”, per avallare la pigrizia dei molti che non lo leggeranno e per guadagnare terreno nella battaglia campale dei Nemici delle Lettere», Soledad-Molly fa incontri strepitosi con i vivi e con i morti, da Sebald che passeggia con Walser, a Hemingway che fa il cascamorto con Karen Blixen (se volete sapere in che senso, leggete le loro biografie), al querido Antonio Tabucchi, allo stesso Vila-Matas che ricompare in veste galante… ma soprattutto si lancia in un monologo interiore da far invidia alla Molly originale.
Almeno un’altra impresa dell’ineffabile Soledad la voglio raccontare: quando dopo aver steso l’elenco delle sue convinzioni sullo scrivere («la leggerezza calviniana ha già stancato, il romanzo ha bisogno della dimensione tragica per sopravvivere, la morte del romanzo è una chiacchiera da bar, quindi lo è anche la sopravvivenza del romanzo, la letteratura non attiene al sociale né al mondo in generale…») compie, in versione femminile, il gesto memorabile di Mickey Sabbath nel Teatro di Sabbath di Philip Roth, quando profana la tomba dell’amante in uno sconcertante gesto di estrema dedizione. Soledad, non per amore ma per vendetta, solleva la gonna, si mette a cavalcioni sulla lastra di marmo e «ricopersi di urina la tomba del maestro (che era anche la tomba di sua moglie)».
La quantità di riferimenti letterari è così ampia da domandarsi cos’altro abbia fatto nella vita, oltre a leggere, il napoletano Gennaro Serio nato nell’89. Il che va ovviamente a suo grandissimo onore. A un certo punto, quando cita Beniamino Placido, intellettuale dalla sagace, ironica brillantezza, mi ha persino commosso: come fa a ricordarsene uno che quando Beniamino è scomparso (nel 2010) aveva solo vent’anni? Anche questo sia aggiunto a suo onore.
E infine una confessione: non sono una fanatica di Joyce, eppure ho letto questo Notturno di Gibilterra, che al vecchio James deve qualcosa, con pura passione. Ne ho ascoltato la musica ammaliante (perché è un libro molto musicale) con grande rispetto e vera gratitudine in nome della negletta compagna Letteratura.