Giorgio Manganelli o Jorge Tripe? (Il Foglio, 21 novembre 2020)
«Mi lasci ‘sta roba in portineria» disse scontroso Giorgio Manganelli nel telefono a una Romana Petri sui vent’anni che aveva osato cercare il suo numero in elenco (allora funzionava così, erano i primi anni Ottanta) per chiedergli di leggere certi racconti che aveva scritto. «Mi lasci ‘sta roba in portineria»: immagino esattamente il tono fra lo scocciato e l’imbarazzato, la voce indimenticabile con la erre moscia, quel buttar fuori la frase come un colpo di tosse. Quante volte l’ha usato anche con me quel tono, che non capivi se ti prendeva in giro o proprio ti voleva vedere morta perché lo stavi tremendamente ammorbando. E’ stata un’emozione grandissima, lo ammetto, ritrovarlo tale e quale nelle pagine di un libro che a occhio gli sarebbe piaciuto parecchio, anche se si permette la Lesa Maestà di ispirarsi a lui: Cuore di furia, della suddetta Romana Petri, uscito ora da Marsilio (152 pagine, 16 euro). Tale e quale: il corpo goffo, «pingue e dissestato», quel modo di camminare «col busto inclinato in avanti e le braccia incrociate dietro la schiena», uno che «gli si scontravano dentro» ilarità e tragedia «perché gli erano toccati quei due contrari tanto litigiosi». Uno che un giorno se ne scappò da Milano in Lambretta, o forse era una Vespa (che differenza c’è fra una Vespa e una Lambretta?) mollando tutto, ma proprio tutto per trasferirsi a Roma. Ma che dico trasferirisi, per fuggirsene da un matrimonio disgraziato, da una paternità per lui invivibile, soprattutto da un amore folle, nel vero senso della parola, per una giovanissima Alda Merini già poeta e già fuori di testa. Si erano conosciuti che lei aveva diciassette anni e lui ventisei.
A un certo punto lui – trentunenne – salì sulla famosa lambretta e faticosamente arrivò a Roma. Senza bagaglio. Senza casa. Senza niente. Rompendo i ponti con l’università dove insegnava, con la famiglia, con quella donna impossibile (la Merini, che un giorno aveva fermato per strada la Fausta, legittima moglie di Giorgio, apostrofandola: «Signora, lo sa che mi sono innamorata di suo marito?» e l’altra, senza fare una grinza: «Ma se lo prenda, benedetta, se lo prenda». Così almeno racconta la figlia Lietta in un delizioso racconto biografico per parole e immagini, Album fotografico di Giorgio Manganelli, edito da Quodlibet una decina d’anni fa. Dice anche che a convincere Giorgio, o meglio il Manga, perché così era preferibilmente chiamato dagli amici, fu un altro fatto: che un giorno uno zio spazzino della Alda, lo inseguì per Milano minacciandolo con la scopa. Comunque sia, quel mitico viaggio basterebbe alla sua leggenda. Lietta Manganelli parla di “Vespa” e aggiunge una data esatta, il 15 giugno 1953, per quel rocambolesco trasferimento.
Nel racconto della Petri, trasposto in Spagna, tutto diviene ancor più epico: Jorge Tripe, così è ribattezzato il protagonista, la fuga se la fa in trattore, da Barcellona a Siviglia, dove si sistema in un magazzino di granaglie e, non avendo niente di meglio da fare oltre a infilare nel grano «le roditrici mani», legge legge e legge. E a un certo punto diventa scrittore. E cosa scrive? «Un manualetto, una pratica e maneggevole classificazione delle angosce…» Pensa forse a Hilarotragoedia, primo libro pubblicato dal già quarantaduenne Manga? Ma procediamo con ordine. Riapro un libricino meraviglioso del 2016 di Patrizia Carrano dal titolo Un ossimoro in Lambretta. Labirinti segreti di Giorgio Manganelli (Italo Svevo ed.) e guardate cosa trovo: «Forse la Lambretta è un’ennesima invenzione letteraria, una menzogna, una celia, un paradosso: una sorta di animale immaginario, metà metallo e metà carne, un Ippogrifo meccanico prodotto su scala industriale… E che ne è stato di lei? Si è fusa nel tragitto troppo lungo ed è stata abbandonata sul ciglio della strada come la carcassa di un ronzino?» Vorrei rassicurarla (e qui do la mia personale testimonianza). Io quel vecchio scooter, o meglio quel che ne restava, l’ho visto! Il vecchio grigio manubrio troneggiava fissato a una parete, come corna d’animale ucciso nei safari, nella casa di Ebe Flamini (dedicataria del romanzo di Romana Petri in cui però viene ribattezzata Dolores), compagna dello scrittore a Roma fino alla morte di lui, ma tenuta (da lui) semisegreta, abbandonata e ripresa, tormentata con tradimenti e fughe anche di anni.
Che ci facessi io a casa di Ebe Flamini è presto detto: la intervistavo dopo la morte del Manga (28 maggio 1990) a proposito delle carte di cui si era scoperto fosse lei l’erede. E così potevo toccare con mano che quel leggendario centauro che nei primi Cinquanta si era fatto i 600 chilometri fra le due città era esistito davvero. Ne vedevo altri pezzi sparsi per la stanza. E sinceramente rabbrividivo. Anche nello scoprire che colui che consideravo un monaco interamente dedito alle lettere era stato sentimentalmente… un mascalzone! Perché a poco a poco venivano a galla altre storie, altri grandi amori, affanni, dolori, tradimenti, altre vedove inconsolabili, pronte a dimostrare il proprio ruolo centrale nella vita dello scomparso con una lettera, una poesia, un ricordo. E del resto bisogna capirlo, dietro quella sua aria irraggiungibile e selettiva, quel suo geroglifico modo di porsi ardeva l’anima sconvolta e incendiaria di chi può scrivere (secondo la Petri, ma siamo tutti d’accordo credo) «libri tanto astratti in apparenza eppure tanto viscerali».
Mi racconta, Romana, di una sera del lontano 1984 in cui l’aveva invitato a cena insieme al comune amico scrittore e traduttore Augusto Frassineti, che sarebbe scomparso l’anno dopo. «Giorgio pretese che l’andassi a prendere a casa presto, in modo da sedersi a tavola alle 20 in punto». E siccome, fra stappare bottiglie e scolare gli spaghetti, passa un po’ di tempo in più, uscendo dalla cucina lo trova che sta inseguendo Frassineti intorno alla tavola impugnando una forchetta al grido “Ti mangio, ti mangio!”. Fra un tripudio di risate naturalmente.
Memorie come queste hanno acceso in lei la voglia di raccontare uno scrittore tanto stravagante, prendendosi pure tutte le libertà dell’invenzione. Quella, per esempio, di infilarsi dentro la storia di Cuore di furia non come Romana Petri, ma con il suo anagramma, Norama Tripe, in qualità di figlia. Figlia abbandonata e negletta, che – nella realtà come nel libro – si precipita un giorno da Milano a Roma (pardon da Barcellona a Siviglia stando al romanzo) presentandosi inattesa alla porta del padre. Il quale la fa entrare sì, ma la chiude subito in terrazzo perché deve ricevere nientepopodimenoche Carlo Emilio Gadda, venuto a insultarlo come vigliacco imitatore. Siamo nel vero o nel fantastico? Nel vero! E’ un altro capitolo della leggenda manganelliana. Così andarono le cose, anche se Romana qui stravolge ancora una volta i nomi e Gadda diventa Carlos Emilio Croconsuelo andando l’autrice a ripescare nella Cognizione del dolore quel puzzolente formaggio, una specie di gorgonzola, che gli piaceva tanto, orgoglio del sudamericano Maradagàl, “el queso mas fetente del mundo”.
Ma perché andarsi a sostituire proprio alla figlia, mi domando, che è viva e vegeta e potrebbe anche risentirsi a ritrovarsi protagonista della vicenda nel personaggio più psicologicamente complesso del libro? Un personaggio sublime e meschino, che passa dall’amore all’odio, dalla rivendicazione al desiderio di innalzare a quel padre assente e meraviglioso (una volta realmente scomparso dalla Terra) un altare per l’eternità. In effetti Jorge Tripe muore che siamo ancora a metà del romanzo. Poi il resto è lavoro sulle sue carte (di Dolores e, morta anche Dolores, di Norama). La poetica Norama incantata dal Guadalquivir, fiume andaluso carico di presagi «che a cielo schiarito d’ogni nuvola aveva affogato un gran bel numero di stelle». Qui, mi spiega Romana Petri, entra in gioco la sua vecchia passione per l’enigmistica (e del resto non fu proprio Manganelli a definirla – recensendo nel 1990 il suo primo libro, Il gambero blu e altri racconti, uscito da Rizzoli grazie a lui – «scrittrice intensamente visiva, cromatica, e insieme incline al gioco enigmatico»?) Sì, al Manga gli enigmi piacevano enormemente, soprattutto il grande enigma della morte e della vita, che poi – come dice Jorge Tripe nel romanzo – «è un po’ tutta una tonteria». Eppure questa storia di andarsi ad anagrammare proprio nel nome dell’ipotetica figlia deve avere un significato più profondo.
«Ma sì» ammette Romana «l’ho detto tante volte: ho avuto due padri, uno naturale e uno letterario». Mario Petri, il basso-baritono al quale ha dedicato il bel ritratto de Le serenate del Ciclone (Neri Pozza) e, appunto, Manganelli. «Però io non sono Norama Tripe». Nome improbabile, come l’identificazione automatica con lei. E allora? Allora ecco la soluzione dell’indovinello: «L’anaffettività di un genitore crea qualcosa di micidiale: un doppio carico d’amore, da una parte il rancore, dall’altro un enorme bisogno di conquista». Ma non mi pare che Mario Petri sia stato un padre anaffettivo… «Certo che no» conferma. «Ma Manganelli sì. E come lui tanti altri uomini-libro che altro non sanno dare se non la loro incontestabile intelligenza, la loro natura cartacea. Hanno avuto infanzie tremende e ne fanno pagare lo scotto alle persone vicine». Qui Romana si incendia di una sua nuova furia: «Mi verrebbe voglia di bucargliela quella bolla in cui vivono rinchiusi…» Soltanto adesso mi viene in mente che è stata sposata con un altro di questi uomini-libro, Michele Mari, scrittore di gran tempra, dal carattere assai spinoso si dice, e con il quale ha un figlio e che forse, a occhio, ispira Figli dello stesso padre, altro libro della Petri piuttosto duretto, e anche un po’ Ti spiego… Ma basta cercare la vita dietro le pagine. Tanto per restare in tema la letteratura è menzogna, secondo il Manga, e certo Cuore di furia è pieno di menzogne di vera romanziera, quelle per capirci che a furia di mentire dicono la verità più autentica. Ma ci stiamo perdendo nel labirinto fra pagine e intenzioni. E si sa che gli scrittori delle nascoste loro motivazioni preferiscono tacere, spesso nemmeno le conoscono. Servono solo a rendere più affascinante una narrazione, che più segreti autobiografici nasconde più incanta il lettore, almeno quello di serie A, che non vuole intrattenimento, vuole sprofondare nel magma indefinibile del suo e altrui inconscio.
Del resto il bianco della pagina è uno spazio «né mite né generico» scriveva lo stesso Manganelli in Sconclusione e ora mi torna in mente il mio primo incontro con lui. Mi ero presentata a casa sua per intervistarlo, con tanto di registratore. Era il febbraio del 1985. Ma riuscì quasi subito a ribaltare i ruoli e per prima cosa mi fece spegnere l’apparecchio cominciando lui a interrogare me: «Scusi, sa, se lei mi fa l’intervistatrice qualsiasi, io non ho molto da dirle. La cosa non m’interessa. Ma se lei si svela come persona, allora sì, allora l’incontro è uno scambio e funziona». E infatti funzionò, e diventammo amici. Almeno come si poteva essere amici fra noi, essendo io una scrittrice alle prime armi e lui un’icona della letteratura italiana. Era più un rapporto Maestro discepola. Devo ancora avere da qualche parte lo scartafaccio di un mio primo romanzo in lavorazione pieno dei suoi segni rossi e blu (poi uscì con il titolo che gli aveva dato lui, Navigazioni di Circe…)
E così, con Romana, ci mettiamo a rivangare fatti accaduti più di trent’anni fa, paragonare situazioni, rimbrotti, complimenti. Quando a me chiese quale fosse il miglior romanzo, se non l’unico, di Dickens. E la risposta giusta era: La bottega dell’antiquario. E a lei pose quest’altro indovinello: «Fra Dickens e Jane Austen chi sceglie?» Ma Austen naturalmente! E della Austen qual è il romanzo più bello? «I romanzi della Austen sono perfetti come cruciverba» diceva. Io avrei poi tradotto Emma che era effettivamente il mio preferito. E per fortuna anche il suo!
Così ridiamo, perché il Manga era un uomo tanto tragico da essere andato oltre e aver scavallato la tragicità per approdare in una vasta zona ilare e buffa abitata dalle sue immancabili bretelle – e qui leggere l’imperdibile Gli straccali di Manganelli (Sedizioni) di Viola Papetti, altro suo colto grande amore che tanto fece soffrire Ebe-Dolores e alla quale una volta scrisse una lettera che cominciava così: «Carissima sua Turpitudine».
Intanto la stanza s’affolla di fantasmi e io chiedo a Romana-Norama se crede davvero in quello che ha scritto in Cuore di furia quando afferma: «Ognuno cavalva il suo trattore almeno una volta nella vita» e mi risponde di sì e ci mettiamo a pensare quale sia stato il nostro trattore e quando. Quale grande fugone abbiamo preso, insomma, e con quali conseguenze. Ma non è roba da scriverne adesso, semmai in qualche libro a venire. Per ora ci chiniamo sulle righe finali di Amore, pubblicato dal Manga nel 1981 e che per Romana nel suo romanzo sono la cifra del rapporto fra Tripe e Dolores: «Lo sai, dunque, che questa è la descrizione del nostro amore, che io non sia mai dove sei tu, e tu non sia mai dove sono io?»
A proposito degli uomini di carta che ci fanno impazzire di dolore.
Rossella Rossini
Non solo recensione a Cuore di furia, ma saggio affascinante e ricco di informazioni e suggestioni so Romana Petri e Giorgio Manganelli
Sandra Petrignani
Grazie!
guido villa
((((( Facebook/Messenger ed altro, non funzionanti recentemente su molti Utenti mi obbligano ad usare un “trucco” per comunicare con te, se vai sul mio profilo c’e’ un post visibile solo a te. Poi questo preambolo si potra’ cancellare.)))))
–
Qui copio/incollo:
“Recensione sontuosa, o meglio interessante saggio con molta tua autobiografia letteraria, per questo bellissimo libro di Romana Petri.
L’analisi del libro, cosi’ precisa, permette di capirne aspetti nascosti, l’intreccio personale con Giorgio Manganelli e con la Petri stessa e’ molto suggestivo, incluso il riesame di precedenti libri, fin dal suo primo finito “in mano” a Giorgio Manganelli.
Note, ricordi, considerazioni, foto interessanti, bellissima lettura che onora il libro stesso.”