Incontro con Charles McKeown (da L’Unità, 18/10/09)
Quando mi hanno presentato Charles McKeown (viviamo a due chilometri di distanza nella campagna umbra) dicendomi che aveva lavorato con i Monty Python, ho pensato che una faccia come la sua non poteva che essere predestinata a quel gruppo di artisti lunatici e bizzarri. Faccia a parte, però, Charles è una persona timida, molto schiva. E che nella vita avesse fatto altro che recitare con i Python, l’ho dovuto scoprire per conto mio, un poco alla volta, mettendo insieme indiscrezioni di amici e notizie uscite sui giornali: attore di cinema e di teatro, autore di commedie, soprattutto sceneggiatore con Terry Gilliam di alcuni capolavori come Brazil, Il barone di Munchaussen e questo Parnassus, l’uomo che voleva ingannare il diavolo che domani sarà presentato a Roma, al Festival del Cinema.
«Lavorare con Terry ha poco a che fare con la scrittura di una sceneggiatura tradizionale» dice. «Significa risolvere i problemi che la sua fantasia crea strada facendo. Per fortuna ha anche lui una casa in Umbria, intorno a Umbertide, a un centinaio di chilometri da me. Le cose vanno così, quando ha in mente un film: ci vediamo e parliamo per ore di tutta la storia. Poi lui tira fuori un’idea centrale su cui io a casa mi metto a lavorare. Gli invio per e-mail le mie pagine, lui le riscrive a modo suo, io gliele rimando e così via. Durante le riprese, di nuovo salta fuori questo o quel problema: uno sceneggiatore in realtà con lui diventa un problem-solver».
Poi ci sono le esigenze degli attori che, se non si sentono le parole giuste in bocca, le vogliono diverse. «E’ come stare su un palcoscenico, se sei un sarto corri a stringere o allargare un vestito, se sei uno sceneggiatore corri a cambiare i dialoghi. Gli attori modificano la chimica di una pagina scritta, devi cucirgliela addosso».
Parnassus, oltretutto, ha rischiato di rimanere incompiuto per la morte improvvisa del protagonista, il giovane Heath Ledger. Buttare quanto era stato girato era fuori discussione: il film era già costato un mucchio di soldi e la produzione era molto nervosa.
«Amo Gilliam perché è unico in quello che fa, ne ammiro l’energia e la grinta con cui lotta per raggiungere i suoi obiettivi. E’ stata dura stavolta convincere la produzione che al posto di un solo attore ce ne volevano tre (Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell), ma era l’unica per salvare il film. Grazie a uno specchio magico, che era già nella storia, il protagonista resta lo stesso cambiando di volta in volta aspetto…»
Ma chi è Parnassus? Sicuramente Gilliam, ma forse anche un po’ McKeown, o no? Charles, come al solito, si schermisce: «Questo è un film, sia pure in modo stravagante, molto autobiografico. Parnassus è senza dubbio Terry stesso, che è un mago, capace di coinvolgere e influenzare gli altri, compiere prodigi, manipolare la realtà. Poi qualcosa di mio passa, certo. Per esempio ci siamo divertiti a prendere un po’ in giro con un altro personaggio, che si chiama Tony, anche Blair, quel suo essere seduttivo e totalmente inaffidabile…»
E’ appena tornato da Londra dove la prima del film è andata molto bene e Gilliam è dovuto volare a New York per festeggiare i 40 anni del gruppo Monty Phyton (anche se ormai si è sciolto e ognuno è andato per la sua strada). Cosa resta a Charles di quella esperienza? «Conobbi Gilliam intorno al ’78, avevo poco più di vent’anni, era un periodo in cui passavo le giornate ad aspettare vicino al telefono che mi chiamassero per offrirmi una parte. Non mi sembrò vero partecipare alle cose originali che facevano i Python. Li seguivo in Tv fin dall’inizio, li adoravo. Cominciai con Brian di Nazareth, e poi Time Bandits, che fu un grande successo. Da quel momento Terry mi ha coinvolto per scrivere, la nostra è una collaborazione professionale, ma anche un’amicizia».
E con Liliana Cavani, per cui ha scritto Il gioco di Ripley come è andata? «Benissimo, molto riposante direi. Partivamo da un libro in quel caso e io ero il settimo sceneggiatore che veniva interpellato. Succede spesso così: i produttori non sono mai contenti delle prime sceneggiature. Alla fine sono costretti a dire di sì all’ultimo tentativo».
Solito understatement, quello che gli fa dire: «Sono da vent’anni in Italia e ancora non parlo italiano». In realtà lo parla, ma non perfettamente come vorrebbe e allora preferisce stare zitto («sono un perfezionista»). In Italia ha cominciato a venirci per il lavoro di sua moglie, Erika Langmuir, (storica dell’arte, autrice di una preziosa Piccola guida alla National Gallery) finché hanno deciso di stabilirsi qui. «Perché proprio in Umbria? Per caso. Ci siamo capitati, si vendeva una casa di paese che ci piaceva. L’abbiamo comprata. E adesso a Londra andiamo solo a fare i turisti».