C’era una volta l’Einaudi (l’Immaginazione n.300)
«Ci sentiamo vecchi, gente in crisi, a cavallo tra un’età che scompare e una nuova alla quale facciamo fatica ad adeguarci. Come lontani anche quei valori in cui credevamo! Lenin, il socialismo, lo stesso Gramsci stanno forse per essere travolti, se già non lo sono». Si conclude con queste parole il diario che Daniele Ponchiroli (leggendario editor dell’Einaudi portato in casa editrice nel ’53 da Giulio Bollati) tenne dal 22 ottobre del ’56 al 31 dicembre ’58, pubblicato adesso con il titolo La parabola dello Sputnik. Lo Sputnik, infatti, prima navicella spaziale lanciata intorno alla Terra, partì dall’Unione Sovietica il 4 ottobre del ’57 per dissolversi nell’atmosfera il 4 gennaio del ’58. Ponchiroli l’avvista nel cielo sopra Torino il 26 ottobre, e ne fa un simbolo inquietante di un incerto futuro. Dopo “i fatti d’Ungheria” i comunisti si erano scoperti delusi e divisi, e anche l’Einaudi era stata travolta al suo interno da polemiche e ripensamenti.
Il diario restituisce il clima che vi si respirava in quei giorni all’interno di un’azienda editoriale diversa da tutte le altre: un luogo, fisico e “spirituale”, in cui il privato si mescolava al lavoro in continuazione. Giulio Einaudi era un “padrone” sui generis, «matto come un cavallo», un po’ dispotico e un po’ paterno, geloso, intrusivo, infantile e manifestamente geniale. Gli piaceva continuare lo scambio di idee dall’ufficio a casa sua per tè e cenette o in gite nei dintorni di Torino, o in visite estemporanee nelle bettole che scovava lui, alla ricerca di cibi genuini e vini ricercati. Essere inclusi nel gruppo di queste scorribande extralavorative segnava la differenza fra i dipendenti. Ponchiroli era quasi sempre fra gli inclusi. L’Editore, anche detto “il padrone”, capace di eccezionali e pubbliche gratificazioni verso i suoi “sudditi” amici, alternate a ben più numerose sfuriate, sapeva circondarsi di menti originali e personalità spesso difficili, anche in guerra l’una con l’altra, e trarne vantaggio per la sua creatura.
Magia dei diari. Leggendoli si viene catapultati al centro delle cose, si vedono i fatti ravvicinati, si sentono le voci che il tempo ha seppellito. Una volta di più mi dolgo che l’editoria italiana sia così sorda e cieca al genere. Questo libro, per dire, uno se lo sarebbe aspettato edito dalla stessa Einaudi che dovrebbe tenere alla propria storia. Ma no, è uscito, meritevolmente, grazie alle Edizioni della Normale, università che conserva le carte dell’ex allievo. Ma, va da sé, non è stato semplice trovarlo in libreria. E la ricerca è capitata, per caso, pochi giorni dopo un’altra mia malinconica scoperta: ero a caccia di alcuni romanzi che mi mancano di Ivy Compton-Burnett, scrittrice inglese scomparsa nel ’69 considerata universalmente grandissima. Ho così constatato che le librerie ne sono totalmente sprovviste («fuori catalogo» è la risposta) e i vari commessi non sapevano proprio di cosa stessi parlando. Meno male che c’è Internet. Lì ho potuto fare i miei acquisti (fino a esaurimento scorte. Poi addio Ivy). Ma tanto cosa gliene importa a un pubblico che corre a comprare i nomi quasi sempre dimenticabili che vediamo in classifica? Mani nei capelli e finiamola qui.
Sempre in rete, in compenso, sono capitata su un libretto delizioso di tal Beppe Oreffice, che è stato ispettore commerciale dello Struzzo nei primi anni ’50. S’intitola Con Calvino in Topolino (Edizioni Unicopli). E’ il piccolo memoir di una breve esperienza, anche questa utilissima a capire il clima di una casa editrice che è stata, nel bene e nel male, unica e irripetibile, perché legata alla personalità capricciosa e originalissima del suo demiurgo, detto il Divo Giulio o il Principe: «La grandezza e l’intuito di Giulio Einaudi si manifestavano anche negli uomini di cui ci circondava: li cercava più bravi di lui almeno in qualcosa», scrive Oreffice. Quando, per esempio, lo convocava in riunione riservata, ecco cosa succedeva: «Non voleva statistiche, ma eventi, non numeri, ma passione. La verità è la parola faticosamente condivisa, attraverso una relazione anche squilibrata nei rapporti di potere». Perché Einaudi non riteneva i dati inconfutabili, non cercava «una realtà oggettiva e dimostrabile, ma le parole che confermassero la sua idea, l’unica vera realtà per lui», sempre fedele al progetto iniziale per cui la sua Casa doveva essere «il motore per la ricostruzione dell’Italia, arrivando ovunque e suscitando discussione e promuovendo i libri». E così, quando Oreffice gli riferiva che i Gettoni «non si vendevano, producendo cifre disastrosamente esatte», lui s’infuriava, «mi prendeva a male parole e mi dava dell’irresponsabile. Non tollerava la mia incapacità a capire a cosa servissero i miei rapporti». Poi Beppe lo capì e il suo atteggiamento non poté essere che di piena adesione al “progetto”, che con le sue parole si può riassumere così: «Cercavamo la cultura, cercavamo l’utopia, cercavamo la vita, cercavamo per cercare». Ecco.