Intervista all’artista Angelo Bucarelli (da L’Unità 22 sett.’10)

Intervista all’artista Angelo Bucarelli (da L’Unità 22 sett.’10)

Mai stata prima ad Anticoli Corrado, che è il paesino a una sessantina di chilometri da Roma sull’autostrada per l’Aquila, detto «degli artisti e delle modelle» da quando, nella seconda metà dell’800, cominciò a fornire le più belle ragazze (ma anche ragazzi) al lavoro di pittori e scultori. Non ha più di mille abitanti e concentra in una piazzetta centrale e tante viuzze arrampicate un’intatta bellezza, geografica e architettonica, che giustifica l’antico successo come tappa del Grand Tour. C’è anche un Museo civico di Arte moderna e contemporanea ad Anticoli Corrado, che vale il viaggio, perché conserva alcune pregevoli opere dei tanti artisti che, passati per il paese, e fermatisi a lavorarvi, hanno voluto lasciare il pegno di una loro scultura o di un quadro. E fino a pochi giorni fa il museo ha accolto anche un’apprezzata mostra di Angelo Bucarelli che è un omaggio a quegli artisti e alle loro modelle dal titolo: Nomi & Cognomi (catalogo Cangemi).
Di Angelo sono sempre stata curiosa, conoscendolo, senza veramente conoscerlo, da una quantità di anni. Ma la sua leggerezza da elfo, la sua allegria con un fondo malinconico, il suo essere nipote della discussa Palma (a proposito: da non perdere la recente biografia Regina di quadri. Vita e passioni di Palma Bucarelli, di Rachele Ferrario, edito da Mondadori), il suo avere sempre l’aria di divertirsi a occuparsi di altri e non di se stesso me lo hanno reso simpatico da subito. Dunque, strada facendo (guida lui) da Roma ad Anticoli e ritorno, sono giustificata a fargli qualche domanda, anche privata. Soprattutto dopo averne ammirato le «sculture-quadri», eleganti e fantasiose, costruite intorno ai nomi di Oskar Kokoschka, di Fausto Pirandello, di Camille Corot ecc. e delle belle Pierina, Luisetta, Anticolana, Algerina. Questo appoggiarsi ad altre identità e vite, celebri o sconosciute, nel proprio lavoro (tendenza anche mia) mi colpisce e ne chiedo ragione.

Un'opera di Buc


«Vogliamo chiamarla insicurezza? Dipendenza dagli altri?» risponde ponendo domande. «Certamente cifra della mia vita è stata una grossa capacità di dispersione. Architetto mancato, cominciai come fotografo d’arte con un certo successo, ma cosa ho fatto? Mi sono trasferito a New York facendo perdere le mie tracce e mettendomi a produrre cataloghi per gallerie e musei. La girandola di gente celebre, da Andy Wharol a Placido Domingo che mi capitava di frequentare, mi distraeva continuamente da me stesso. Poi avevo fortuna come Art director, come organizzatore di mostre altrui (il nome di Palma mi aiutava) e me lo facevo bastare. La vita vagabonda, mondana e superimpegnata non è favorevole alla creatività».
Insomma una fuga da te stesso artista…ma intanto mettevi su famiglia, tre figlie bellissime dai nomi sonoramente intrecciati come una filastrocca: Cosima, Palma, Sirai.
«Ci voleva una grande batosta per fermarmi e arrivò con la fine del matrimonio. Da lì è cominciato finalmente un viaggio nell’interiorità, ho capito che fare la bella vita non era esattamente tutto quello cui aspiravo. Timidamente mi sono rimesso al lavoro».
Scultura concettuale che ruota intorno alla parola (Il peso della parola è il titolo di una precedente mostra) e, adesso, ai nomi propri.
«I nomi e le parole sono il filo rosso della mia vita. Ho avuto per molto tempo un rapporto difficile col mio stesso nome, Angelo, lo odiavo. Tanto che preferivo farmi chiamare semplicemente Buc. Anche col cognome non andavo d’accordo, per vecchie storie di famiglia: fino a quando non ho incontrato zia Palma e ho ricostruito la parte artistica e avventurosa della mia ascendenza». Fra lui, giovanissimo, e la scandalosa signora dell’arte contemporanea, invisa alla famiglia per i suoi costumi tanto poco borghesi, fu amore a prima vista e Angelo le fu molto vicino anche negli anni della sofferenza e della solitudine.
Un’altra curiosità, i materiali con cui lavora, sempre piuttosto pesanti (ferro, bronzo, vetro, rame, alluminio…) in felice contrasto con la leggerezza della realizzazione, ammiccante, sorniona, spiritosa, sempre luminosissima. Ma a questo rispondo io, un artista non deve spiegare più di tanto il suo lavoro. E io penso che Buc porti, dentro architetture aeree, il peso della vita, dei corpi segnati dal nome che hanno, dal linguaggio che li racchiude come una gabbia, in un gioco di specchi e rispecchiamenti che rende tutto più complicato e meno decifrabile, confondendo il basico alfabeto della comune esperienza umana.

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