Ultima Muraglia (Il Foglio, 20/11/10)

Ultima Muraglia (Il Foglio, 20/11/10)

Ragazzo cinese in un Caffè

Che ci faccio qui, che ci faccio qui, che ci faccio qui. Più che in ogni altro paese asiatico, incomprensibile e allarmante (e ce ne sono), questa frase mi è venuta in mente in Cina, durante un confortevole viaggio, dovuto all’invito di Barbara Alighiero, direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura a Pechino. Eravamo, come succede in questi casi, un non compatto manipolo di scrittori mandati a parlare dei propri libri in diverse università della capitale e di altre città, dove gli studenti della nostra lingua sono piuttosto numerosi, e anche molto curiosi di noi. Spero che la ripetizione della – abusata, lo so – domanda di Bruce Chatwin renda l’immagine di me che sbatto la testa contro il muro. Uno dei tanti muri e muraglie che la Cina abbatte con le sue ruspe sempre attive, ma in realtà innalza, buttando fumo negli occhi del turista, che poco decifra e sempre più si confonde. Muri veri e propri e muri di incomunicabilità, muri di una lingua incomprensibile che non si sforza di comprenderti, muri umani per la gran folla di gente in marcia quotidianamente, a tutte le ore.
Me la trovo intorno, quella massa, pigiata in metropolitana come mi è impossibile descrivere, non mi credereste, o nel traffico parossistico che blocca le sei tangenziali e le tante superstrade, di tre, cinque, anche sei corsie, che s’intrecciano, correndo – le strade, non le macchine intasate sopra – fra grattacieli disordinati e incombenti, a Pechino (ma lo stesso a Shanghai e nelle altre metropoli), in un reticolato impressionante che ti rimpasta nel cervello la tua vecchia idea di città. Le auto aumentano a un tasso di 2100 esemplari al giorno in questa operosa Repubblica Popolare, e nello scorso agosto, causa lavori e vari incidenti, un ingorgo monstre è durato un mese (non sto scherzando) bloccando un’autostrada del nord della capitale verso la Mongolia per oltre 120 chilometri. E pare non sia la prima volta che succede.
Pensavo con orrore a cosa vuol dire riversare sul mercato un numero così alto di auto, alle conseguenze che questo avrà anche da noi, nella vecchia cara Europa, mentre me ne stavo imbottigliata in un ingorgo, rassegnata al ritardo di due ore (due ore!) diretta a un incontro con traduttori cinesi a cui tenevo abbastanza. Poi scoprirò che a piedi ci avrei messo mezz’ora. Dell’incontro coi traduttori dirò dopo, ora immaginatevi sempre me che voglio sbattere la testa al muro o al finestrino del taxi, e contemplo incredula un mucchio di nuovissime auto, smaglianti e lussuose, genere Bmw, mica Smart, la maggior parte di fabbricazione cinese, con dentro quasi tutte una o due persone. Vorrei urlare. Sono tutti pazzi? Ma non si stressano i cinesi?
Un bel giorno ero a Canton, esasperata da un analogo ingorgo nella strada dall’aeroporto all’hotel, e ho chiesto alla sorridente studentessa che mi era venuta a prendere se tutto quel traffico non la rendesse nevrastenica. Lei mi ha risposto serenamente che presto il problema sarebbe stato risolto. Un ingegnere creativo ha escogitato la soluzione: un autobus tridimensionale che correrà sulle superstrade come un ponte mobile e le macchine ci potranno passare sotto superandolo. Mi ha fatto pure il disegnetto, tanto avevamo tempo da perdere, e mi ha scritto il nome dell’inventore, Song You Zhou. L’autobus si chiama 3D Express Coach, lo potete vedere su YouTube in divertentissime animazioni, ma sul nome di Song non giurerei: non ho trovato conferme. E Silvana, la ragazza cantonese, non mi sembrava sicurissima di sé. Silvana, sì: è abitudine degli insegnanti d’italiano, tanto per semplificare la comunicazione, imporre ai loro studenti i nostri nomi, incuranti di somiglianze di significato o sonore con gli originali. Così ti trovi circondato, con un senso supplementare di spaesamento, di Paoli, Caterine, Marie inequivocabilmente cinesi; ma se provi a farti dire i nomi veri per far giustizia dell’indegna sopraffazione, scopri l’impossibilità di memorizzarli, così torni subito, e con la coda fra le gambe, all’uso ingegnoso del nome italiano. Quanto al bus tridimensionale è già pronto un prototipo e sarà inaugurato a Pechino nei prossimi mesi.
Naturalmente in Cina c’è una certa tolleranza per i ritardi, perciò non mi sono persa il mio incontro coi traduttori, anche se il risultato si è rivelato deludente. I cinesi taroccano tutto, i libri non meno del resto. Non c’è speranza di guadagno a vedersi pubblicati in mandarino: se appena un libro va bene, ecco pronti imprendibili editori pirati che lo clonano rendendo impossibile contare le copie vendute. Succede anche agli scrittori cinesi, mi assicura Hong Ying, autrice di best-seller tradotti in Italia da Garzanti (K. L’arte dell’amore, La regina di Shanghai, Gli amanti del tempio). Lei risolve facendosi pagare anticipi vertiginosi, perché ha la fortuna di grosse tirature iniziali, e il resto a perdere. Ma poi non è che per uno scrittore italiano ci sarebbe tutto questo pubblico. Conoscono Dante, Petrarca, un po’ di Machiavelli e un po’ di Ariosto. Quanto ai contemporanei, praticamente solo Italo Calvino e solo per le riscritture delle Fiabe italiane. Perché l’Italia laggiù coincide con Michelangelo, insomma con l’arte, più che con la letteratura. E poi, come da noi, la gente preferisce guardare la televisione: sono un popolo di un miliardo e trecento milioni di individui (ma è in corso un nuovo censimento e le cifre si gonfieranno) pazzi per telenovelas, karaoke, romanzi gialli, porno e rosa. Non sembra di stare in un paese comunista accendendo la Tv: pubblicità sofisticata ogni piè sospinto, speaker di telegiornali (in cinese e in inglese) belli ed eleganti, sorrisi larghi, buona informazione anche su quel che avviene in Europa, Grecia turbolenta e Francia a ferro e fuoco per gli scioperi. Lo stile è americano. Un po’ di censura qua e là, ma che t’aspetti? Per esempio silenzio totale sul Premio Nobel per la Pace al dissidente Liu Xiaobo, che è in carcere e lì resterà. L’ha presa assai male il presidente Hu Jintao, e così tutto il Partito, lo considerano uno schiaffo dell’Occidente. Per il governo Liu è un criminale.
«Perché in Cina, oggi, c’è molta libertà sociale» mi spiega Barbara Alighiero, che frequenta il paese dal ’75 quando cominciava a studiarne la lingua «ma non libertà politica. E guai a parlare di democrazia». E’ il grande tabù. Oggi in Cina puoi fare quasi tutto, anche sfottere il potere e i comunisti, come si permettono tanti artisti; puoi, anzi devi, arricchirti; puoi lasciare 80 milioni di indigenti morire di fame, quelli che vivono con 30/70 euro all’anno; puoi denunciare gli orrori compiuti dalle Guardie Rosse; puoi convivere e non sposarti; puoi portare minigonne inguinali e persino farti beffe del divieto di chattare o stare su Facebook – «abbiamo codici anticensura» mi dice allegra un’Angelica dagli occhi a mandorla -. Ma non puoi chiedere democrazia. Se manifesti per la democrazia, come successe nell’89 a piazza Tien An Men, è il massacro, o finisci in galera per anni.
«A Pechino arriva il meglio dell’offerta culturale internazionale, cinema, teatro, musica, e senza censure» mi dice ancora Barbara. Proprio in piazza Tien An Men c’è il Teatro Nazionale, chiamato familiarmente l’Uovo, per la sua avveniristica, bellissima forma, con una programmazione di primo livello. Ma la cultura non è per tutti, ha prezzi troppo alti, come il cinema, «tanto loro piratano tutto e i film nuovi se li vedono lo stesso, comodamente a casa».

Piazza Tien An Men

C’è anche la mummia di Mao in piazza Tien An Men. Con file interminabili per passare un attimo davanti al cadavere malamente imbalsamato. Mao è ovunque, come la Madonna, veglia dall’alto di grandi effigi immobile nella posa che ha tanto circolato anche da noi, quando ci dicevamo maoisti senza sapere cosa dicevamo. Tutti lo venerano e tutti se ne fregano. E’ stato fatto il processo alla Rivoluzione Culturale, ma Mao è intoccabile. Niente di quanto aveva teorizzato e promesso si è avverato, ma non importa. Le incongruenze sono un elemento che balza subito agli occhi in Cina, la gente ci convive senza visibili turbamenti. E’ moderna e in corsa, è questo che conta. Già in aereo l’aria che tira era stata subito chiara dalle pubblicità che passavano sullo schermo: «Illumina i sogni della tua vita», e intanto un’automobile sfreccia su una strada vuota come nella realtà non è dato. Bagliori accecanti si riflettono sulla lamiera: il Sol dell’Avvenir, anzi dell’Oggi. L’importante è sognare, evidentemente. L’immagine proposta in continuazione dalla Tv è quella di una Cina sportiva e positiva, ricca, giovane e muscolosa. Attraverso i pulitissimi vetri dei grattacieli – lustrati da lavoratori che non hanno protezioni, né fisiche né assicurative probabilmente – vedi attrezzate palestre in cui maschi e femmine sudano insieme, in strada vedi gente giovane in tuta che fa footing in mezzo ai gas di scarico per raggiungere i centrali parchi ben tenuti, con laghi e laghetti, dove qualche vecchio si diletta ancora coi movimenti danzanti dell’antico Tai-chi.
Quando veniamo portati in branco, noi, gli scrittori italiani, a un incontro con scrittori cinesi che si svolge nella vicina Tianjin, il porto di Pechino, con quartieri rimasti fedeli nell’architettura allo stile dei vari insediamenti coloniali, cosicché si passa da uno chalet austriaco a un arco di trionfo alla francese a Sorrento Street e piazza Marco Polo – tracce della passione che Edda e Galeazzo Ciano avevano per la Cina – abbiamo l’impressione di essere a Disneyland. Ci fa da guida Giulio Machetti, professore di storia all’Orientale di Napoli, che con la sua società di restauri, la Si.re.na, ha partecipato ai lavori di salvataggio della concessione italiana e ci racconta il suo braccio di ferro con i cinesi per convincerli a conservare l’area, a non sostituirla con i soliti grattacieli e centri commerciali. Speriamo bene, di ben altri più gravi scempi si sono macchiati per valutare degno di conservazione un pugno di edifici europei Belle Epoque. Ma la cosa veramente bizzarra è che la città è piena di sposi. Tante coppie, lui in abito scuro e lei coi fronzoli del vestito bianco, che si fanno fotografare sullo sfondo irreale di qualche angolo della «città italiana», ritenuta il massimo dell’eleganza. Il bello, però, è che nessuna di queste coppie è vera, nel senso che non sono ancora sposate: stanno solo preparando il book della cerimonia nuziale, che non sanno ancora quando – e se – davvero avverrà. I vestiti sono affittati, e infatti le ragazze, quando allontanandosi dal «set» tirano su la gonna per camminare liberamente, rivelano incongrui jeans e scarpe da ginnastica. Ma appaiono felici così, e per niente impensierite dalla «legge sul figlio unico» che le condanna, da un trentennio ormai, ad avere un solo figlio.
Chiedo a una ragazza che si è appena sposata: «Non ti secca non poter avere più di un bambino?» Risponde serafica: «Adesso di bambini non ne voglio. Poi io e mio marito siamo tutti e due figli unici e in questo caso un correttivo della legge prevede anche due figli!» Positività e ottimismo. Eppure è una legge fra le più inique, che costringe all’aborto o a pagare multe salate chi decide di avere un secondo figlio, per il quale non si avrà nessun aiuto sociale, né per le spese scolastiche né per quelle sanitarie. Quando rientrerò in Italia, la prima notizia internazionale che mi capiterà di ascoltare alla radio sarà quella straziante di una donna cinese costretta ad abortire all’ottavo mese di gravidanza, perché aveva trasgredito alla legge sul figlio unico! Una legge, fra l’altro, che sta squilibrando il rapporto maschi/femmine, aggravando le violenze contro le bambine sgradite, uccise in fasce, abortite, gettate vive nei pozzi per far spazio all’unico figlio maschio, desiderato e concesso, che magari arriva dopo anni di sterilità in una famiglia dove è già nata una femmina.
Povere donne. In visita alle tombe Ming, a 50 km da Pechino, entro nel museo e m’imbatto in una teca dove è conservato il fastoso costume di un’imperatrice del ‘500. Accanto ci sono due scarpette che lì per lì immagino essere di un erede neonato. «No» dice Angelica. «Sono dell’imperatrice. Gli uomini massacravano i piedi alle donne perché non potessero camminare da sole e tradirli. Anche mia nonna aveva i piedi piccoli piccoli e non riusciva a muoversi bene. Soffriva molto».

Le mille luci di Hong Kong

Almeno nelle città la condizione femminile si è ribaltata. Avere una figlia femmina non è più una vergogna e i genitori considerano motivo d’orgoglio far studiare le ragazze come i ragazzi. Così le università in cui capitiamo sono piene di giovani donne, mediamente più vispe e preparate dei loro compagni: parlano meglio l’italiano e sono meno timide. Dicono, a nome dei giovani, cose tipo: «La cultura cinese ci sta stretta, siamo molto curiosi dell’Occidente e consideriamo poter studiare all’estero un grande vantaggio». E infatti chi può, va a studiare in qualche campus americano e chissà cosa succederà in Cina quando tanti figli dalla mente aperta torneranno in patria con un’altra visione del mondo. Altra grande contraddizione di un Paese schizofrenico: tanta repressione per chi chiede in patria una spolverata di libertà democratiche e poi briglia sciolta a giovani scalpitanti pronti a farsi strada nel mondo occidentale. Mentre, intanto, in piazza Tien An Men regnano incontrastati i manifesti di regime accanto al megaschermo dove passano in continuazione le immagini prestigiose della nuova Cina. Mi faccio tradurre gli slogan: «Il socialismo cinese è l’unica via», «Amiamo ardentemente la patria». Vabbè, ho capito.
Ero già stata a Pechino, cinque anni fa, cioè tre anni prima delle Olimpiadi, cioè un insignificante lasso di tempo per qualsiasi altro paese. Ma non lì, non in Cina. Non era stato un impatto piacevole. Cielo perennemente grigio, aria inquinata, baraonda di clacson impazziti nel traffico ingovernabile, gente maleducata, che ti spintonava nelle file, che sputava per terra e si soffiava il naso con le dita scuotendole nell’aria per liberarle dal moccio, magari in bicicletta. Pechino era sottosopra, tutta distruzioni di vecchi quartieri e ricostruzioni formato grattacielo, di corsa per essere pronta per le Olimpiadi 2008, che dovevano lasciare il mondo a bocca aperta. Come in effetti è accaduto: il mondo è rimasto incantato dalla perfezione grandiosa delle spettacolari coloratissime coreografie e dalle mille luci di Beijing. Anch’io sono rimasta a bocca aperta, ritrovandomi in una città profondamente cambiata, fra gente educata che non sputa e non schiamazza. Mi dicono che direttive del Partito hanno vietato di sputare e suonare i clacson, e va bene. Vietato di uscire in pigiama, e va bene. Sono stati piantati moltissimi alberi, sono sorte qui e là aiuole con praticelli vellutati e fiori sgargianti, e va bene. Ma con il cielo come hanno fatto? In 15 giorni a Pechino ho sempre goduto di cieli color fiordaliso. Un miracolo di Santo Mao? No, le fabbriche inquinanti sono state spostate dalla città in campagna e ora i pechinesi possono respirare aria relativamente pulita. I poveri sono stati sfrattati dalle loro casette intorno alla Città Proibita, quelle tradizionali, tipo basso napoletano o trasteverino, e sistemati in periferia nei grattacieli dove hanno l’ascensore poche ore al giorno, ma possono sputare e restare in pigiama quanto gli pare. Gira voce che non siano tanto contenti.
Un giorno mi perdo nei vicoli intorno al Tempio del Lama. «Vicolo» è l’unica parola che conosco in cinese, si dice hutong a Pechino e lilong a Shanghai, l’ho imparato nei bellissimi libri sulla Cina di Renata Pisu, che frequenta il paese da oltre 50 anni e ne ha raccontato le varie fasi. Insomma, io me ne vado girellando per gli hutong e mi sembra di sognare. Mi lascio alle spalle il caos di bancarelle tibetane intorno al tempio e il solito traffico, spesso e puzzolente. M’inoltro in un quartiere silenzioso, in un vicolo-viale alberato e costeggiato di muri, i famosi muri cinesi. Muri grigi dove sorridono qui e là portoni rosso lacca. Quando ne scorgo uno aperto, ci butto dentro lo sguardo e vedo un brulicare di vita nel cortile centrale su cui danno tutte le stanze della casa, panni stesi, biciclette. Ma per guardare devo superare un altro muro-parete costruito subito dietro al portone «per sbarrare il passo agli spiriti maligni che avanzano soltanto in linea retta», come ho letto nel Drago rampante (Sperling&Kupfer) della Pisu. Fortuna che le demolizioni hanno risparmiato questa meraviglia, così che un pezzo di vecchia Cina possa sopravvivere. Sulla strada si affaccia qualche raro negozio elegante, un antiquario, una boutique. M’infilo da Lost&Found attirata dal design minimal degli oggetti che vedo attraverso la vetrina: divani, tazze, vestiti. «Designed and made with love in Beijing» dice una didascalia. Linee scandinave e materiali cinesi, e un po’ di modernariato americano. Sono un gruppo di giovani stilisti che utilizzano solo legno, lane, cotoni naturali, mi dice educatissimo un ragazzo con gli occhialini in un inglese appena un po’ incerto. Compro di tutto e spendo parecchio, con vanità tutta europea, ma almeno qui non c’è traccia della paccottiglia di finte sete e velluti scadenti che ti offrono per due lire a ogni angolo. E non senti il blocco della muraglia linguistica che non concede allo straniero nemmeno di salire su un taxi, se non è munito dell’indirizzo scritto in ideogrammi. A differenza di Hong Kong dove i tassisti sono amichevoli, quelli cinesi sono fra i più sgarbati del mondo: conoscono solo la loro lingua e ti sbattono giù dall’auto senza complimenti al minimo problema. Sembrano terrorizzati dagli stranieri.
Ma forse sono gli stranieri terrorizzati dalla Cina. Io, lo ammetto, un poco lo sono. Soprattutto ora che la rivista Forbes ha promosso Hu Jintao l’uomo più potente del mondo.

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