I diari di Virginia (Espresso, 28/5/22)
Nella commedia degli Anni ’60, Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee, su una coppia litigiosa – diventata anche un celebre film di Mike Nichols con Elizabeth Taylor e Richard Burton – il titolo ha la sua ragion d’essere perché nel finale il marito ne canta le parole alla moglie ubriaca dopo che si sono massacrati rinfacciandosi colpe tremende con violenza inaudita. Virginia Woolf simbolo d’impazzimento, di rivolta al potere maschile, di destrutturazione di un linguaggio prevedibile in nome di una diversa visione delle cose e della letteratura? Woolf la pazza, sì, ma anche la rivoluzionaria. È ancora questa la percezione che abbiamo di lei? Scrittrice fra le più amate dalle donne, il cui genio artistico è universalmente accettato anche dagli uomini – e anzi molti arrivano a riconoscerle un’influenza diretta sul proprio lavoro, Thomas Bernhard e Ian McEwan per dire – siede oggi tranquilla nel suo incontestabile Olimpo. E paura non ne fa più. Mentre non finisce di sorprendere a ogni nuova lettura dell’opera, che spazia dalla narrativa alla saggistica, mentre non sono meno interessanti le sterminate pagine degli epistolari o dei diari. Scritture private, queste, che nell’economia di un genio diventano preziose perché non meno “letterarie”.
Mancavano ancora nella nostra lingua i cinque volumi dei diari (dal 1915 alla morte, avvenuta per suicidio nel 1941): grande impresa di traduzione affidata dalla Bompiani a Giovanna Granato (traduttrice di Edna O’Brien, David Foster Wallace, Jennifer Egan, Tim Parks, fra gli altri). Il primo volume, che copre quattro anni, è in libreria dal 25 maggio. In italiano avevamo soltanto, riproposto qualche anno fa da Minimum fax, il Diario di una scrittrice: scelta che delle tante pagine aveva fatto il marito di Virginia, Leonard Woolf, nei primi anni’50. Ma il suo criterio era stato eliminare la vita di tutti i giorni per privilegiare il pensiero letterario. «E così» osserva Granato «avevamo di Woolf un’idea astratta, molto intellettuale. Dai diari integrali viene invece fuori fortissimo il carattere, e le preoccupazioni della donna, il suo umorismo, la cattiveria anche, le beghe quotidiane e il suo modo di prenderle: le scarpe che le fanno male, l’andare a fare la spesa, l’amica che con un’osservazione superficiale la mette in crisi. E, soprattutto in questo primo volume, la fatica di diventare se stessa come scrittrice». Secondo Mario Fortunato, che firma l’introduzione e che ha tradotto recentemente per Bompiani diversi libri di Woolf, il diario «è il suo romanzo per eccellenza: il romanzo di ciò che presiede ai suoi romanzi», perché «è la scrittura stessa che guarda la vita».
Non a caso Leonard nel fare la sua scelta di pagine indimenticabili, elimina i primi due anni, cominciando dal 1918. Vuole una Virginia già consapevole delle sue doti letterarie, trascurando quella che vediamo muoversi all’inizio, molto più “casalinga”. La vediamo per esempio, il primo gennaio, interrogarsi sulla sorte della cameriera licenziata da una conoscente, mentre il 2 fa il ritratto della sua serena vita matrimoniale: scrittura ognuno in una stanza, letture diverse e poi passeggiata col cane, ritorno a casa per il tè «col miele & la panna». (Per velocizzare la scrittura usa spesso abbreviazioni e sempre il segno “&” al posto di “and”). Poi ci sono le corse al centro di Londra (loro vivono in periferia, a Richmond), le noiose pulizie, le lunghe lettere, riassunte, alla sorella Nessa, i piccoli litigi coniugali, le chiacchiere spietate sugli amici, che sono già i bloomsburiani del mito: Lytton Strachey, Roger Fry, Maynard Keynes, Clive Bell. E il giorno del suo compleanno, il 25 gennaio, vediamo Leonard a cui era stato proibito di farle il regalo (c’è la guerra, sono poveri, a volte non sanno cosa mangiare) che s’intrufola nel suo letto con una deliziosa borsetta verde per lei o qualche edizione rara…
Insomma, come scrisse il New York Times: «Niente contraddice così totalmente la leggenda di Virginia Woolf». C’è il rischio che, tanto evidentemente fragile, finisca col piacerci ancora di più rispetto alla coltissima, aspra intellettuale che diventerà col tempo. Per ora scrive articoli, con pseudonimo maschile, si danna sulle pagine del primo romanzo, La crociera, che aveva cominciato sette anni prima e di cui fa in tutto dieci stesure piena di ansia per il giudizio degli altri. In concomitanza con l’uscita del romanzo, poi, eccola la Virginia che conosciamo, quella che precipita in un buio pozzo di depressione, Virginia la matta. Ma il diario non ci dà soddisfazione. Perché lei non è abituata a guardarsi dentro e a parlare di quel che succede nel fondo oscuro di sé. Riesce solo a metabolizzarla nell’opera letteraria la sofferenza. E così il diario s’interrompe improvvisamente, dal 15 febbraio del ‘15 («Ho comprato un vestito blu da dieci scellini & undici penny che indosso in questo momento») al 3 agosto del ‘17, data in cui lo riprende con una nuova lingua sincopata da “ragazza interrotta”: «Venuti ad Asheham. A piedi da Lewes. Smesso di piovere per la prima volta da domenica. Ad Asheham gli operai stanno riparando il muro & il tetto».
Sì, Leonard ha deciso di abbandonare Londra del tutto, per proteggere Virginia dalla mondanità, dallo stress continuo del confronto con la genialità degli altri, quegli amici meravigliosi e faticosissimi. Perché, anche se nel diario non lo scrive, e adesso lo silenzia addirittura del tutto, lei quando si ammala ha le allucinazioni, urla e diventa pericolosa. Per fortuna c’è Leonard, oltre alle infermiere. Virginia con Leonard riprende a mangiare, si calma. E poi lui ha un’idea meravigliosa per tenerla impegnata durante la convalescenza: compra una pressa con cui pubblicheranno i loro libri. Ecco, così nasce Hogarth Press, che rapidamente diventerà la prestigiosa casa editrice di tanti, da Eliot a Mansfield, da Isherwood a Freud.
E così la ritroviamo nella seconda metà del ‘17 alle prese con la sua pressa. Piano piano la lingua da ragazza interrotta si scioglie. Lei la sorveglia quella scrittura inceppata, sorveglia la scrittura in generale. Si prepara, è evidente, travestita da editore, a diventare la scrittrice che sarà. Il diario è anche una grande palestra, dove la realtà nei suoi dettagli apparentemente insignificanti diventa il grande bagaglio di racconti futuri. Ed è stato questo il compito più difficile nel tradurla, spiega Granato: «Rispettarla nella trasformazione, assecondarla in un’espressività piena di inciampi, a volte tirata via, che si sta cercando». Un’espressività tutta esteriore oltretutto. Un giorno, siccome parlando con l’amica Ottoline Morrel aveva scoperto che per l’altra tenere un diario era indagare l’interiorità, si era chiesta perplessa se per caso a lei l’interiorità mancasse completamente.
La mette in un altro libro l’interiorità, Notte e giorno, più tradizionale della Crociera. Forse è il suo modo di dire addio alla classicità romanzesca, provando ad assecondarla. Un’impresa liberatoria, insomma, perché la sua voce si scrolli di dosso il passato e possa esplodere innovativa, uguale a niente altro. Di mese in mese diventa più sicura di sé, come donna e come scrittrice. E nel diario si avverte in modo preciso, man mano che si procede nel tempo. Si confronta con il maschilismo dei suoi amici che hanno studiato a Cambridge e mal sopporta l’arroganza, il senso di superiorità degli uomini. Un giorno, incontrando John Middleton Murry insieme alla moglie Katherine Mansfield, sua amica, dice: «Se ne stava lì grigio come il fango & ammutolito, ravvivandosi solo quando parlavamo del suo lavoro». Non risparmia nemmeno l’adorato Strachey e gli altri bloomsburiani dai quali si sente a volte messa da parte: «Quell’atmosfera maschile mi sconcerta. Non si fidano di me? Mi disprezzano?»
Sono pagine, soprattutto quelle del ’19, piene della difficile amicizia con Mansfield, che ammira all’interno di una costante competizione, ma per concludere: «Ci tengo alla sua stima». Poi però Katherine scrive una recensione a Notte e giorno che le dà «sui nervi». Crede di scorgervi del livore. «Mi fa passare per una vereconda allocca attempata; Jane Austen in versione moderna». Non le va giù il giudizio della collega che del libro dice: «Non lo definirò riuscito – o, se proprio devo, lo definirò riuscito nel modo sbagliato». Leonard la spalleggia e si arrabbia lui pure. Ma chissà se magari quella critica competente non le sia servita a diventare se stessa, più di tanti elogi inutili. Il romanzo successivo, infatti, sarà l’originalissimo La stanza di Jacob in cui racconta a modo suo, un modo davvero woolfiano, la figura di un fratello, Thoby, morto di tifo a ventisei anni. E certo adesso ci vuol altro che una recensione a ributtarla nel pozzo depressivo. Ha imparato a reagire, e questo primo volume dei diari si conclude in allegria con una frase “coniugale”: «Ora pensiamo di meritarci un po’ di fortuna. Anche se oserei dire che siamo la coppia più felice d’Inghilterra». Il secondo e il terzo entro l’anno.