Campagna contro le molestie di genere (L’Immaginazione 340, marzo-aprile ’24)
Dal 3 gennaio al 3 marzo di quest’anno giornali di carta e siti online sono stati invasi da articoli a firma femminile che si snodavano sotto una comune bandiera: «Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla». E sono state tante a partecipare, autrici notissime e giovani sconosciute, su quotidiani, riviste e blog, più di un centinaio, ben oltre le aspettative di Giulia Caminito che con Annalisa Camilli ha ideato la mobilitazione. E non semplicemente per levare la voce contro la violenza degli uomini sulle donne, ma per raccontare qualcosa di personale a testimonianza di come quella violenza sia un patrimonio tristemente comune che lascia profonde conseguenze anche quando non raggiunge esiti irreparabili. C’è una pagina Facebook che si chiama Unite. Azione Letteraria dove si possono trovare tutti gli articoli e altre notizie e commenti.
Adesso utilizzerò questa mia rubrica per sistemarmi io pure sotto la comune bandiera non tanto per denunciare, ma per nominare, perché hanno ragione Camilli e Caminito quando insistono sull’importanza di nominare quanto ci è accaduto sotto varie forme, non sempre archiviabili come sopraffazione fisica. Perché sono davvero tante, e subdole anche, le epifanie in cui questa sopraffazione si esprime, spesso in modo inconsapevole perfino da parte di chi la esercita, perché così sono sempre andate le cose e non è facile smontarle e ricomporle altrimenti. Non è facile per chi fa la violenza e tanto meno per chi la subisce. Anzi più si tratta di violenza mascherata (da desiderio, e persino da innamoramento) più è complesso difendersene. Quando mi è arrivata la mail di Giulia, invitandomi a partecipare alla comune azione letteraria, ho capito che la sottolineatura che stava facendo sull’aspetto personale voleva dire che non si doveva insistere sull’esame dell’ennesimo femminicidio, ma mettersi in gioco. Dire: è capitato anche a me. Nominare il problema, appunto. Perché la verità non abbastanza detta è che basta essere nate femmine per subire quel preciso trattamento violento, quell’appropriazione indebita, quel ricatto. Come ha chiarito Caminito in un’intervista: «Tutte le donne sono state vittime di violenze più o meno grandi». Tutte!
E mi sono messa a pensare, a ricordare. Quella volta che, avrò avuto 12 anni, un ispettore sportivo venne a “controllare” l’andamento della piscina a cui ero iscritta come promessa del nuoto italiano, e ci incontrò uno alla volta, ragazzi e ragazze, in una stanza chiusa per informarsi su come ci trovavamo e “visitarci”. E mi toccò dappertutto, anche in mezzo alle gambe. E io sentivo che qualcosa non andava, ma non ebbi il coraggio di dirlo a nessuno, né piccolo né grande. Quella volta che volendo fare la giornalista mi presentai al direttore di un quotidiano di provincia, amico di una mia amica, per vedere se mi faceva collaborare, e mi sentii chiedere: «Ma tu lo sai che per fare la giornalista, devi essere un po’ mignotta? Lo sai come ha cominciato la Fallaci?» Non lo sapevo e non volevo saperlo. E allora iniziò per me una lunga gavetta, da articoli anonimi alla conquista della firma, dalla Cronaca alla Cultura di diversi giornali. Con qualche intoppo e declassamento, quando incappavo in un caposervizio che si dichiarava perdutamente innamorato di me e se io disgraziatamente non ricambiavo… via, retrocessa, tanto ero una povera free-lance difesa da nessun contratto. E quella volta che, volendo pubblicare il mio primo romanzo (sarebbe stato Navigazioni di Circe) un importante editor di una grossa casa editrice non mi disse: «È bello, è brutto, te lo pubblico, non te lo pubblico», ma: «Come si fa a entrare nella gabbia di Circe?» E siccome evitai di spiegarglielo, il libro mi venne restituito senza altri commenti. E quell’altra volta che un famoso scrittore, con cui avevo avuto una storia, bloccò un altro mio libro presso un prestigioso editore in cui lui era una potenza, «per non avermi fra i piedi» disse, perché l’avevo ferito. Potrei continuare, ma lasciamo perdere. Credo di aver accennato abbastanza allo slalom cui una ragazza della mia generazione (anni ‘50) era costretta volendo imporsi nel mondo intellettuale. E se alla fine me la sono cavata arrivando finalmente a fare la scrittrice e la giornalista (ci sono voluti 10 anni per avere il famoso contratto) è perché ci sono anche fra gli uomini di potere i cosiddetti gentiluomini e io ne ho incontrato uno, al Messaggero, di cui tengo a fare il nome anche se non calca più la terra da diversi anni, Luigi Vaccari, che mi accolse al servizio Spettacoli che dirigeva senza clausole e senza ricatti, credendo in me e permettendomi di andare avanti. Ma perché uomini come lui dovevano essere una mosca rara? E perché non c’era mai una donna nei posti di comando? Ai posteri (ma anche ai contemporanei) l’ardua sentenza.